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Era una bellissima mattina di settembre e la piccola Anna già era sveglia da un bel pò; la mamma già l’aveva pettinata raccogliendole i capelli in due bellissimi codini che lei adorava tantissimo.
“Oggi è un giorno speciale” le dice la mamma
“Perché? Mica è il mio compleanno, è solo il primo giorno di scuola” rispose la piccola
“Dai, non fare la sciocchina, andrà tutto bene”
La mamma prende le chiavi della macchina per accompagnare la piccola a scuola ed Anna senza esitare salta giù dalla sedia e corre verso la porta di ingresso pronta ad uscire.

Durante il tragitto in auto Anna parlò veramente poco perchè pensava e ripensava alle parole che le aveva detto la mamma con la paura che avesse dimenticato qualche cosa importante che doveva svolgere a scuola, ma i suoi pensieri vennero interrotti nel momento in cui aveva notato che la mamma aveva preso una strada diversa.
“Mamma perché hai preso una strada diversa? Rischiamo di fare tardi così”.
“Tranquilla, inizi alle 9”.
“No mamma, faremo sicuramente tardi”.
Anna inizia a piangere e ad urlare perché non aveva per niente voglia di fare ritardo “Calmati, siamo arrivate”.
“Ma mamma questa non è la scuola”.
“Amore ma non hai bisogno della scuola, ormai sei responsabile, sei il sindaco della città”.
“Cosa sono io? Quando è successo”.
“Amore smettila di essere così sbadata, su vai che hai tanto lavoro da fare”.

Anna non capiva, che significa essere sindaco? E può una bambina di solo 8 anni gestire una città intera?
La città della piccola Anna era molto grande e quasi le faceva paura questa cosa, lei sapeva scrivere, sapeva leggere, sapeva le tabelline, ma non sapeva come gestire una città ma nonostante ciò si fa coraggio ed entra in quel grande edificio che le sembra quasi un castello
“È proprio grande qui, chissà dove devo andare”.

Passeggiò a lungo nei corridoi guardando tutte le foto che erano appese al muro, le guardò ad una ad una concentrandosi a capire cosa rappresentassero.

“Signorina”.

Anna si girò di scatto e vide che molto distante da lei c’era un bambino, più o meno aveva la sua stessa età.
Confusa si avvicina mentre il bambino continua a parlare. “Signorina, sono qui, sono il vostro assistente, mi chiamo Valerio e sono a vostra disposizione per qualsiasi dubbio lei abbia”.

“Ciao Valerio, io sono Anna, anche i tuoi genitori ti hanno portato qui per sbaglio? Pensa, mamma doveva portarmi a scuola ma ha detto che io sono il sindaco e devo lavorare qui, la mamma sarà stanchissima e probabilmente ha dato di matto”

“No signora, vostra madre non ha dato di matto, ha ragione, lei è il sindaco, e per non scoraggiarla ma c’è tantissimo lavoro da svolgere oggi”.
“Ma come può essere! Ho solo 8 anni, non posso portare avanti una città, ci sarà stato un errore”.
“Nessun errore glielo assicuro”
Anna lo guarda con una faccia confusa e non capisce come un bambino di 8 anni possa parlare in modo così da grande; lei le uniche parole che la fanno sentire grande sono “evidentemente” e “privacy”, la prima la mamma la dice spesso, la seconda l’ha ascoltata in tv e le sembrava complicata solo perchè finiva con una lettera diversa da quelle che lei ha studiato a scuola.

“Mi segua, il vostro ufficio si trova da questa parte”.
Valerio interruppe i pensieri della piccola Anna.
“Va bene, ma cos’è un ufficio?”.
“L’ufficio è una stanza allestita con vari comfort che fanno si che il vostro lavoro non vi risulti pesante”.
“Tipo una stanza dei giochi con la casa di Barbie e il castello delle principesse?”.
“No signorina mi dispiace ma qui non si trova nessuna casa di Barbie ne tantomeno un castello delle principesse, siamo arrivati”.

Alla vista di quella stanza ad Anna vennero quasi i brividi, era dipinta di due colori, bianco e grigio scuro, sembrava quasi un carcere di quelli delle serie tv che guardava suo padre. Al centro c’era una grandissima scrivania con vari articoli di cancelleria orribili.

“Signorina Anna se ha qualche richiesta mi dica pure”.
“Una richiesta c’è l’avrei: voglio le penne colorate e anche i miei pastelli”.
“Signorina ma non può mica firmare i documenti con le penne colorate!”.
“Non mi interessa, voglio le mie penne colorate!”. Scoppiò in un pianto capriccioso che subito fece stancare Valerio.

“Va bene signorina, non pianga, ogni vostro desiderio è un ordine”.
In me che non si dica ciò che aveva chiesto Anna era già sulla sua scrivania.
“Perfetto Valerio, grazie mille”.

Anna iniziò ad ambientarsi molto bene, chiese di ridipingere il suo ufficio di rosa e di sostituire tutti i vecchi libri che c’erano nella libreria con i libri delle sue favole preferite, addirittura venne installata un’aria gioco nel comune per lei e tutti i suoi amici. Ma prima o poi dovevano pur arrivare gli incarichi da sindaco.

“Buongiorno signorina, so che non è l’ideale iniziare la giornata così, ma abbiamo un problema con le strade, sono completamente tutte rotte, piene di buche e rischiamo di causare diversi incidenti, tutti i cittadini si stanno lamentando.”
“Buongiorno a te Valerio, quanti problemi oggi. La soluzione è molto semplice: sostituiamo l’asfalto con gomme da masticare rosa”.
“Signorina, ma come facciamo?”.
“Non mi interessa, avete detto che ogni mio desiderio è un ordine, io la soluzione ve l’ho trovata”.
“Giusto signorina, faremo il possibile”.

Stesso quel pomeriggio, l’asfalto grigio e bucato venne sostituito con un’immensa cascata di gomme da masticare rosa.
“Signorina, gli automobilisti stanno facendo diverse domande su come faranno a guidare su del chewing gum, poiché le ruote delle automobili non sono adatte e rischiano di bloccarsi”.
“Sostituite le gomme delle auto con delle rotelle di liquirizia, è semplice come soluzione”.
Anche questo accadde stesso quel pomeriggio e i cittadini iniziarono a provare un senso di ammirazione per questo nuovo sindaco misterioso che stava stravolgendo la città.

Arrivò l’autunno, e con l’arrivo dell’autunno gli alberi iniziarono a perdere foglie che si appiccicavano ovunque sulla strada di chewing gum.
“Signor sindaco”.
“Dimmi Valerio”.
“Stamattina c’è stata una rivolta dai cittadini che non riescono più a camminare per strada a causa di tutte le foglie che si appiccicano ovunque, vorrebbero abbattere gli alberi”.
“Ma Valerio cosa dici, sono impazziti, gli alberi ci donano l’ossigeno che respiriamo tutti i giorni, come hanno potuto pensare questo?”.
“Allora dovete trovare una soluzione”.
Ad Anna questa volta la soluzione non venne facile come per la strada, ci rifletté per una giornata intera, ma non riusciva a trovare soluzioni adeguate fin quando…

“Valerioo”.
“VALERIOOO”.
“Signorina, mi dia il tempo di arrivare da voi”.
“Valerio, ho trovato la soluzione, gli alberi il trasformiamo”.
“E come li trasformiamo?”.
“Semplice, i tronchi li facciamo di cioccolata, qualcuno al latte e qualcuno fondente, mentre per la chioma usiamo lo zucchero filato”.
“Signorina rischiamo che i cittadini mangiano gli alberi in questo modo, non credo sia fattibile”.
“Per me è fattibile, quindi cosa state aspettando?”.

E così anche gli alberi subirono la trasformazione del piccolo sindaco e ai cittadini sembrava gradire molto. Qualcuno tentava di mordere degli alberi ma, per chiunque veniva scoperto, c’era una sanzione amministrativa che consisteva nel non mangiare zuccheri per 24 ore e così non appena il primo cittadino venne punito con ciò, gli altri non ci provarono neanche ad addentare un albero.

Venne l’inverno, il freddo iniziò a farsi sentire e nella testa della piccola Anna l’idea di fare qualcosa per i suoi cittadini bolliva da un paio di settimane.
“Valerio, cosa possiamo fare?”
“Beh signorina, potete far installare delle stufe in tutta la città”.
“Valerio, non essere sciocco, come faccio ad installare delle stufe in tutta la città”.
“Avete fatto diventare degli alberi di cioccolata, non vedo come non potiate installare delle stufe in giro”.
“No Valerio serve qualcosa di più originale”.
Anna non si sarebbe fermata di certo ad una cosa così banale e l’idea gli venne a casa mentre sua madre gli stava preparando una cioccolata calda.
“Ci sono!”
“Cosa hai pensato questa volta piccoletta?”, rispose la madre.
“Farò installare delle fontane di cioccolata calda in modo che i cittadini quando hanno troppo freddo possono prendersene una gustosa tazza”.
“Ottima idea”.
“E farò costruire case di marshmallow in modo che possano staccarne un pezzo e inzupparlo nella cioccolata”.

Il giorno seguente tutte le idee vennero comunicate al suo assistente Valerio che in me che non si dica fece diventare le idee di Anna realtà.
“Grazie Valerio, sei sempre unico”.
“Questo ed altro per il sindaco migliore che questa città potesse avere”.

Le idee di Anna continuavano ad aumentare: i pali della luce diventarono enormi bastoncini di zucchero natalizi, le case iniziarono ad essere tutte colorate come gli involucri delle caramelle, le panchine vennero costruite con i wafer e tutte le giostrine del parco diventarono delle caramelle gommose. Passato il freddo anche le fontane che erogavano cioccolata calda si trasformarono in fontane di succo di frutta fresco per affrontare il caldo.

“Signorina, in vista dell’estate bisogna portare delle novità per le spiagge”.
“Questa la sto pensando da molto, trasformiamo il mare in cioccolato fuso”.
“Le persone secondo lei farebbero il bagno nel cioccolato fuso?”.
“Tu non lo faresti?”.
“In realtà pensandoci si”.
“Perfetto, allora il mare sarà di cioccolato fuso mentre la spiaggia sarà zucchero”.
“Zucchero?”.
“Si, così non ci saranno più quei tremendi granelli di sabbia e la mamma non urlerà più quando li trova in giro per casa”.

Anche questa richiesta fu accolta e i cittadini passarono un’estate veramente molto dolce. Nessuno si era lamentato del nuovo sindaco, anzi volevano che durasse per sempre, così per ringraziarlo organizzarono una grande festa.

Anna si preparò al meglio per questa grande evento. Allestirono un palco, ovviamente fatto di cioccolata, proprio sotto al comune e lei scelse un vestito di zuccherini rosa fantastico. L’ora di presentarsi ai cittadini era giunta e non appena salì sul palco venne accolta con un grande applauso che andò subito a spegnersi e venne sostituito con lo stupore dei cittadini nello scoprire che l’artefice di tutto il cambiamento che aveva subito la città , fosse una bambina di soli 8 anni.

“Salve a tutti, io sono Anna; lo so forse sono un pò piccola per gestire una città ma mi piace molto. Mi è piaciuto molto trasportare voi adulti nella fantasia di noi bambini, ed è per questo che ho fatto tutte queste richieste strane; mi piace vedere la vostra faccia stupita come la faccia stupita di un bambino che ha appena ricevuto da Babbo Natale il regalo che desiderava. Voi adulti siete sempre di fretta, correte di qua e di là tra lavoro e famiglia e non vi soffermate mai ad immaginare cose irreali che potrebbero rendervi felici. Avete ancora la fantasia di quando eravate bambini ma non avete più il tempo di metterla in atto, ed è per questo che vi ho regalato un pò della mia fantasia e spero di poterlo fare anche in futuro”

In quell’istante partì un applauso che sciolse il cuore della piccola Anna, che si trovava su quel palco ad abbracciare il suo assistente Valerio per averla assecondata in tutto, mentre tutti i cittadini iniziarono quella grande festa con musica e buon cibo, ma proprio quando tutto sembrava andare per il meglio,Valerio gli disse: “Svegliati devi andare a scuola altrimenti fai tardi”.

“Cosa?”.

Neanche il tempo di pronunciare le ultime parole che tutto ciò che aveva intorno svanì nel nulla.

“Anna dai svegliati facciamo tardi”.

La voce di sua madre le fece aprire gli occhi, e solo lì si rese conto che non c’era nessun mare di cioccolata e nessuna strada fatta di chewing gum e che tutto ciò che aveva vissuto era solo un sogno.

“Mamma ho fatto un sogno bellissimo, la spiaggia era di zucchero, le fontane di cioccolata calda d’inverno e di succo alla frutta d’estate, c’erano le panchine di…”
“Anna dai me lo racconti in macchina sono di fretta”

La piccola Anna sbuffò e disse :
“Ecco cosa intendo quando dico che gli adulti sono sempre di fretta.

“Come vorrei vivere a ChocoLand ora!”

Anna Romito, Torre del Greco

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La ferita, però, fu comunque, larga oltre che abbastanza lunga, ed il latitante gridò selvaggiamente, inginocchiandosi.
Fernando, seppur corpulento, agì velocemente, si frappose come scudo a Gallucci inginocchiato e fece fuoco.
L’arciere, sul tetto, fece in tempo solo a gridare ed a spiaccicarsi a faccia in giù sul pavimento del terrazzo.
Gallucci gridava, Fernando perdeva sangue dall’avambraccio sinistro.
Fu allora che Rino lo vide.
Un indigeno che era salito dalla scala che sarebbe dovuta essere sbarrata con una porta in cartongesso.
L’arciere sopraggiunto puntò sul bersaglio grosso di Gallucci e Fernando, posti vicini l’uno all’altro.
Rino sapeva che questa volta non poteva esitare e si lanciò contro il nemico che era pronto a scagliare il colpo.
L’indigeno se ne accorse e puntò la freccia contro il suo aggressore.
Fu un attimo.
Anche Rino si accorse di essere sotto tiro e caricò ad occhi chiusi.
La parte di ringhiera non tenne ed i due precipitarono giù in giardino.
Gallucci gridò, allora, di tornare dentro, in quanto sarebbero, presto, arrivati degli altri.
Fernando voleva, invece, andare a sporgersi per vedere cosa fosse successo.
Il latitante gli disse che, in quel luogo, erano, entrambi, sotto tiro e che erano gli unici ad avere una pistola.
Rientrarono.
Sotto, intanto, era il terrore.
Gli spari e le urla che provenivano da sopra avevano ghiacciato tutti.
Fino a quando non si udirono le voci di Fernando e di Gallucci che discendevano le scale; di sotto era stato il panico.
Fernando disse di andare a controllare fuori dove fosse caduto Rino con l’indigeno.
Ma non vi fu tempo di farlo.
Improvvisamente si udì un boato.
Come un uragano.
Qualcosa entrò frantumando il grande portone centrale.
L’impatto fu spaventoso e colossale.
La polvere ed il frastuono furono insopportabili.
Qualcuno riconobbe il camioncino bianco dei proprietari della villa, ora fracassato nell’anticamera della grande sala.
Dietro di esso entrarono gli indigeni.
La grande porta finestra di ingresso era l’unico punto del piano terra che non fosse protetto dalle grate di ferro; ciò in quanto, all’occorrenza, vi era una saracinesca che scendeva a coprire le porte vetrate in pvc di colore bianco.
Tale chiusura non era stata fatta scendere poiché sarebbe stato, per gli occupanti, come chiudersi in una sorta di trappola.
Fu una scelta sbagliata.
Perché gli indigeni avevano escogitato una strategia per entrare.
Dapprima mandare un’esca a distrarre il nemico, quindi far salire un commando di infiltrazione nella dimora, per poi sfondare lo sbarramento, utilizzando il camioncino.
Gli invitati, però, avevano adottato una specie di contromisura per arginare un assalto, dalla sola parte dello stabile che non fosse difesa.
La prima consisteva nell’aver eretto una seconda linea di sbarramento, con le panche e con i tavoli, all’ingresso della grande sala del ricevimento.
Il camioncino si andò a scontrare, infatti, contro i pesanti mobili della “reception” posti dinanzi ad un muro portante che divideva la sala della festa dall’altra sala un po’ più piccola, che era rimasta chiusa.
Quando il veicolo arrestò la sua corsa contro il grande e pesante bancone di legno e marmo, gli indigeni presero a fluire all’interno dello stabile.
La tribù, però, si scontrò contro lo sbarramento di difesa, costituito dal mobilio, e nell’oscurità di chi non conosceva la conformazione dell’ambiente interno della villa; questa barriera fu, in un primo momento, un argine efficace.
Diede modo, così, agli invitati di attuare la seconda forma di difesa: il repentino arroccamento, cioè, nei locali della cucina, protetti da una grande ed antica porta di legno a due battenti, rimodernata.
Nel buio e nel più cupo ed insano dei terrori, però, porre in esecuzione, correttamente, il piano di evacuazione stabilito, fu comunque arduo e complicato.
Qualcuno cadde, qualcuno non riuscì a muoversi ed a raggiungere la cucina, qualcuno provò a parlare o a chiedere pietà agli aguzzini indigeni.
Tutti costoro ricevettero solo le frecce, pugnalate e la folle bramosia di uccidere dei membri della tribù.
I quali agivano come dei leoni affamati che si erano fatti strada in una mandria, sconfinata, di antilopi.
Gli indigeni colpivano e davano morte con insano appagamento.
Tra gli invitati qualcuno cercò di coprire la fuga delle donne e degli altri ed affrontò l’orda brandendo le proprie armi.
Jonathan vide Valeria scortata da Domenico verso la cucina, furono raggiunti da un indigeno che si lanciò contro di loro.
Jonathan provò ad intervenire ma tutto accadde in un attimo.
L’aggressore colpì Domenico con la lancia nell’addome e poi ritrasse l’arnese.
Mente il ragazzo si piegava in ginocchio, Valeria urlò disperata, non riuscendo più a muovere, neanche un dito.
Jonathan, con una padella per castagne con il manico in legno e l’asta in ferro battuto, presa dal grande camino centrale, riuscì a colpire il capo dell’indigeno da dietro.
Costui crollò tramortito.
Il giovane terrorizzato prese Valeria, di peso, essendo la ragazza, ormai, resa immobile ed inerme dal terrore e dalla disperazione e la condusse in cucina.
Jonathan ebbe, quasi, l’impressione, mentre la trasportava, che la ragazza fosse svenuta in piedi.
Mirko Gallucci scaricò il caricatore della sua Beretta contro i nemici, i quali gli venivano incontro come se fossero i personaggi di un videogame.
Il latitante sparava, ed ogni colpo si portava con sé una vita.
Eppure gli indigeni non si fermavano.
Due colpi erano stati esplosi dal sicario della ndrangheta di sopra.
Gli altri tredici furono usati per abbattere otto giovani indigeni.
Esaurito il caricatore, Gallucci non fece in tempo a sostituirlo che venne affrontato da un altro aguzzino con la lancia.
Il latitante non si scompose, afferrò la lancia del suo aggressore, con un calcio lo allontanò e si impossessò della sua asta appuntita.
A nulla valse un improvviso barlume di umanità del giovane indigeno che si accorse di quanto stava succedendo e sembrò, quasi, chiedere pietà.
Gallucci lo infilzò con entusiasmo e sadica soddisfazione.
Il latitante riprese, allora, la pistola, a terra, per ricominciare il suo tiro al bersaglio, ma venne, in quell’istante, raggiunto da una freccia sulla spalla destra e da un’altra alla gamba sinistra.
Due indigeni, allora, lo accerchiarono, entrambi armati di lance.
Gallucci si avvicinò al tavolo alle sue spalle, prese una delle bottiglie ed uno degli accendini, ivi predisposti, e si girò verso i suoi aguzzini, proprio mentre questi lo infilzavano con le aste.
In quello stesso istante, il latitante, gridando, accese l’accendino, e diede fuoco allo straccio imbevuto intorno alla bottiglia piena di gasolio, proferendo, con la bocca colma di sangue, le sue ultime parole: “ Crepate bastardi! Tuttiii!!!”.
Il sicario della ndrangheta fracassò la bottiglia incendiaria, accesa, sull’asta di una delle due lance.
Rotto il vetro, il carburante si sparse ed incontrò la fiamma dello straccio acceso da Gallucci.
Fu come l’accensione di una stella.
Il fuoco divorò tutto.
Fu una esplosione di fiamme e di luce.
Gli indigeni arretrarono e fuggirono verso l’uscita, gli invitati chiusero la grande porta della cucina; mentre alcuni, di entrambi gli schieramenti rimasero bloccati nella sala.
Fernando era stato circondato, senza più proiettili e senza la possibilità di sostituire il suo caricatore.
La deflagrazione lo salvò dalle armi degli indigeni che preferirono darsi alla fuga, tra le fiamme, per guadagnare l’uscita.
Il poliziotto non aveva altra via di uscita che tra le scale rimaste aperte.
Fernando, allora, richiuse la porta segreta dietro di sé, anche nel tentativo di bloccare le fiamme.
Gli invitati erano nei locali della cucina.
Gli indigeni se n’erano andati, ma la sala stava bruciando e presto le fiamme avrebbero raggiunto tutti.
I locali cucina avevano solo finestre alte, con delle grate di ferro fisse.
Gli invitati erano in trappola.
Eccezion fatta per la porta che dava sulla sala da ricevimento, più piccola, rimasta chiusa e non utilizzata per la festa.
Non vi era scelta.
O uscire ed andare incontro agli indigeni o restare e morire carbonizzati.
Il frastuono delle fiamme dall’altra parte della porta era assordante.
Il fumo e l’odore acre cominciava a penetrare nei locali della cucina.
Gli invitati erano afflitti da un dolore insostenibile per la perdita di amici e parenti e per il terrore di subire, anche loro, ben presto, una fine altrettanto tragica e cruenta.
Jonathan si accorse di tenere ancora, stretta a sé, Valeria; la quale, però, era in uno stato di shock e non dava più segni di essere presente.
“Piero dobbiamo uscire!” proruppe Jonathan.
Piero Monte, il festeggiato, aveva i nervi lacerati, teneva sua sorella, Daria, ancora appoggiata sulle spalle: “Per cosa? Per farci ammazzare!!?!”.
“Piero, ascolta – disse Jonathan cercando di mantenere la calma – ci sono altre molotov sul tavolo, appena il vetro comincerà a cedere per la temperatura dell’incendio, esploderanno tutte…crollerà tutto qui!!!!”.
Pino Nassa che camminava zoppo, avendo ancora la freccia conficcata nella gamba: “Usciamo, meglio morire lottando che bruciati vivi qua!”.
Dopo una rapida consultazione con coloro i quali erano ancora capaci di intendere e di volere, gli invitati aprirono la porta della sala, che non era stata utilizzata per la festa e, come, una masnada di lebbrosi afflitti dalle piaghe, iniziarono lentamente ad uscire trasportando, di peso, feriti ed inermi.
Fernando, nel frattempo, salì al piano superiore, seppur conscio che le fiamme lo avrebbero, presto, raggiunto.
Il poliziotto sapeva che, da un momento all’altro, le altre molotov si sarebbero incendiate e la Villa Claudia sarebbe diventata un immenso falò.
In quel momento Fernando agì d’istinto, e dopo aver percorso, con circospezione, ogni metro della dimora di Gallucci e del balcone, cominciò a scendere dalla scala esterna; favorito dal fatto che la porta di cartongesso era stata divelta dall’indigeno che era precipitato con Rino.
Fernando scorse in giù prima di scendere e non vide tracce né dell’amico né, tantomeno, dell’arciere.
Erano spariti.
Il poliziotto, però, non incontrò nessuno ad attenderlo ed ebbe gioco facile a raggiungere il giardino ed a nascondersi dietro delle giostre.
Giusto in tempo, perché il fuggitivo assistesse ad una scena agghiacciante.
La tribù era schierata, a semicerchio, ad una trentina di metri dalla entrata principale della villa.
Delle torce erano state accese e la donna, che sembrava più grande di età rispetto agli indigeni più giovani, capeggiava sulla tribù schierata.
Gli invitati, con i feriti trasportati, iniziarono ad uscire e si fermarono dinanzi al loro plotone di esecuzione.
Le donne piangevano e chiedevano spiegazione di tanta barbarie e ferocia inumana.
Gli uomini si preparavano ad una flebile resistenza, votata ad un esito tanto tragico quanto scontato.
La tribù non parlava, non rispondeva, pregustava solo il suo banchetto di sangue e di vite umane.
La capo tribù, allora, parlò, con la stessa identica voce stridula ed atona dei suoi indigeni: “Offre l’homme blanc en sacrifice à la nature!
Justice pour peuples anciens!”
Elvira scoppiò a piangere, ed anche chi non comprendeva il francese intese che era stata pronunciata una condanna definitiva su tutti loro.
Fernando aveva una Beretta con il caricatore pieno.
Erano 15 colpi, però gli indigeni, rimasti, erano almeno una trentina.
Iniziare a sparare avrebbe, allora, decretato la sua fine certa.
Il poliziotto sapeva che, in quelle condizioni avrebbe, forse, abbattuto sei o sette degli assassini.
Sapeva, però, al contempo, che gli altri assassini non sarebbero fuggiti via; lo aveva già constatato in precedenza.
Gli altri della tribù lo avrebbero massacrato, ed ora lui aveva paura.
Fernando sentiva di non riuscire più a compiere il benché minimo movimento ed ad articolare alcun pensiero che fosse coerente.
Il poliziotto sentiva solo un incessante tremolio in tutti i suoi arti, la vista gli si stava annebbiando… sentiva che stava per cedere.
La capo tribù riprese a parlare: “L’homme blanc va s’èteindre.
Le monde retour…”.
La donna si bloccò.
Era comparsa un’ombra alle sue spalle.
Dal buio qualcosa si era materializzato dietro di lei e l’aveva afferrata.
Una freccia penetrò il collo della capo tribù, mentre costei, alzando gli occhi al cielo diede un urlo spaventoso.
Quando l’ombra, ebbe compiuto lo sgozzamento, lasciò cadere, esanime, il corpo della capo tribù; qualcuno degli invitati riconobbe la figura di Rino Morselli!
Il giovane, seppur vistosamente ferito e sanguinante, lasciò cadere anche la freccia, sputò con sdegno e disgusto sul cadavere della indigena e, dopo aver barcollato, crollò anch’egli a terra.
“Madame!!!Madaaamme!!Madaaaaammmmeee!!!!!!!!!”
Le grida di terrore e di sgomento degli indigeni furono isteriche e schizofreniche; pareva quasi che fosse stata recisa una parte del corpo ad ognuno di essi.
Le torce e gli archi caddero a terra.
Gli aguzzini parevano in preda al panico più insano e terrificante.
Fernando trovò, allora, il coraggio e cominciò a fare fuoco.
Due indigeni, un ragazzo ed una ragazza, dopo circa sei colpi esplosi, caddero a terra feriti.
Gli altri, quasi, non se ne accorsero.
Gli indigeni continuavano a fissare il corpo senza vita della Madame.
Cominciarono, incredibilmente, gli aguzzini, a piangere disperati ed a urlare come forsennati.
Fino a quando, gli ulteriori spari di Fernando non li fecero fuggire via.
Tutti gli indigeni uscirono di corsa dal perimetro della villa, continuando a guardare ed a gridare verso il cadavere della loro capo tribù.
Fernando raggiunse gli altri invitati.
Jonathan, tenendo ancora stretta a sé Valeria, chiese a tutti di allontanarsi dalla villa, prima che le molotov, all’interno, esplodessero.
Dopo tre quarti d’ora, giunsero i vigili del fuoco, chiamati dai proprietari della struttura, a loro volta allertati, a distanza, dal sistema di allarme della villa.
Quando giunse l’alba, l’incendio di Villa Claudia era domato, ma quei luoghi brulicavano di forze dell’ordine e di operatori sanitari.
Le indagini che seguirono, dopo quella che venne definita, da giornali e tv, come la “Strage della Villa”; portarono all’arresto dei proprietari della struttura per aver favorito la latitanza di Mirko Gallucci.
La Madame venne individuata essere come la professoressa Assira Calcati, docente di storia al Liceo Artistico “Salvador Dalì” del vicino Comune di Pignone.
Gli indigeni erano tutti suoi studenti.
Quelli, di loro, rimasti in vita furono internati in strutture sanitarie per la cura delle malattie mentali.
Erano stati tutti plagiati, condizionati e soggiogati, in maniera irreversibile dalle convinzioni antropologiche della loro professoressa.
Secondo la quale, tutti i popoli non europei, vivevano rispettando e tutelando l’ecosistema che li ospitava.
Tale equilibrio antropologico ed ecologico, sempre secondo la docente, era stato violato dalle invasioni dell’uomo bianco.
Il quale aveva, talvolta, quasi sterminato, come nel caso degli Indiani d’America o degli indigeni della Savana ed a volte estinto, come nel caso di Maya, Incas ed Aztechi; tali popolazioni.
Dopo questi immani scempi, poi, gli europei, sempre secondo le tesi della professoressa, erano passati allo sfruttamento ed al depauperamento irreversibile delle risorse naturali di tali paradisi incontaminati.
Per Assira Calcati, l’uomo bianco doveva risarcire quei popoli e ripristinare i loro habitat.
Per tale ragione, l’insegnante, aveva plasmato le menti dei suoi studenti e li aveva forgiati come uomini e donne dei popoli antichi.
Coloro i quali si riebbero dal sortilegio della loro incantatrice, narrarono, nei giorni a venire, di esperienze bellissime vissute tra la natura, quasi, come un gioco ed una scoperta.
Correre nei boschi, accendere il fuoco, cantare le antiche nenie dei popoli perduti e dimenticati, abbigliarsi e dipingersi come loro; tutto riportava l’animo degli studenti ad una dimensione arcaica e primigenia.
Era la nascita di una nuova innocenza.
Tutto in quella esperienza era puro e sincero, era come una catarsi.
Far riaffiorare, dal più recondito dei propri cromosomi, le reminiscenze sopite trasmesse dalle vite e dai ricordi degli antichi avi; era plasmante ed avvolgente.
Rivivere le immagini e ricordi, remoti e lontani, vissuti da genti che erano tutt’uno con la natura e con le sue leggi; era, al contempo, destrutturante e ricostituente.
Tali pratiche ridestarono e fecero riemergere l’anima più vera e sincera di quei giovani, riportandoli ad un passato di libertà assoluta.
Tutto fu bellissimo e coinvolgente, e nulla pareva sbagliato.
Anche il successivo uccidere, per doversi nutrire, era una forma di rispetto per la natura stessa.
Non sopprimere animali per un insano piacere o per una vacua vanità; si prendeva dalla natura solo ciò che era giusto e necessario.
Giusto e necessario divennero, col tempo, i soli numi tutelari e le uniche divinità che accompagnavano quei giovani, nelle lunghe gite di ricerca e di studio tra i boschi.
La Madame sapeva ciò che era giusto, lei conosceva ciò che era necessario.
Lei disse cosa andava fatto, perché giusto e perché necessario.
I ragazzi lo fecero.
La scelta delle prede, da offrire in sacrificio sull’altare della loro causa ecologista; poi, era stata compiuta osservando i continui spostamenti a Villa Claudia.
Luogo, questo, limitrofo alle cavità, agli anfratti ed ai campi dove la tribù, sovente, si addestrava e soggiornava per il compimento dei propri riti e delle proprie celebrazioni ancestrali ed ataviche.

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l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

Qualcuno temette e percepì che un’altra tragedia stesse per capitare.
Soprattutto chi riconobbe il timbro della voce di chi chiedeva aiuto, in preda ad una disperazione senza eguali.
Tutti si precipitarono all’ingresso della villa che dava sul grande cancello.
Chi vide quella scena non la dimenticò mai più.
Antonio Dattore era legato al cancello, con le mani in alto.
Dietro di lui dei giovani, ragazzi e ragazze, abbigliati e dipinti, come aveva narrato Rino Morselli, sulla stregua dei peggiori cannibali della più cupa savana del Continente Nero.
Insieme ad essi, una figura femminile che pareva appartenere ad una donna matura.
Tutti erano armati, di arco o di una lunga lancia appuntita; alcuni avevano in mano delle torce infuocate accese.
Una ragazza con il corpo dipinto di nero, tranne che per il volto e la parte frontale, dipinti di bianco, su di uno sfondo scuro; teneva, invece, una lancia puntata alle spalle di Antonio.
Il ragazzo era ferito, piangeva e chiedeva aiuto.
Era qualcosa di inaccettabile.
Nessuno ha diritto ridurre un altro essere umano in tali condizioni.
La ferocia con la quale la tribù stava torturando il proprio prigioniero, poteva essere concepita e compiuta solo da parte di una comunità che non avesse, mai, acquisito alcun barlume o rudimento di civiltà e carità umane.
La furia si impadronì degli invitati.
Alcuni dalla villa volevano uscire, erano presi da una rabbia furente.
Non appena, venne messo in pratica tale intendimento, ed alcuni degli invitati furono all’esterno, però, furono, subito, bersagliati da frecce e dovettero riparare, di nuovo, dentro; chiudendo le porte di pvc e nascondendosi dietro le finestre con le protezioni metalliche.
L’esecuzione doveva avvenire senza intoppi.
Le urla e le minacce degli invitati, colmi di riabbia, furono zittite dalla ragazza che teneva la lancia contro Antonio, la quale iniziò a ripetere, diverse volte, ad alta voce:
“L’humanitè est africane!
L’Homme blanc est criminel!
L’Homme blanc tue la planate!”.
Detto questo, la ragazza infilzò con la lancia la schiena di Antonio Dettore il quale urlò disperato.
Gli invitati trasalirono, la rabbia se li prese tutti, non seppero cosa fare, decisero di uscire e di lanciarsi contro gli indigeni.
Nessuno di loro accettava di assistere, inerme, ad un tale abominevole sacrificio umano.
Pino Nassa era amico di Antonio Dettore, nonché compagno di mille e mille bevute, e non seppe trattenere l’impeto d’ira.
Il ragazzo impugnò un’asta di metallo, della quale, nel frattempo, si era armato; e si lanciò ad impedire la barbara uccisione.
Gli altri gli dissero di fermarsi, ma il chitarrista, ormai, non ascoltava più nessuno, era, soltanto, corroso dalla furia.
Pino Nassa venne, però, immediatamente, centrato da una freccia alla gamba destra, quando ancora non aveva superato il cortile in sampietrini, e cadde a terra rotolando.
Il chitarrista urlò di un dolore atroce.
Rimase a terra, mentre degli arcieri nascosti cercarono di centrarlo.
In preda ad uno spasmo di dolore, allora, e richiamando ogni barlume della propria forza della disperazione, Pino Nassa si rimise in piedi e zoppicando, cercò di guadagnare di nuovo l’interno della villa; sorvolato, però, da ben tre dardi che, fortunatamente per lui, non andarono a segno.
Pietro Rummo marito di Mariarita, e Domenico Nelli, fidanzato di Valeria, aiutarono Pino Nassa a rientrare al coperto.
Non c’era nulla più da fare per salvare Antonio Dattore.
Jonathan e Rino risolsero di aggirare gli arcieri, uscendo dal retro per, poi, aggredire la “tribù” alle spalle.
Era una soluzione folle e pericolosa, oltre che, quasi certamente, votata al fallimento; però i due decisero di provarci lo stesso.
Non ci fu tempo.
La ragazza indigena, infatti, caricò un altro colpo, ripetè la stessa cantilena e si preparò ad affondare.
Uno sparo all’improvviso!
Un tubolare metallico del cancello, all’altezza del viso della giovane, scintillò.
La struttura del cancello aveva salvato la folle.
Qualcuno aveva cercato di fermarla, ma il proiettile era rimbalzato.
L’indigena non se lo aspettava, rimase quasi inebetita, e si girò verso la donna più grande; la quale dovette farle uno sguardo di assenso.
La donna più matura, allora, e gli altri indigeni, subito dopo, si dileguarono prontamente; probabilmente non si aspettavano che, dall’interno, qualcuno avesse un’arma di fuoco.
Loro, infatti, avevano inseguito Antonio, quindi non sapevano della fine del loro sodale e del ferimento dell’altro.
La ragazza, però, rimase lì.
Ella sembrò, in quel momento, dover compiere, meccanicamente, la sua missione.
L’indigena si girò con una espressione vuota e continuò la sua opera.
Conficcò la sua lancia nella gola di Antonio Dattore, nello stesso istante in cui un proiettile la centrò in mezzo agli occhi.
Entrambi morirono in quello stesso momento!
Tutti, nella villa, rimasero immobili, senza più fiato, avvinti da un orrore senza fine e non comprendendo, appieno, perché sembrassero essere tutti piombati nel peggiore dei gironi infernali.
Osvaldo Guglielmi si impose la calma e compì le medesime operazioni di medicazione, che aveva prima condotte su Daria, anche su Pino Nassa.
Tanti, ormai, erano in preda a crisi isteriche ed a cedimenti emotivi.
Riuscire a mantenere l’ordine ed a riflettere con lucidità, in quel momento, era quasi impossibile.
C’erano tre morti e due feriti tra gli invitati e due morti e, probabilmente, un ferito tra quelli della “Tribù”.
Cinque cadaveri erano fuori in giardino.
Tre dei quali, erano stati parte importante della vita di tutti gli invitati alla festa a sorpresa.
Darni era un piccolo centro di ottomila anime.
Silvio Tremendi ed Antonio Dattore erano stati parte integrante della fanciullezza, dell’adolescenza e della giovinezza di tutti.
Quando se ne va qualcuno che hai visto o frequentato, spesso, nel corso della tua vita, è come se andasse via una parte di te.
Ed era questa la sensazione che gli amici di Silvio ed Antonio provavano.
Una incredulità ed una non accettazione di una realtà che pareva impossibile fosse, ora, presente e contingente.
Chi mai lo avrebbe detto alle famiglie?
Michele Corto, invece, faceva parte di un’altra generazione, di altre comitive di persone, ed era lì, tra di loro, solo in quanto fidanzato con Anita che, invece, aveva la stessa età, pressappoco, di tutti gli invitati.
Però, comunque, anche Michele Corto era sempre stato parte del “paesaggio” di Darni, come Silvio ed Antonio.
Ed ora saperli morti, là fuori, era straziante ed alienante per chiunque.
Anche per l’assurdità di tutta la vicenda, anche per il modo inenarrabile ed ingiustificabile nel quale erano deceduti tutti; anche per l’evidenza insopportabile di vivere qualcosa che pareva non avesse senso, era per tutto ciò, che tutti erano, realmente, prostrati dal dolore e dallo sconforto.
Tutti si chiedevano perché?
Chi erano costoro?
Chi erano questi pazzi dipinti e vestiti da indigeni?
Perché stavano compiendo questo massacro?
Ed ancora, poi, chi era quello che sparava dal piano superiore?
Da che parte stava costui?
E, infine, si poteva sfuggire da quest’inferno?
Come si poteva evitare di fare tutti la fine dei tre amici caduti?
Come si poteva portare in salvo i due feriti?
“Cosa hanno detto questa volta, Elvira?” chiese Jonathan.
La ragazza dopo essersi asciugata le lacrime, prese a ricordare ed a tradurre: “Hanno detto: l’umanità è africana.
L’uomo bianco è criminale.
L’uomo bianco uccide il pianeta”.
Nessuno comprese il senso di queste frasi.
Questa incertezza circa le motivazioni dell’insensato attacco e della carneficina in atto, resero ancor più destabilizzante l’intera situazione.
Si udirono, però, proprio in quel frangente, dei colpi da dentro una parete.
Si cercò di imporre il silenzio.
Di nuovo.
“Sono io, state calmi, sono io…”.
Una voce provenne dalla parete.
Rino riconobbe quella inflessione calabrese nel modo di parlare.
La parete, posta sulla destra rispetto all’ingresso dei bagni, e che, probabilmente, anticamente doveva essere una scala interna, successivamente murata; si aprì, come fosse comparsa una porta dal nulla.
Ne uscì una figura, snella, di quasi due metri.
Il volto era smunto, lungo e rabbioso.
Aveva i capelli rivolti all’indietro con la gelatina, una camicia stropicciata con le maniche arrotolate ed un pantalone estivo bianco.
Tutti gli guardarono la Beretta che aveva in mano e l’altra che aveva nella cinghia del pantalone.
Era lui quello che aveva sparato ed ammazzato due indigeni, salvando Rino, fuori in giardino, e cercando di impedire, poi, poco prima, la barbara e cruenta esecuzione di Antonio Dattore.
Tutti rimasero ammutoliti, nessuno ebbe il coraggio di domandare qualcosa.
Fu, infatti, lui, con un italiano stentato dalla chiara inflessione calabrese, ad esordire dicendo: “Ho provato a fermarla quella scrofa, ma ho preso quel cazzo di cancello!
Mi dispiace, veramente, lo volevo salvare il vostro amico”.
Tutti abbassarono lo sguardo e molte ragazze piansero.
“Chi sono quei pazzi pittati come i cannibali? – chiese ancora l’uomo del piano di sopra – perché ce l’hanno con voi?”.
“Tu abiti di sopra?” chiese Jonathan riuscendo ad uscire dall’empasse di non avere nessuna risposta a quanto stesse accadendo.
“Si…di sopra” rispose l’uomo, sembrando, però, volesse evadere la domanda e tornare alla questione di prima.
“Perché non prendete le macchine e ve la filate?” chiese ancora l’inquilino.
“Hanno bucato le ruote” rispose Jonathan.
“Caspita! – disse il tizio armato – questi vi vogliono, proprio, fare la pelle”.
“Ci…vogliono fare la pelle – disse Fernando – non penso che vogliano darti un premio per aver atterrato due dei loro”.
La corretta osservazione di Fernando fece riflettere i presenti e li rese tutti sodali del medesimo destino e della stessa sorte.
“Hai qualche modo di contattare i carabinieri ed il 118?” chiese Piero Monte.
“No!” rispose l’uomo sembrando nuovamente irritato.
“Comunque ce ne dobbiamo andare di qua, dobbiamo avvisare la gente in paese e dobbiamo farlo in fretta perché ci sono dei feriti” disse Rino.
“Andiamo via a piedi – disse Rosangela – lui ha le pistole, possiamo arrivare a piedi sulla strada nazionale e, poi, in paese”.
“No – disse l’uomo – E’ un bosco, si metteranno dietro gli alberi e ci faranno secchi a frecciate, se la caveranno soltanto in pochi”.
“Se non possiamo comunicare con l’esterno – disse Piero Monte – dobbiamo aspettare che faccia giorno e che ci vengano a cercare”.
Anche stavolta l’uomo armato parve rabbuiarsi; sembrava, infatti, sentirsi, quasi, intrappolato ogni qualvolta qualcuno asserisse che sarebbero sopraggiunti aiuti dall’esterno.
“Non mi piace questa storia – disse Fernando a Jonathan e Rino – mi sembra strano che questo viva qui, recluso al piano di sopra, con due Beretta e chissà cos’altro”.
“Me ne fotte uno stracazzo! – rispose Rino – mi ha salvato la pelle là fuori, ed ha cercato di fare lo stesso con Antonio Dattore; per me è ok”.
“Ha ragione – disse Jontahan – se questo ci voleva fare del male, eravamo già tutti morti adesso”.
“Lo so – disse Fernando – però ha un viso conosciuto, l’ho visto, già, da qualche parte”.
Intanto la discussione continuava.
“Ora che sanno che c’è uno armato, forse ci lasceranno stare – intervenne Mariarita – così domani ci verranno a salvare”.
“Gli altri sono scappati, ma quella troia è rimasta ferma lì a finire il suo lavoro, non ha avuto paura di morire – disse il tizio armato con gli occhi sgranati, mostrando quasi un sadico piacere nell’averle sparato – quelli lo sanno che domani arriverà gente.
Vogliono finire il lavoro con noi, questa stessa notte!”.
“Cosa possiamo fare?” chiese Piero Monte, interpretando il sentimento di tutti, nell’aver, immediatamente, intitolato a capo e condottiero l’inquilino armato.
“Intanto spegnete ste cazzo di luci – sbottò il tizio – siamo un bersaglio troppo facile così, sembra Natale; tanto le luci di fuori illuminano pure qua dentro.
Poi controllate che le protezioni metalliche delle finestre sono chiuse e che le loro chiavi sono tutte a posto.
Chiudiamo bene la porta principale, le altre che danno sul giardino e quella di sicurezza.
E cercate di armarvi con qualcosa, come hanno fatto loro tre con i coltelli…questi tra poco tornano!
Che fregatura questa storia!”.
L’ultima frase fu detta dall’inquilino quasi sottovoce, però Fernando la udì e, forse, ne comprese appieno il senso.

L’idea che presto la tribù sarebbe tornata, era come una spada di Damocle sulle anime di tutti.
Le disposizioni dell’inquilino, armato, del piano di sopra vennero eseguite alla lettera.
Gli invitati si armarono ed eressero difese.
Seppur Fernando disse di non barricare troppo le porte, in quanto, con le grate metalliche alle finestre da dover aprire con le chiavi, le porte erano le uniche vie di uscita, più facili da utilizzare, nel caso gli indigeni fossero riusciti ad entrare.
La penombra aveva avvolto le sale della villa.
Una luce fioca penetrava dall’esterno del giardino.
Tutti erano al riparo dal tiro degli archi nemici.
I minuti passarono lunghi come ore.
Era l’una del mattino ed il buio sarebbe stato padrone per tanto tempo ancora.
Dalla serra non si scorgevano movimenti, però la sensazione generale di tutti, era che la tribù fosse nascosta lì.
Avendo provveduto a spegnere lo sfavillio di luminarie che circondava la lussuosa villa, l’inquilino armato del piano di sopra, chiese ai proprietari di alcune auto di tentare una sortita all’esterno.
Svuotate, allora, delle bottiglie di prosecco, si procedette alla estrazione di benzina verde e di gasolio dai serbatoi delle auto.
Solo e soprattutto di quelle più datate, però, che non avessero retini o condotti di protezione atti proprio ad evitare il travaso di carburante.
L’intuizione dell’inquilino era corretta, con il favore delle tenebre scese sul parcheggio e con la tribù che si trovava lontana tra le serre; gli imbottigliatori potettero operare indisturbati e non individuati.
Vennero, così, prodotte, con degli stracci imbevuti ed attorcigliati, 12 bottiglie incendiarie; delle vere e proprie molotov, le quali, secondo le intenzioni dell’uomo armato, sarebbero servite da deterrente per il prossimo attacco, che costui riteneva imminente.
Tutti, ormai, guardavano fuori dalle finestre, acquattati e nascosti.
Si fissava il vuoto buio del giardino nel tentativo di scorgere il più minimo e furtivo movimento dei portatori di morte.
“Ecco chi è – proruppe Fernando, stando, però attento a non farsi udire da altri, oltre che da Rino e Jonathan – me lo sono ricordato, quella faccia lunga e quegli occhi da pazzo.
È Mirko Gallucci, è un latitante della ndrangheta, è uno dei 30 ricercati più pericolosi d’Italia!”.
“Smettila di fare il poliziotto – disse Rino, anche lui parlando piano per non farsi sentire – ci sono i nostri amici morti la fuori!
Non è detto che vedremo l’alba di domattina!
Allora, per quanto mi riguarda, non me ne fregherebbe nemmeno se fosse il bandito Giuliano, se ci può dare una mano a tornare a casa!”.
“Ha ragione – intervenne Jonathan – adesso l’unica cosa che conta è uscire vivi di qua”.
Detto questo, il ragazzo si girò a guardare Valeria, che era seduta con le spalle al muro, sotto la finestra, e teneva le gambe tra le braccia, con la testa appoggiata sulle ginocchia.
Incurante la ragazza, ovviamente, data la situazione e lo stato d’animo, che tale posa lasciasse nuda, praticamente, tutta la gamba nel punto in cui il vestito aveva lo spacco.
Jonathan non riusciva a non osservarla ed a non morire per lei.
Lui si sentiva, quasi, in imbarazzo, perché nemmeno in quel momento, tanto assurdamente e profondamente tragico, riuscisse a staccare gli occhi da lei, e stesse, lì, a pensare che Valeria sapeva essere sensuale e magnifica anche nello sconforto di una situazione incredibile e pericolosa.
D’improvviso, però, al latitante, sicario della ndrangheta, Mirko Gallucci si illuminarono gli occhi: “Eccoli, arrivano…”.
Un indigeno corse zigzagando verso la villa.
Si fermò in prossimità di alcune giostre ed urlò: “L’homme blanc il a tuè peuples anciens!.
Peuples anciens vècu en paix avec la nature!
L’homme blanc payer!
Ce soyor!!”.
Il giovane ripeteva ritmicamente la sua folle cantilena.
Elvira venne osservata da tutti, e, mentre era in ginocchio, con la sola fronte a superare il davanzale della sua finestra, procedette con la traduzione: “L’uomo bianco ha ucciso i popoli antichi.
I popoli antichi vivevano in pace con la natura.
L’uomo bianco pagherà.
Stanotte!”.
“Che significa – chiese Domenico, il fidanzato di Valeria, interpretando il sentimento, prima, e le domande, poi, di tutti – che vogliono da noi? cosa abbiamo fatto contro i popoli antichi?”.
Elvira, quasi, in lacrime, disse che aveva tradotto la frase ma che non ne comprendeva il senso.
“Mi ha rotto le palle!” Mirko Gallucci scoppiò di rabbia, fece fuoco.
La giostra deviò il colpo.
Gli altri fermarono Gallucci, perchè poteva essere utile capire cosa volessero gli indigeni da loro.
L’indigeno tremò per lo sparo, ma, incredibilmente, non si mosse e continuò il suo sermone.
Il latitante era assetato di sangue e di rabbia, si divincolò dalla presa degli altri, ed, attraverso la finestra e le grate, centrò il colpo.
L’indigeno urlò, si tenne la spalla sinistra con la mano destra e si diede alla fuga.
Jonathan si accorse che tutti gli invitati erano accorsi, su quel versante, per vedere cosa succedeva.
“Nando – disse il ragazzo a Fernando – quello è il punto più illuminato del giardino, lo sanno che abbiamo una pistola; perché facilitarci tanto il compito di centrare il bersaglio?!?”.
Fernando trasalì
“Tornate alle vostre finestre!!!! Ci vogliono distrarre!!!”
Molti ascoltarono e tornarono alle loro postazioni di vedetta.
Pietro Rummo corse alla sua grossa porta-finestra, con le grate di protezione in ferro, e lanciò un’occhiata nella parte più buia del parco.
L’entrata era alta circa due metri, incavata nella parete, con dei bordi di marmo bianco.
La finestra era in pvc di colore bianco, mentre la pesante grata di ferro, a protezione, a circa un metro dalla finestra, era interamente costituita da rombi collegati alle estremità degli angoli
Pino Nassa era seduto, all’interno, spalle al muro, con la gamba destra fasciata e la freccia ancora conficcata nel lato della coscia: “ Pietro abbassati!” disse.
Pietro Rummo non vide nulla dinanzi a lui, nello spazio aperto, e si girò per tranquillizzare Pino.
Ebbe solo il tempo di percepire uno spostamento ed una variazione nell’intensità della penombra.
Pietro non scorse, appieno, la sagoma nera che si era materializzata dall’altra parte del vetro; lui scorse solo la punta della freccia.
Il dardo fu scoccato, frantumò il vetro e la vita di Pietro Rummo.
Il giovane ingegnere fu trapassato dalla freccia all’altezza del petto e cadde a terra senza nemmeno poter gridare.
Pino Nassa gridò.
Gallucci corse e provò a sparare nel buio.
L’ombra assassina si era dileguata nell’oscurità.
Mariarita urlò tanto forte che, quasi, fece cadere la villa; prima di crollare, lei stessa, a terra.
Osvaldo Guglielmi cercò di rianimarla, dopo aver constatato che per il marito della ragazza non vi fosse più nulla da fare.
Le grida di terrore si mischiarono agli ammonimenti di stare giù e di non offrire bersaglio agli arcieri nemici.
Vedere il corpo di Pietro Rummo a terra, per gli altri, equivalse a vedere la propria morte.
Tutti sentirono la pesantezza di un destino che pareva, ormai, inesorabile.
Purtroppo, seppur fossero protette dalle grate, le finestre e porte-finestre, infatti, erano tante e stare al riparo era veramente difficile.
Anche l’indigeno di prima che aveva attirato l’attenzione, adesso, era sparito.
Si udirono dei rumori provenire dal piano di sopra.
Si zittirono tutti.
“C’è qualcuno lassù con te?” chiese Rino a Gallucci.
Il latitante fissando il soffitto, mentre cercava di ascoltare, rispose di no, nominando, però, il suo fucile che era lì.
Mirko Gallucci ringhiava come un cane, aveva desiderio di uccidere.
Fece segno agli altri di restare dove erano; dopo di che lo ndranghetista si diresse verso l’apertura a scomparsa dalla quale era entrato.
“Dammi una delle pistole” disse Fernando parandosi innanzi a lui.
“Cosa?” rispose Gallucci.
“Se ti ammazzano e prendono entrambe le pistole, siamo fottuti”, replicò Fernando.
Gallucci stette a riflettere: “Perché la sai usare?”
“Sono Beretta 98 FS, penso con matricola abrasa” rispose secco Fernando.
“Sei uno sbirro!” disse Gallucci ritraendosi
Fernando rimase fermo: “Ho perso già troppi amici stanotte, non conta più chi siamo, dobbiamo andarcene da qui, da vivi…poi ognuno per la propria strada…”.
Gallucci si rasserenò: “Non fare scherzi, sbirro..” e porse l’altra pistola, con un caricatore di riserva, a Fernando, il quale annuì.
Rino si aggregò alla spedizione.
Jonathan si rammaricò di non avere il coraggio di farlo, seppur si sentisse, parzialmente, rinfrancato dal fatto che anche Domenico, il fidanzato di Valeria, non si facesse avanti come volontario.
Seppur i rumori fossero cessati, intanto, la sensazione di avvertire una presenza nello stabile, era tangibile.
Qualcuno era dentro.
Di sopra.
I tre salirono le scale, non si sentiva nulla.
Mirko Gallucci, Rino e Fernando furono sopra.
C’era un corridoio, subito dopo le scale, con tre porte ed altrettante stanze per lato.
Cucina, bagno, ripostiglio, studio, locale lavatrice ed asciugatrice e dispensa; le stanze aperte e spaziose furono superate, senza incontrare nessuno.
Nel buio e nel silenzio, i tre avanzarono ed entrarono nello sconfinato salotto con un mastodontico divano in alcantara, il bancone bar ed un televisore talmente grande da sembrare lo schermo di un cinema.
Quindi il muro, la porta scorrevole aperta, ed i tre furono nella camera da letto.
Laddove v’era un letto a due piazze, due armadi, uno contenente vestiti maschili, mentre l’altro adibito a contenere vestiti ed oggettistica per signora.
Guardando il secondo armadio, Gallucci sospirò: “ Meno male che c’eravate voi della festa e non l’ho fatta venire” riferendosi, forse, alla moglie.
Un altro sconfinato televisore, poi, era attaccato alla parete.
Null’altro.
Si doveva uscire nei terrazzi, adesso, e, poi, sul tetto; i luoghi da dove, prima, Gallucci aveva fatto tiro al bersaglio con i due indigeni abbattuti.
I tre, lentamente, in silenzio e con circospezione si portarono ad una porta-finestra che dava sui terrazzi.
Entrambi gli armadi della camera da letto erano stati acquistati da una fabbrica del luogo.
Non erano di fattura dozzinale, come quelli dei grandi magazzini, fatti di compensato o in cartongesso; questi manufatti, seppur di disegno e foggia moderni, erano solidi e resistenti.
Il punto di giuntura dei due mobili, poi, era certamente la parte più forte e capace di sopportare il peso, di entrambi gli armadi.
Gallucci non si domandò per quale motivo le ante dell’armadio che, alternativamente, sua moglie prima e la sua “amichetta”, poi, utilizzavano quando gli facevano visita; fossero entrambe aperte.
Le ante di entrambi gli armadi, quelle di destra dell’armadio delle signore e quelle sinistre del mobile di Gallucci, infatti, si toccavano.
Da tale punto, in cui i due manufatti si toccavano e dalle ante aderenti, discese, silenziosa, una figura esile.
Gallucci, Fernando e Rino erano fuori, procedevano in fila indiana, però si mantennero aderenti alla parete esterna, senza andare fino alle ringhiere del terrazzo; perlomeno, non fino a quando non si sarebbe verificato che anche sul tetto non vi fosse nessuno.
Rino era il terzo della fila, aveva il grosso coltello in mano e, stranamente, non provava nessuna remora e nessun timore al pensiero di dover sopprimere o fare del male ad un altro essere umano.
L’aver visto la tragica fine di molti suoi amici aveva generato, in lui, solo odio e rancore verso quegli strani e silenti assassini che elargivano morte a persone inermi ed innocenti.
Non era solo lotta per la sopravvivenza, non era solo mors tua, vita mea; era vendetta, desiderio di farla pagare a quei maledetti.
Mentre seguiva questi pensieri, Rino sentì uno spostamento d’aria alle sue spalle, si girò e fece solo in tempo a gridare ed abbassarsi.
Dalla stessa porta-finestra dalla quale erano usciti loro, si era materializzata una figura nera e silente che si scagliò contro i tre brandendo un lungo pugnale.
Abbassandosi, Rino eluse il fendente dell’indigeno che, però, colpì Fernando sull’avambraccio sinistro, proprio nel momento nel quale, quest’ultimo, lo aveva eretto, in orizzontale ad improvvisata difesa.
Fernando urlò, provando a liberare il campo alla sua pistola, tenuta nella mano destra.
Rino accovacciato, però, senza riflettere caricò l’aggressore con indistinta furia cieca.
I due caddero a terra.
L’indigeno perse il suo pugnale nella caduta, si rialzò e si diede alla fuga verso le scale, esterne, coperte e sbarrate dalla porta di cartongesso.
Rino avrebbe potuto affondare il suo pugnale nella schiena del nemico, ma esitò perché, nonostante quanto avesse pensato prima, non trovò il coraggio di sopprimere, così selvaggiamente, un altro essere umano.
Mirko Gallucci no.
Lui non ebbe alcuna esitazione, anzi con un’espressione sadica e soddisfatta si staccò dal muro e fece fuoco alla schiena del fuggitivo, il quale urlando si irrigidì e cadde a terra prima di raggiungere le scale.
Il latitante aveva abbattuto l’intruso, però, per farlo, era uscito allo scoperto.
Aveva dimenticato che sul tetto ci poteva essere qualcuno: e c’era.
Gallucci fu centrato da una freccia proveniente dall’alto, alle sue spalle.
La fortuna del latitante, in quel momento, fu che era girato di lato per eliminare il fuggitivo di prima.
Il dardo, allora, gli sfilò dietro il collo, senza penetrare nella spalla.
Nonostante il tiratore ed il suo bersaglio si trovassero a pochi metri di distanza in linea d’aria, infatti, riuscire a conficcare la freccia in una figura magra e smilza come Mirko Gallucci, girato di profilo e con un buio quasi totale; sarebbe stata un’impresa impossibile anche per il migliore degli arcieri.

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l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

“7 euro al chilo!!”.
Rosangela in quel momento si sentì più alta di dieci centimetri.
La ragazza volle ripetere questa frase, a voce alta, come una rivelazione miracolosa.
Era il modo di dimostrare a Mariarita, Doris e Daria che erano state delle infedeli a non prestarle credito, per le sue informazioni in materia di organizzazione di feste.
D’altronde, tutte le offerte di preparazione del buffet che fino ad allora erano state vagliate ed illustrate, alle tre ragazze, erano ricompresse tra i 13 ed i 15 euro a chilo per un assortimento di rustici, panini napoletani, tramezzini, arancini, crocchè e supplì di riso.
Rosangela, però, aveva sentito di questa pasticceria che vendeva, lo stesso assortimento, a 7 euro al chilo, ed allora aveva subito voluto diffondere la sua riuscita attività di intelligence gastronomico-festaiola, alle sue amiche.
Certo, la ragazza, non aveva prestato particolare attenzione alle notizie di molteplici chiusure che erano state inflitte a quel locale per aver usato, tra le altre cose, burro scaduto, farina di provenienza ignota, manodopera immigrata irregolare, ed altre piccole amenità che per Rosangela sembravano, infondo, non avere eccessivo rilievo.
Anche perché “ogni 50 euro di spesa, c’era un vassoio di pasticcini in regalo…!!”.
Ed allora, l’affare venne concluso senza troppi ripensamenti.
La missione da dover portare a compimento era organizzare la festa a sorpresa per il fratello di Daria, Piero che compiva 30 anni.
Egli aveva, da poco, perso la sua giovane moglie.
Una tragedia, questa, che aveva gettato nello sconforto tutti gli amici dei due giovani.
Soprattutto per l’affetto che ognuno di essi aveva per Eliana, la cui straripante vitalità, l’innata simpatia ed il coinvolgente entusiasmo che la caratterizzavano; ora mancavano tanto ed avevano lasciato un vuoto in tutti quelli che l’avevano conosciuta.
La festa di compleanno, allora, serviva anche a questo, a risollevare un po’ il morale di tutti dopo la tristezza del subitaneo distacco.
Anche per questo motivo, oltre alle cibarie, era stato organizzato tutto alla perfezione.
Le ragazze avevano, infatti, trovato una vecchia masseria, da poco ristrutturata, adibita ad ospitare cerimonie, persa in una sperduta campagna e raggiungibile solo da un’unica strada, peraltro non completamente asfaltata.
“Villa Claudia” era un posto davvero isolato, ma insolitamente, elegante.
L’ennesimo tentativo di realizzare un finto agriturismo a spese dei contribuenti, per poi ottenere il finanziamento statale, trasformarlo in un ristorante-albergo e scansare, così, le tasse che pagano, invece, le altre attività di ricezione e di ristorazione regolari.
Ad onor del vero, poco oltre il prato all’inglese che circondava tutto lo stabile, si trovava, davvero, una sorta di coltivazione sotto le serre.
Retaggio, probabilmente, della vera ed antica destinazione del sito, quella cioè del lavoro agricolo.
Lavoro divenuto, poi, poco remunerativo a causa dell’incontrastata invasione delle merci di importazione a basso prezzo, ed accantonato in favore della trasformazione in struttura recettiva, pagata dallo Stato.
L’accordo con i proprietari era chiaro, l’affitto comprendeva anche l’utilizzo della cucina.
Salvo, poi, dover rimettere tutto a posto come prima, entro la serata del giorno dopo.
C’era, soltanto, un piccolo inconveniente dovuto al fatto che la zona fosse assolutamente non coperta dal segnale di cellulari, tablet ed altre apparecchiature ad onde elettromagnetiche.
Questo stava a significare “silenzio radio”, per tutti, e nessun aggiornamento, costante, sui social network per narrare di quante volte si era stati al gabinetto o dei pasti che ci si accingeva a consumare.
Tale inconveniente, però, non sembrò un gran problema, visto che, anzi, tale mancanza, semmai, dava a tutta la vicenda, ancor di più, un alone di segretezza e riservatezza.
Ed infatti, Piero non doveva sapere nulla fino a quando non si sarebbe trovato nella sperduta dimora, con tutti i commensali ben piazzati a tavola.
Era stato ideato anche il modo di condurlo in quel luogo ameno.
Gli invitati dovevano radunarsi in un punto preciso ad un ora stabilita, quindi, tutti insieme, dovevano raggiungere Villa Claudia.
Da lì attraverso il solo telefono fisso della tenuta, sarebbe, poi, partita la telefonata sul cellulare di Piero da parte di Rosangela.
La quale avrebbe inscenato un guasto alla macchina ed un accorata richiesta di aiuto all’amico, quest’ultimo, allora, si sarebbe subito precipitato a soccorrere l’amica in difficoltà, peraltro invogliato da un gruppetto di altri amici, che in quel momento si dovevano trovare, proprio, a casa di Piero.
Tutto preparato a puntino, quindi, salvo il fatto che in un eccesso di zelo e di foga organizzativa, Daria aveva fissato il punto di incontro, quasi, sotto casa di suo fratello Piero.
Il quale, alle 18 e 30 di quella domenica di Maggio vide, praticamente, sull’altro versante della strada, giungere una ventina di auto, “conosciute”, sotto il condominio dove abitava.
Dapprima, il giovane, non prestò troppa attenzione a quell’assembramento, considerato il fatto che lì sotto si trova una famosa cicchetteria.
Ma quando riconobbe buona parte delle auto in sosta e vide, poi, scendere dalle vetture una cinquantina di suoi amici, Piero dovette subito realizzare e rendersi conto di quanto stesse accadendo.
Il festeggiato, allora, stette al gioco e fece finta di niente con i complici che aveva in casa, anzi, apprezzando sia l’intenzione che la faciloneria con cui tale intendimento era stato realizzato, si lasciò trasportare dagli eventi.

Jonathan Forlini ricevette l’invito alla festa a sorpresa di Piero Monte, non senza considerare che fosse stato chiamato per “fare numero”.
Questo non perché Rino e Fernando, che lo avevano materialmente avvisato, non fossero suoi amici; anzi si conoscevano e frequentavano da una vita.
Ma perché era stata Rosangela a invitarlo, sincerandosi circa il mantenimento del più stretto riserbo riguardo alla notizia.
Jonathan si chiedeva quando mai si fosse scambiato più di un ciao con Rosangela?
Comunque c’erano tutti, proprio tutti, ed allora…
Quando si trovò nel giardino di Villa Claudia, venti minuti prima delle otto di sera, Jonathan notò l’assoluta lontananza di quel luogo da ogni parvenza di urbanizzazione.
Ogni indizio, immagine o dettaglio di quel posto rimandavano ad un passato contadino.
Il giardino era ampio, il prato curato, le giostre, gli alberi di ulivo posti in fila, davano un senso di serena quotidianità e travalicavano il significato stesso di tempo e del susseguirsi di cicli e generazioni.
Ai confini di quel quadro di civiltà contadina si stagliavano, poi, a perdita di occhio, i boschi, tranne che verso ovest dove invece si trovava una sterminata fila di vivai agricoli e di serre.
La casa era grande, come quelle di una volta, con il tetto in legno, ed era composta di due piani, dei quali, si accedeva al più alto attraverso una scala esterna che era stata coperta con dei pannelli di vetro plastificato dai bordi bianchi di plastica e sbarrata con una porta in cartongesso.
Al piano terra c’erano la reception, la sala principale, più una sala più piccola, una cucina ed i bagni rimodernati.
Mentre non vi era modo, a parte la scala, esterna, di giungere al piano superiore.
Quando Jonathan entrò nella sala principale con Rino e Fernando, notò che le ragazze si davano un gran da fare.
Con quella innata e naturale capacità che hanno le donne di ordinare ed accomodare l’ambiente che le circonda, infatti, le organizzatrici, tutte insieme, sembravano un formicaio in fase di allestimento.
Si poteva solo ammirare, in silenzio, tanta solerte risolutezza nell’allestire il proscenio della festa che si approssimava.
Ma i tre malcapitati ragazzi furono, comunque, quasi subito travolti dall’onda impetuosa costituita dalla premura delle ragazze di dover finire, per tempo, la preparazione.
E con quella, altrettanta, connaturata capacità che hanno le donne di saper comandare gli uomini, i tre ragazzi vennero, prontamente, adibiti a compiere delle specifiche mansioni nelle quali non avrebbero potuto fare molti danni.
La tenuta in campagna, in quel momento, dava la sensazione di essere un alveare in piena attività, governato da uno stuolo di api regine che dirigevano l’allestimento dei locali.
Alcune erano già arrivate in giornata e si erano prodigate in cucina con le preparazioni delle pietanze calde.
Il menù prevedeva un aperitivo di ingresso, costituito da piccoli rustici, olive, patatine e tramezzini; oltre alle leccornie scovate ed ordinate da Rosangela.
Per poi passare alla occupazione dei posti a sedere, con tutti ai tavoli rotondi presenti nella sala grande.
Ove sarebbe stato servito, dapprima, un composè di mare, con pesce spada, baccalà, pannocchie, salmone, vongole e polpo.
Quindi si sarebbe passati al risotto alla pescatora ed alle fettuccine al prosecco ed alle capesante.
A questo punto, poi, si sarebbe virato su un secondo di carne, voluto da Mariarita e da Rosangela che avevano prevalso e messo in minoranza Daria e Doris.
Tale secondo di carne consisteva in una scaloppina al limone.
Una bella insalata caprese come contorno, quindi fragole con la panna per preparare il palato, degli astanti, al “faraonico” buffet di dolci.
Anche questo preso a 7 euro al chilo…
Jonathan, intanto, si ritrovò ad entrare spesso, con una scusa o l’altra, in cucina.
Voleva vederla…
Lei era lì.
Valeria la sorella minore di Mariarita.
Era stata lei, il principale motivo, per il quale Jonathan aveva accettato di eseguire le disposizioni di Rino e Fernando, e di prendere parte alla festa a “sorpresa”.
Il ragazzo, difatti, era a conoscenza delle motivazioni che spingevano, entrambi, i suoi sodali: Rino Morselli stava, infatti, “tacchinando” Rosangela, cercando di circuirla con false dichiarazioni amorose e propositi simulati; al solo fine di poter copulare con lei.
Mentre Fernando Villario era, a tutti gli effetti, il guru della comitiva, prodigo sempre di consigli ed alte massime di saggezza per tutti.
Anche se al contempo, quest’ultimo, nutriva una passione celata, a tutti, così come forse anche a sé stesso, per Doris Rizzo; una delle componenti del gineceo organizzatore.
Jonathan sentiva battere il cuore forte ogni qual volta vedeva Valeria Camuso.
Lei era il motivo per il quale Jonathan era, spesso, presente nelle iniziative di quella combriccola, della quale, lui, non si sentiva, affatto, un componente.
Valeria Camuso sembrava una polinesiana, con la sua pelle color smeraldo, i suoi lunghi capelli di un nero corvino ed il fisico sodo, dalle forme molto pronunciate.
Lei era una bomba che esplodeva, ad ogni suo avvistamento, nella testa e negli occhi di Jonathan.
Valeria, però, era fidanzata con Dino Minelli.
Per ora, ovviamente…secondo Jonathan…
I preparativi giunsero a compimento, proprio, mentre calava l’oscurità.
Anche grazie al fatto che, il giorno precedente, Daria, Mariarita, Rosangela e Doris Rizzo erano state nella villa a depositare la spesa ed a effettuare le prime preparazioni di base.
Piero arrivò come da copione, e, seguendo appieno i canoni del canovaccio, si mostrò sorpreso da quanto stava accadendo.
Seppur qualcuno notò che il neo trentenne si fosse già vestito, di tutto punto, ed abbigliato con una mise elegante; alquanto poco consona con il semplice giro con gli amici, al quale era stato, invece, invitato dai suoi “adescatori”.
L’effetto musicale, all’ingresso di Piero, costellato dalla colonna sonora di “Jump” dei Van Halen, con tanto di tappeto rosso, parve eccessivo a molti.
Così come gli strani aggeggi, distribuiti agli invitati, dalle organizzatrici, che proiettavano un flash, a comando, simile alle macchine fotografiche; parve pomposo ed, a tratti parossistico, a molti.
Intanto uno stuolo di smartphone suggellava la scena dell’ingresso del festeggiato, rendendo il tutto ancora più kitsch e pacchiano.
Anche se, tali filmati non sarebbero stati divulgati fino al ritorno nel “mondo civile”.
Jonathan era tra coloro che giudicavano troppo sfarzose ed appariscenti le manifestazioni allestite per una semplice festa di 30 anni.
Anche se il giovane, più che prestare attenzione a Rino che pontificava sulla stupidità di Daria e sulle forme prorompenti di Rosangela o a Fernando che, come suo solito, aveva calato, in quel marasma, il suo “carico da 90”, esibendo e suonando una trombetta da stadio di calcio; guardava Valeria.
Era bellissima con un abito estivo lungo, con le spalle scoperte ed uno spacco alla gamba sinistra.
Jonathan era senza fiato, la fissava inebetito.
Lei se ne accorse, come già era successo altre volte, e degnò il ragazzo solo di un veloce sguardo di rimprovero.
Quasi come a voler dire: “Non ti vergogni a sbavare in quel modo, davanti a tutti? Non lo vedi che c’è il mio fidanzato!?”.
Era tutto inutile, per Jonathan, lei era il Sole e la Luna.
Il sontuoso buffet orchestrato da Rosangela, intanto, ebbe inizio.
Effettivamente il prezzo modico e dozzinale della fornitura di piccoli artefatti rustici, come frittatine di pasta, arancini di riso, olive ascolane, panini napoletani, mozzarelline in carrozza quadrate, frittelle di fiori di zucca e panzarotti, ne permise una acquisizione in quantità industriale.
La vista d’occhio dei tavoli, imbanditi ed abbondanti, fu faraonica.
Anche se l’assaggio, poi, non fu sempre impeccabile, denotando qualche pecca nella qualità delle materie prime.
Qualche mormorio soffuso e trattenuto, allora, si levò in protesta, facendo il paio con qualche viso storto e qualche smorfia, e Rosangela venne, seppur in maniera silente, additata dalle amiche come responsabile della naufragata sortita.
La ragazza sentendosi ghettizzata dalle altre organizzatrici, si irritò e, cercando di mantenersi in equilibrio sui vertiginosi tacchi, data la sua statura non proprio slanciata, così come i capelli corti che non le facevano certo guadagnare centimetri; si lanciò alla ricerca di Rino per trovare spalla e manforte alla sua “ sfogata” contro le amiche.
Rino, una volta scovato da Rosangela, accettò di buon grado di fungere da interlocutore di costei, e non perché fosse d’accordo o prestasse attenzione a quanto lei dicesse; ma perché, con il suo piatto di plastica colmo di rustici di infima qualità, il giovane si perdeva con lo sguardo nell’abbondante decoltè della ragazza.
Fortunatamente, i bocconcini di mozzarella scelti da Marta Tremendi, altra organizzatrice, e l’insalata di pasta preparata da Doris Rizzo erano di qualità sopraffina, ed ottennero il plauso e l’approvazione di tutti.
Frattanto, Silvio Tremendi, fratello di Marta, nonchè proprietario di una famosa pizzeria in paese, uscì, in quel momento, in giardino ed iniziò a rullare il suo tabacco, preparando la cartina con la quale lo avrebbe avvolto.
L’enorme giardino curato ed equilibrato, con le giostrine sparse qua e là, era illuminato da lampade incavate nel terreno e da qualche piccolo lampione sollevato a poco più di due metri.
Era scesa la sera, anche se l’aria non si era rinfrescata per niente.
Certo era meglio stare dentro con la musica e l’aria condizionata.
Però Silvio doveva fumare.
Lo stesso pensiero che aveva avuto Pino Nassa, il chitarrista del gruppo rock contattato per allietare la serata, il quale che aveva accettato l’ingaggio, così come gli altri componenti della band, solo per l’entusiasmo indotto dal “board” organizzatore dell’evento ma soprattutto, in cambio dei barili di Peroni ghiacciata.
Silvio vide Pino Nassa e comprese che il suo momento di quiete era sfumato.
L’iperattività e la frenetica logorrea del chitarrista, infatti, fracassarono la quiete silente di quella serata boschiva, e non solo…
Silvio dovette sorbirsi elucubrazioni ed ardite teorie di filosofia universale su temi molteplici e diversificati, quali: musica, calcio, conformismo sociale e vacuità del pensiero femminile.
Mentre Pino Nassa, letteralmente, trasbordava di concetti illuminanti ed elevati postulati sociologici, Silvio sentì un bruciore alla parte bassa dello stomaco.
Il ragazzo pensò di aver esagerato con gli antipasti e con il vino di infima qualità e, abbassando gli occhi, si mise la mano sullo stomaco, sentendo qualcosa di freddo.
Fu allora che silvio la vide.
Una freccia conficcata nel suo addome!!
Il giovane si girò, con gli occhi sgranati, verso Pino Nassa, che, invece, non si era accorto di nulla e continuava a parlare ed a saltellare ritmicamente.
Silvio provò a dire qualcosa ma il sangue gli riempì la bocca, prima di cadere all’indietro, e stramazzare a terra.
Pino Nassa, già saturo di alcool, non comprese appieno quanto stesse accadendo e si abbassò per capire cosa fosse capitato al suo amico.
Questo gesto spontaneo del chitarrista gli salvò la vita.
Una freccia sibilò nel buio e si conficcò nel palo ligneo della altalena, lì vicino.
Pino sentì sfilare e vide il dardo entrato nel palo dell’altalena, poi ne vide un altro conficcato nel corpo esanime di Silvio.
Il chitarrista, guardò verso destra, verso il giardino con le giostrine, la serra ed il buio; quindi cominciò ad urlare, correndo come un forsennato verso l’ingresso.
Pino Nassa, quasi, divelse la porta laterale di ingresso quando piombò dentro la sala, letteralmente, rotolando.
Il ragazzo cercò di articolare una frase sensata ma senza riuscirci.
La sua concitazione ed il suo volto paonazzo attirarono l’attenzione di tutti.
Alcuni si portarono all’esterno e quando videro il corpo di Silvio a terra, furono avvinti dal terrore più insano.
Solo dopo qualche secondo, le persone, accorse, notarono la freccia mortale e collegarono questa scena con le grida disperate di Pino Nassa che, intanto, giungevano inascoltate dall’interno della struttura.
Il musicista, infatti, urlava a tutti, di rientrare immediatamente.
Fu tardi.
Michele Corto, un idraulico di 46 anni, separato e compagno di Anita, una giovane ragazza polacca di 27 anni, venne centrato alla testa da un dardo fulmineo.
Cadde a terra stecchito, non riuscendo nemmeno a gridare.
Il terrore si impadronì di quei luoghi.
Alcuni rientrarono, altri corsero alle auto, compiendo, però, la scelta sbagliata.
I pneumatici di tutte le macchine erano, infatti, completamente, sgonfi, forse perchè forati con qualche oggetto appuntito.
Vennero scagliati altri tre dardi che, fortunatamente, causa la sagoma delle auto ed i bersagli in movimento, non andarono a segno.
La paura annebbiò la ragione.
Antonio Dattore, in preda al panico ed all’alcool, si portò al grande cancello e lo scavalcò, lanciandosi in una galoppata inarrestabile sulla strada sterrata e scomparendo nel buio della notte.
Gli altri rientrarono.
Ma era il caos.
Le donne urlavano di paura con un pianto fragoroso ed incessante.
Doris che si era lasciata da qualche mese con Silvio Tremendi, ma che provava, ancora, come immutati, i sentimenti nei suoi confronti, svenne.
Lo stesso mancamento lo ebbe Anita.
Chi riusciva a mantenere un barlume di autocontrollo gridava agli altri di stare giù e lontano dalle finestre.
Qualcuno provò ad utilizzare il telefono della struttura, temendo, però, pur senza una ragione apparente e definita, l’esito sinistro di tale iniziativa.
Il telefono, infatti, non era più funzionante, pareva fosse stato scollegato.
Ora c’era veramente di che aver paura.
Qualcuno aveva, forse, voluto chiudere tutti loro in una trappola mortale.
Il pensiero e l’immagine di due persone là fuori, morte ammazzate, era lacerante.
Sia per i loro semplici conoscenti che per coloro che vi erano più legati.
Non si poteva fare nulla, però.
La situazione era, parimenti, assurda quanto terrificante.
I dispositivi di telecomunicazione mobili erano inattivi in quel luogo a causa della assenza di segnale elettromagnetico.
Il telefono fisso era silente, forse, perché staccato a causa di un sabotaggio.
Le ruote di tutte le auto erano a terra, forse, perché forate.
Due persone giacevano morte in giardino, trafitte da frecce provenienti da un punto non individuato.
I partecipanti della festa non credettero, subito, che quanto stesse loro accadendo fosse reale.
Tutti ebbero l’impressione di trovarsi in un brutto sogno, in una specie di film dell’orrore e che le cose stavano succedendo troppo in fretta per essere vere.
Però era tutto vero.
Anche la morte.
I corpi esanimi coricati in giardino, venivano fissati con lacrime e sgomento dagli invitati, tutti messisi al riparo, nel frattempo, nascosti dietro pareti e colonne.
Le urla delle ragazze, col passare dei minuti, cessarono.
Tutti cercarono e trovarono un riparo lontano dalle finestre e dalle porte di entrata.
Le persone iniziarono a parlare tra di loro, ad analizzare la situazione.
Ci si accorse di essere tutti in trappola.
Erano, infatti, in un posto isolato e le comunicazioni con l’esterno erano impossibili, in qualsiasi maniera.
Le auto erano inutilizzabili.
La sola strada era quella di fuggire a piedi, nella campagna, di notte, come aveva fatto Antonio Dattore.
Ma con quale esito?
Un solo fuggitivo era, effettivamente, sfuggito al tiro dell’ignoto arciere, in quanto questi era impegnato a centrare tanti altri bersagli nel parcheggio.
Se avessero, invece, tutti optato per una tale sortita, di certo l’arciere li avrebbe seguiti e, nascosto tra gli alberi, al buio, avrebbe fatto una carneficina.
Ma poi chi era questo arciere?
Era solo? O erano più aggressori?
Perché aveva attaccato i partecipanti alla festa?
Cosa voleva?
Sterminare tutti?
Perché?
Erano queste alcune delle domande che frullavano nella testa dei partecipanti alla festa, oltre alla disperazione per le due persone morte ed alla paura per la propria sorte.
Istintivamente, allora, tutti cominciarono a chiudere e sbarrare porte e finestre, con le grate di ferro, chiudendole a chiave dall’interno.
Si guardava fuori, in giardino, nell’oscurità, rotta solo dalle luci delle giostre e dai lampioni; aspettandosi, da un momento all’altro, un attacco.
Nella grande cucina, vi erano solo finestre alte, poste alla base del soffitto.
Era un luogo in cui si era al sicuro da attacchi.
“Vaffanculo!!! Te la porti sempre appresso quella cazzo di pistola! In quel marsupio da turista svedese di 70 anni! E adesso, la prima volta nella tua vita che quella pistola sarebbe servita, non ce l’hai!! Certo che veramente sei un genio!!!” Rino Morselli sbraitava, come suo solito, contro Fernando Villario; mentre recuperava un coltello per tagliare il pane, grande come un machete.
Fernando imprecava di rabbia, ben conscio, in quel momento, che la sua pistola di ordinanza della Polizia di Stato, sarebbe stata vitale in quel momento.
Jonathan diceva ai due litiganti di stare zitti, per sentire cosa accadeva dalla sala del ricevimento.
I tre giovani erano, subito, corsi nella cucina ad armarsi.
Grossi coltelli e tridenti per infilzare la carne, difatti, non mancavano.
“Se ha armi da fuoco, ed entra nella Villa, questi coltelli sono inutili, farà un massacro” disse Jonathan rivolgendosi a Fernando.
“Se avesse avuto armi da fuoco, le avrebbe già usate – rispose Fernando – ha solo arco e frecce”.
” Se è uno solo!” Disse Rino.
“Come facciamo a sapere se è uno o più assassini? – chiese Jonathan -dannazione! Non è possibile…Silvio! E l’idraulico! Non può essere…sono morti!!!”.
“Se escono allo scoperto, lo sapremo – disse Rino – se sono in tanti, ci verranno a prendere qua.
Solo che qui ci sono quasi tutte donne, siamo fottuti!”.
“Non sono tanti – disse Fernando – se lo fossero, già sarebbero venuti, adesso, invece se ne stanno nascosti, e forse è uno solo”.
“Perché?” chiese Jonathan.
Rino e Fernando non seppero rispondere.
I tre ragazzi videro passare Daria nel corridoio, di fretta.
Le andarono dietro.
Daria si era ricordata della uscita di sicurezza, posta alla fine del corridoio, quella con la maniglia tubolare a scatto.
La ragazza voleva verificare se tale porta di pvc e vetro plastificato, fosse chiusa e sbarrata per chi cercasse di entrare dall’esterno.
Daria si accorse dei tre ragazzi che la seguivano e si sentì più sicura.
Giunta alla fine del corridoio, alla uscita di sicurezza, Daria Monte si girò nuovamente verso la porta di vetro plastificato.
La ragazza la aprì per verificare se fosse stata chiusa.
La porta si aprì per un attimo sul cortile in sampietrini, prima del giardino verde e delle giostre.
Daria diede una veloce occhiata all’esterno, volendo richiudere prontamente.
Ma non ci riuscì.
Daria Monte non comprese appieno cosa vide.
La figura dinanzi agli occhi della ragazza, non doveva trovarsi lì, in quel luogo, in quel tempo.
Era nudo.
Scalzo.
Indossava solo un qualche indumento, forse, di paglia per coprire la pudenda.
Era dipinto di una qualche vernice nera su tutto il corpo, salvo un ulteriore strato di una qualche vernice bianca sul petto, sull’addome e sul volto.
Riproduceva, in toto, la sagoma e la figura di un indigeno di una tribù africana.
Daria rimase basita da quella immagine.
L’indigeno scoccò la freccia.
Daria emise un rantolo strozzato e cadde all’indietro strabuzzando gli occhi.
L’indigeno estrasse un’altra freccia dalla faretra.
Rino Morselli non sopportava per niente Daria Monte, ce l’aveva sullo stomaco da sempre, ma il modo in cui era stata abbattuta era inumano.
Il giovane perse la testa.
Urlando si lanciò con due grossi coltelli contro l’indigeno.
L’arciere si rese conto dell’assalto e caricò velocemente la freccia, puntandola in avanti.
In quell’istante, però, all’aggressore, gli arrivò addosso il meno grosso dei coltelli lanciato da Rino.
L’indigeno, allora, gridò per il dolore e fece cadere la freccia.
Rino gli era addosso.
L’indigeno tentò una fuga.
Rino scagliò un fendente contro l’arciere che, però, non andò a segno.
L’indigeno era smilzo e veloce, si diede prontamente alla fuga.
Rino era furibondo, lanciò il coltello grande contro le spalle dell’arciere e quando lo sentì, colpito, urlare di un dolore folle, ne fu compiaciuto.
Il ragazzo corse a riprendere il coltello grande per inseguire l’arciere e farlo a fette.
Quando, però, riprese il coltello, Rino vide una scena che gli ghiacciò il sangue nelle vene.
Ce n’era un altro.
Un altro indigeno dietro uno scivolo.
Era sulla destra, pronto a lanciare il suo dardo.
“Vengeance pour les frères!!” gridò l’arciere.
Rino non comprese, però non riusciva nemmeno più a muoversi, chiuse gli occhi.
Ci fu uno scoppio improvviso!
Le cervella dell’indigeno schizzarono via verso la sua sinistra.
Rino gridò e si abbassò di scatto, lo scoppio gli fece fischiare le orecchie.
Dopo un attimo, però, il ragazzo si accorse che qualcuno, da lontano, gli stava gridando qualcosa.
Rino si girò verso la Villa.
Sulla balconata posta al piano superiore, quella dalla quale si accedeva attraverso la scala esterna coperta e che era sbarrata; vi era una figura filiforme ed altissima che stava gridando qualcosa, ripetendolo in continuazione.
“Entra dentro cugliùneee!!! Moooo!!!! Ce ne stanno nu saccu!!!!! Nu saccu!!!!”.
Rino comprese, allora, che quell’uomo aveva sparato all’indigeno, per salvargli la vita e rientrò di corsa.
Fernando e Jonathan chiusero e sbarrarono la porta.
Intanto, dall’interno della sala, corsero tutti all’uscita di sicurezza e vedendo Daria, a terra, con una freccia conficcata nella spalla destra che perdeva sangue; furono, tutti, presi dal panico.
Daria urlava e piangeva, stessa cosa che facevano anche le ragazze accorse, tranne poche eccezioni di alcune dedite a prestare soccorso alla ferita.
Osvaldo Guglielmi, fratello di Nerina, che si era da poco laureato in medicina generale e stava svolgendo la specializzazione in chirurgia, disse di non estrarre la freccia.
Non in quel luogo e non in quel momento, perché la ferita avrebbe necessitato di medicazioni, disinfettanti ed antibiotici che non c’erano nella villa.
Oltre al fatto, poi, che sarebbe stata necessaria una radiografia prima di procedere alla estrazione dell’oggetto appuntito.
Osvaldo fece imbevere dei panni con l’amaro e la grappa e procedette ad una pulitura marginale della ferita, intorno al punto di entrata della freccia.
“Chi è che ha sparato?! – chiese Pietro Rummo, marito di Mariarita Camuso – sono armati!?!”
Rino gli indicò di guardare fuori il cadavere dell’indigeno, raccontando, poi, a tutti della dinamica del ferimento di Daria, della sua aggressione ed inseguimento dell’indigeno e della uccisione dell’altro arciere da parte di qualcuno sulla balconata di sopra.
“Sta al piano di sopra – disse Rino – E’ magro e molto alto e parla… credo…calabrese!?!
Credo, comunque, mi abbia salvato la vita…era finita…il secondo di questi zozzi, ormai, mi aveva sotto tiro”.
“Che ci fa qui? Che vuole da noi?” chiese Rosangela
“Ti ho detto che mi ha salvato, ha sparato a quello schifoso e mi ha detto di correre dentro!”.
“Come si sale sopra Rosangela?” chiese Fernando.
“Non si sale – rispose la ragazza – il proprietario mi ha detto che sopra ci sono, solo, mobili vecchi e basta e che non ci sta niente da vedere lì.
La scala per salire è sbarrata da quel cartongesso”.
“Rino che ti ha detto quello che è stato sparato?” domandò Jonathan, il quale aveva sentito qualcosa durante lo svolgimento dell’azione.
Rino parve riaversi del ricordo e si rivolse a Elvira Nona, la quale lavorava e viveva, con le sue due bambine, a Nizza, in Francia.
“Elvira che significa vengeance pour les frères?” chiese Rino alla ragazza.
“Vendetta per i fratelli” rispose Elvira non comprendendo il senso della domanda.
Frattanto, giunsero, all’improvviso, delle grida dal cancello principale.
Ancora.
Forti e disperate.

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

Guido Mignolli

“Qui comincia l’avventura…”

In questa città non succede mai nulla! Una assoluta noia provinciale. Sempre le stesse cose, la sera nessuno per le vie, silenzio da incubo, solo pioggia e vento a scompigliare i tetti, auto ferme, luci immobili.

E se invece, dietro questa apparente monotonia, visibile solo a pochi ci fosse un mondo in fermento? Se il viaggio ‘tranquillo’ nella solitudine della città in piena notte, dipendesse solo dall’incapacità di vedere le cose che succedono oltre il ‘nastro’ stradale, pure lì vicino, dietro la fila di auto parcheggiate lungo il marciapiede?

Chissà a levare veli e bende davanti agli occhi, uscire dalle nebbie in cui si è immersi, ‘spostarsi’ nell’altra dimensione che si muove accanto?

Se bastasse soltanto alzare un po’ lo sguardo al di là del finestrino dell’auto? O abbassare il volume della radio, per cogliere i rumori della notte?

O magari, predisporsi ad accogliere con il sorriso e con la serenità, aprire il cuore e la mente all’altro, coltivare l’entusiasmo? ‘Leggere’ le cose che accadono, al di là dell’apparente banalità dell’evento, per coglierne l’essenza vera, la diversità, lo spirito, la singolarità? Stupirsi come farebbe un bambino…

L’avventura è dietro l’angolo.

Un’anatra nella notte urbana

Che stanchezza, quella sera! Un ultimo sforzo prima dell’agognato tuffo sul divano. Accompagni tu a casa le compagne della nostra figliola? Certo, andiamo.

Non è così tardi, eppure nessuno per le vie. Forse per l’improvviso colpo di coda dell’inverno e la pioggerellina leggera, ma fitta, fastidiosa. Umidità da mal di cervicale, e voglia solo di rintanarsi in casa, tra il brodino e una coperta sulle gambe.

Davanti all’ingresso del palazzo, con le ragazze che salutano, una breve attesa fino a che il portone non si chiude e loro non raggiungono l’ascensore. Poi, via verso casa; tanto sarà un lampo, nel deserto delle strade.

Rapida marcia indietro, un giro completo di sterzo e… un bagliore. Chissà… Qualche altro temerario, spedito fuori casa dalla moglie. Di più che un bagliore, lì all’incrocio. Un’auto della polizia e una dei vigili urbani, altre ferme ad osservare. Un vero e proprio assembramento, materializzatosi in attimi. Sono sicuro di non averlo visto pochissimi minuti prima. Com’è possibile? Sono passato da lì… Forse sono così stanco, da non rendermi conto di quel che mi succede intorno… Magari sono arrivati ora… Troppi, per non averli notati, venendo. Vabbè…, che importa, quello che conta è rientrare a casa il più rapidamente possibile.

Però, che strano! Che cosa staranno facendo? Mi avvio lentamente, cercando di guardare verso le luci e le persone. Percepisco aria di preoccupazione, gli uomini in divisa che si muovono con fare circospetto, alcuni che sembrano pronti a un duro inseguimento, con un’ombra bassa che tenta di sfuggire loro. I tanti presenti immobili, quasi a fare corona intorno per proteggere qualcuno. O forse per non farlo scappare via.

Un’ombra bassa?!

La curiosità aumenta, ma anche la stanchezza da 4 ore di macchina nella giornata. Auto, dietro, scalpitano. Ma che cosa sta succedendo? Non ne avevo incontrata una, nel percorso di andata!

Basta! Vado via. Sono stanco. Voglio rientrate a casa. Sdraiarmi sul divano e addormentarmi.

Ma il piede non spinge sull’acceleratore. Come se una parte del mio cervello avesse preso una decisione diversa. Quella parte che è stata anestetizzata negli anni, messa a tacere, soffocata. Che odia i divani…

Che ha colto una breccia irrisoria e si è incuneata con tutte le sue forze.

Che sta combattendo, come se fosse l’ultima speranza.

Le auto dietro sono nervose, mi superano con rabbia, capisco che hanno solo il miraggio di casa. Non riescono a vedere oltre, sono sul nastro automatico che li guida in unica direzione…

Sopraffatto dai contrasti interiori, anche infastidito da queste lotte nel profondo del mio cervello, procedo con sforzo, allorquando l’assembramento si fa rumoroso, urla degli agenti, grida di stupore degli spettatori. Non lasciarti coinvolgere, procedi. Lentamente, ok, ma procedi. Poi, una sensazione indefinibile, una di quelle diverse, che sembra introdurti in un mondo aperto, aria, ampi orizzonti, in connessione con l’universo. Un’ombra che si riflette sull’auto, la supera, per andare a planare più avanti, al di là della fila di auto parcheggiate.

Che cosa era?

Ma perché, domando a me stesso, ti stai così interessando? Un grosso uccello. Niente di più! Ora basta davvero! Torniamo al caldo… Via, con decisione, verso casa.

No. Come era bella quella sensazione appena vissuta. Sto penetrando in un’altra dimensione. Senza rendermene conto, faccio inversione. Ritorno verso il punto in cui ho visto atterrare l’ombra. Già la folla si è dileguata. Avranno dato per irraggiungibile ormai la loro ‘preda’.

Mi fermo, scendo e con circospezione mi avvicino, mi sporgo dalla strada verso il marciapiede e dietro una grossa auto, lo vedo. Eccolo lì!

Bellissimo. Colorato. Regale.

Uno splendido germano reale, con la testa verde brillante, sino al collare bianco, Non ve ne sono tanti dalle nostre parti, e questo sembra particolare. È stanco, come da un lungo viaggio. Mi vede, ma non si muove. Mi osserva. Gli occhi risaltano alla luce dei lampioni. Colgo il suo disappunto. Ma come hai fatto a trovarmi? Ho seminato tutti quelli e mo’ sei arrivato tu! Perché non mi lasciate in pace!?

Mi lascio coinvolgere. Siamo soli nella notte urbana. Immobili. Pian piano, l’atmosfera si distende. Mi pare di entrare in sintonia, in una sorta di comunione telepatica.

E parte il racconto.

Come è bello lo stagno, sotto il sole africano, l’acqua è calda, la compagnia è vivace. Il cibo non manca, è delizioso. La vita sorride. Sto crescendo, insieme ai miei fratelli e alle mie sorelle. Spensieratezza e gioia, giochi durante il giorno, la notte protetti dai nostri genitori e da tutti i grandi del gruppo.

Poi, i sorrisi si attenuano, si tramutano pian piano in preoccupazioni per l’imminente viaggio. Un viaggio per tornare nell’estate europea, allevare i piccoli in un clima mite, più facile per sfamarsi.

Gli ultimi momenti di felicità. Il fruscio del vento fra gli alberi non copre i rumori che anticipano il dramma. I vecchi volano via per attirare a se l’attenzione dei fucili. Il crepitio dei colpi è spaventoso. Vedo molti dei miei fratelli e delle mie sorelle cadere nell’acqua e sulla sponda, ancora idealmente sorridenti per la gioia che stavano vivendo. Sono come paralizzato, incapace di qualsiasi decisione, d’istinto mi immergo e nuoto verso la riva opposta, risalgo e volo via il più lontano possibile.

Trovo un nascondiglio su un grande albero, riparato dal tronco e dal fogliame fitto. Sono così confuso e terrorizzato, che neppure riesco a rendermi conto di quanto è successo. Vorrei piangere, ma non ce la faccio. Mi addormento.

Riapro gli occhi che è quasi sera, ritorno in me stesso, ripercorro gli eventi, poi provo a raggiungere gli altri. Non siamo più tanti, anche mio padre non è rientrato, come quasi tutti gli altri anziani; la mamma è distrutta dal dolore. La decisione del gruppo è di partire già all’indomani, lasciarsi dietro dolore e lacrime“.

Il volo all’alba, nell’azzurro fra mare e cielo, mi riconcilia con il mondo e con me stesso. Mi alterno con i più giovani alla testa dello stormo, mentre osservo mia madre, che ha lo sguardo assente e va come spinta da una forza esterna. Il silenzio aiuta e per qualche attimo dimentico e ritrovo la felicità perduta.

All’imbrunire, la stanchezza ha preso tutti, e come indirizzati da un comando, ci abbassiamo verso l’acqua per riposare. Mi accorgo che la mamma scende con rapidità, troppa rapidità… Sto per dirigermi verso di lei, per aiutarla, ma una delle mie sorelle mi trattiene. Insieme, la vediamo sprofondare nel mare. Bastano pochi attimi per comprendere che non risalirà più”.

“Un’altra notte dolorosa. Seppur cullato dalle onde lievi, non riesco a dormire. Ho timori, come se attendessi da un momento all’altro di venire fagocitato da un mostro marino scaturito dalle acque. Sento che anche molti dei miei compagni di viaggio sono svegli e spaventati.

Il sorgere del sole è una liberazione. Ci rimettiamo in volo diretti verso il nord. Ma già dopo poche ore mi rendo conto di non farcela. Fermiamoci nel sud, provo a suggerire al gruppo. No, rispettiamo il programma che avevano fatto gli anziani.

Avanziamo come automi, finché finalmente avvistiamo la nostra meta; scendiamo verso terra, in un luogo ameno, tra il verde vivo della vegetazione e lo specchio d’acqua del grande lago. Siamo così esausti, che nessuno oppone resistenza, cadiamo sotto i colpi come se fosse naturale, quasi una liberazione, la fine di una storia preannunciata.

Perché, mio Dio, permetti che tutto ciò accada? Poi, viro in volo, sostenuto da una forza sconosciuta, senza patemi. Stanchezza e dolore profondo mi hanno levato ogni capacità mentale. Torno indietro, senza meta, solo. Solo!”

“Sono solo. Vado così, in attesa dell’epilogo. Non ho progetti, né voglia di pensare. Il buio non frena il mio volo meccanico, ma ora non ce la faccio proprio più. Mi lascio attirare dalle luci della città e atterro malamente sull’asfalto. Che cosa, adesso, porterà alla mia fine? Meglio ‘raggiungere’ gli altri, i miei genitori, i miei fratelli, le mie sorelle. Per qualche minuto mi ‘assento’, mi ritrovo circondato da tante persone, luci puntate su di me. Un ultimo sforzo mi consente di fuggire via“.

Cosa farai, adesso? Non lo so. Hai fame? Ho solo voglia di chiudere gli occhi. La città è pericolosa, di notte. Pensi che mi importi, a questo punto? Potrei aiutarti… Ognuno di noi ha la sua strada. L’uomo non è sempre così cattivo. Capisco che siamo pedine in una scacchiera incomprensibile. Puoi ritrovare la felicità.Vorrei tornare indietro.

L’impulso a fare qualcosa per lui mi spinge a compiere un passo avanti. Troppo. Il volo stavolta è deciso, appena sopra la mia testa, e poi sopra le luci dei lampioni, sopra gli alberi, fino a scomparire alla mia vista, come inghiottito dalla notte urbana.

Quell’estate del 2022 fu talmente calda, che persino il guanciale dell’amatriciana, piatto preferito da Marcellino e la sua famiglia, sembrava sudare. Se ne stava lì, appeso sopra l’isola in cucina, e ogni tanto una goccia di grasso cadeva nel punto esatto della precedente, con un “plok” che distraeva la moglie Assuntina dalle sue mansioni.

“La polenta è in tavola, veniteeee”

“Ma come mammà, fuori ci sono 41 gradi, dentro saranno almeno trentatré, e tu fai la polenta?…” osservò Riccardino, il più grande. “Io non la voglio, vado a mangiare dalla zia Concetta” disse Maruzzella, e detto fatto andò a suonare al piano di sotto, dov’era la famiglia della sorella di Marcellino.

“Tu questa bambina la stai viziando, chissà cosa ne uscirà fuori”, intervenne Marcellino, il quale poi sporgendosi dall’uscio di casa si scusò: “Perdonaci, Concettina, sta bambina non sappiamo come tenerla, è troppo vivace”…

Poi, mentre tentava di ingoiare una cucchiaiata di polenta bollente, “effettivamente potevi preparare qualcosa di più fresco, Tina, non ti pare?…”

Nessuna risposta, solo “ringrazia iddio che c’è qualcosa in tavola, e se hai sete ti ho preparato il vin cotto”….

Per la verità, non era tanto per la polenta, ma era proprio il caldo africano, che opprimeva Roma da almeno due mesi, ad invitare le persone a saltare i pasti.

“Ci vorrebbe una vacanza in un posto fresco, economico, non troppo lontano da Roma, che ci facesse passare un bel week-end, ecco cosa ci vorrebbe”.

Riccardo colse al volo lo sfogo del padre, e si mise immediatamente alla ricerca su internet.

“Che ne dite di Fregene”??…

“No. Niente mare: troppo caos, e poi in spiaggia fa caldo, e una camera costa cara….”

“E se andassimo da mamma a Montecompatri?…sono tre anni che ci invita, e tu non ci vuoi andare mai…”

“Fossi matto…quella tua madre ci scambia sempre per degli affamati, comincia dal giorno prima a preparare le fettuccine, e poi il timballo, e poi il polpettone, e poi il pollo ripieno…. Non ti ricordi l’ultima volta, mi sono fatto tre giorni d’ospedale, con tanto di lavanda gastrica e tutto il resto?…”

“Be’, cos’hai da dire sulla cucina di mia madre?… tutta roba fatta in casa con prodotti genuini, non come la tua, che quando ci ospita ci riempie di schifezze precotte e scatolette…”

“A me gli spaghetti allo scoglio di nonna Caterina piacciono”, intervenne Riccardino.

“Come no….nonna Caterina ha una velocità di occultamento di scatole e buste delle confezioni, che manco spider man…”

“Aspetta…e di Fiuggi che mi dite?… un’ora di distanza da Roma, fresco garantito, servizi….”

“ Certo… e duecento euro a camera, se ci va bene…ma lo sai che Fiuggi è un posto per ricchi, o no?”… disse Marcellino.

“Ma è un bel posto, si possono fare tanti sport, possiamo portare le nostre bici…”

“Sì dài papà, che bello, andiamo a Fiuggi?…” chiese Maria, con occhi imploranti.

“Se me lo chiedi così, non posso che accettare”, disse Marcellino. Un ‘Evviva’ collettivo seguì l’approvazione, ma….”a una condizione: che troviate un hotel molto, molto, moooolto economico…”

Riccardo con due clic eseguì all’istante. “Trovatoooo!! Cinquanta euro a camera con bagno, piscina, palestra, sauna, discoteca, ristorante, bar, aria condizionata, grande parcheggio….e chi più ne ha, più ne metta!!!”

“Fantastico”, disse Marcellino “e come si chiama l’hotel?…

“Hotel Quattropalle, a Fiuggi Fonte. Che faccio, prenoto?…

“Andata: due doppie, prendi la mia carta e pagale subito, così non ci pensiamo più”.

“Grazie papà” dissero i due ragazzi in coro.

Riccardino prenotò per il weekend entrante, d’altronde era fine luglio, trovare delle camere libere era difficile, eppure il ragazzino riuscì nell’impresa…..

Venerdì 22 luglio 2022, ore 20,30 

“Ok, è tutto pronto?… Assuntina, non fatemi fare il Verdone della situazione, ditemi che avete caricato i bagagli e partiamo, su….”

“Sì tutto a posto, anche le bici, andiamo?…”

“Aspetta ma’, il telefonino” disse Ruzza, correndo verso casa.

“Altro?… Vi siete sfogati?…Forza che sta Multipla sta esalando l’ultimo respiro, speriamo che non ci lasci per strada…”

Per quello che successe dopo, restare a piedi sarebbe stata una benedizione del Padreterno per questa famigliola di poveri ingenui. Ma si sa, il caldo, l’estate, la voglia di uscire e di vacanza, la gioventù…

La Multipla resse quel breve viaggio, e finalmente furono a Fiuggi, verso le dieci di sera.

Faceva ancora caldo, lungo la strada i ragazzi bevvero tutti e due i litri d’acqua di scorta, ma quando finalmente arrivarono nei pressi dell’hotel, uno strano buio avvolse l’auto.

“Ma hai acceso i fari, Marcellì?…” chiese Assunta.

“Veramente ho gli abbaglianti fissi, ma ci vedo meno di prima…ma che è sto vento freddo?… alzate il vetro, ragazzi”…

Una folata di vento gelido colpì inspiegabilmente la Multipla, trascinando con sé delle foglie secche, altra stranezza, il 22 luglio…. Alla fine, il parcheggio dell’hotel ospitò l’auto. Prese le valige, piano piano la famiglia in vacanza si avviò verso l’ingresso. Ma nel percorrere il vialetto, stranamente deserto e buio, tanti furono i punti interrogativi che popolarono la testa di Marcellino. Come mai quel buio?… come mai quel vento gelido?… e in quale posto a luglio cadono le foglie secche dagli alberi?…

Ma sì, certamente era un eccesso di preoccupazione, inutile complicarsi la vita, godiamoci questo weekend e così sia….

Ma le cose peggiorarono subito. Arrivarono davanti al portone d’ingresso, che era in cima ad una scalinata di trenta scalini di marmo, al termine della quale erano tutti esausti. Il portone di vetro era buio come tutto il resto, sembrava disabitato. Riccardino provò a guardare dentro, ma non si vedeva nulla. “Ma siamo sicuri che ci sia qualcuno?…” disse. “Ci deve essere per forza qualcuno, altrimenti non sarebbe stato prenotabile”, rispose il padre, il quale provò a suonare un campanello polveroso e pieno di ragnatele, che naturalmente era rotto.

“E bussa, no?….” Disse Assuntina “dai che mi fanno male i piedi, ho la salivazione azzerata come fantozzi, non ce la faccio più…”

Marcellino bussò. E bussò, e bussò ancora per dieci lunghi minuti. Niente.

Ma dopo mezz’ora di quell’attesa estenuante, quando ormai i quattro si erano buttati a terra per la disperazione, una lucina venne dal vialetto verso di loro. E dietro quella lucina, che veniva da una vecchissima lanterna ad olio, una figura cominciò a distinguersi: era quella di un’anziana signora, probabilmente piacente ai suoi tempi, ma ora orrendamente attaccata ai suoi ricordi, coperta da una mantellina tessuta all’uncinetto da lei stessa nelle lunghe notti invernali, che dopo aver salito la scalinata con passo abbastanza lesto, disse:

“Buonasera signori, avete prenotato?”…

“Sì, veramente abbiamo anche già pagato…” disse Marcellino.

“Scusateci, abbiamo avuto un black out dalle otto di stasera, stiamo con le candele…” e intanto, presa una chiavina dalla tasca, apri il portone a vetri. “Prego, signori. Ma che bella bambina, come ti chiami cara?…”

Maruzzella ebbe una reazione spontanea di difesa, e si appiccicò alla madre. “Ruzza si chiama, ed è esausta” disse Tina.

“Ruzza, che bel nome….io invece mi chiamo Frisella, mandami un bacio Ruzza, su…” e per invogliare la bambina a mandarle un bacio, glielo mandò prima lei. Ma la bambina terribile non ne voleva sapere, anzi dopo aver fatto una sonora pernacchia alla signora Frisella, le diede un calcio su uno stinco.

“Maria, come ti permetti?… Chiedi scusa alla signora” disse Marcellino.

Dopo aver trattenuto un’imprecazione, la signora disse: “No no, la lasci, povera bambina è stanca… ecco, sedetevi sui nostri comodi divani, io vado a chiamare il portiere…” e mentre girava l’angolo dietro il bancone della portineria, azionò abilmente un interruttore che aveva staccato apposta ore prima. “Ehi è tornata la luce, evviva!… siete contenti?…”

E detto questo, sparì dalla hall per recarsi in cucina, dove l’anziano portiere stava mangiando. “Totò cosa stai facendo, sempre a ingozzarti con gli avanzi del saint honorè… alzati miserabile, e ricordati che se puoi mangiare lo devi solo a me!… vai ad accogliere i clienti, sbrigati! O li devo registrare io?…Ah quant’era meglio l’altro…”

Totò era un vecchio molto male in arnese, senza più denti né soldi per la dentiera, con una gamba di legno, quella buona l’aveva persa a causa delle fratture multiple procurate da una caduta sulla scalinata d’ingresso, mentre portava valige pesantissime a un cliente facoltoso. Le fratture furono curate male, la gamba andò in cancrena, e lui si salvò per miracolo. Perse la gamba, ma non l’impiego nell’hotel della signora Frisella, di cui era segretamente innamorato da trent’anni. Poi perse anche tutti i denti, poteva mangiare solo torte alla panna, era capace di ingurgitarne anche due o tre a sera.

“Vado fubito”, rispose spruzzando panna dappertutto, e in un lampo si alzò da tavola. Poi però ci mise un bel po’ per arrivare  al bancone, zoppicando e a volte trascinando la gamba di legno, che quando veniva strisciata sul pavimento di marmo strideva come il gesso su una lavagna.

“Oh mamma, non sopporto questo ‘scriiii’, mi fa accapponare la pelle” disse Riccardino, tappandosi le orecchie.

“Bene fignori, le vostre camere fono le 122 e 123, ecco le chiavi. Buona notte”.

“Finalmente!!…” esclamò Marcellino, e raggiunse l’ascensore insieme a moglie e figli.

“Purtroppo l’ascensore non funziona signori, ci scusiamo. Totò, porta immediatamente le valige ai signori!…O gliele devo portare io?…”

“No, no, ce le portiamo da soli” disse Riccardino, che non sopportava lo stridio della gamba di legno sul pavimento.

Maruzzella però, interruppe il fratello dicendogli: “digli della discoteca…”

Riccardo guardò la sorella con fare commiserevole, aveva già capito tutto. Ma in fondo erano lì anche per quello, per cui chiese:

“Scusi signora, ma la discoteca quando apre?…”

Frisella fulminò il giovane con lo sguardo, fece un respirone per prendere tempo, poi: “Purtroppo il Covid ci ha impedito di aprire per due anni, ora stiamo riordinando un po’ l’ambiente, ci vorrà ancora qualche settimana prima della riapertura…”

“Ok grazie. Andiamo Ruzza, su…”

Una volta saliti, Frisella ricordò sottovoce a Totò la cosa più importante: “ho acceso l’aria condizionata alle 122 e 123. Mi raccomando, tra un’ora staccala, sennò la bolletta della luce la paghi tu!…”

Infatti, la gestione dell’hotel consisteva solo nel risparmiare. Risparmiare qualsiasi cosa, dalla corrente elettrica alla carta igienica.

Ma la nottata più tremenda della vita della famigliola in vacanza, non era nemmeno iniziata.

“Ragazzi, non so voi, ma io casco dal sonno. Mi raccomando, fate piano e non fate rumore, ci sono anche gli altri ospiti che vogliono dormire”.

“Quali ospiti?… io non ho incontrato nessuno” disse Riccardino

“Ma se non c’era nemmeno una chiave attaccata, in portineria…. Staranno dormendo tutti, fate piano. Buonanotte”

“Buonanotte papà” disse Ruzza, e lo salutò col solito bacetto sulla guancia.  Ma le sue labbra non erano umide come al solito, strano, pensò il padre.

Tutto sembrava andare bene. “Domani voglio farmi venti chilometri in bici”, disse Marcellino, mentre spegneva la luce. “Io no, ti aspetterò prendendo il sole in piscina”, bisbigliò la moglie, addormentandosi al fruscìo dell’aria condizionata.

L’uomo ha inventato i soldi, e a ogni cosa ha dato un prezzo. Ora, ci sono prezzi troppo alti, vero, ma spesso se qualcosa costa poco, c’è un motivo. E in questo caso, il motivo del basso costo di quella vacanza, la nostra cara famigliola lo scoprì in men che non si dicesse.

Dopo pochi minuti dal primo appisolamento, infatti, il gruppo di trenta coreani che era uscito per una passeggiata in città tornò pieno di birre, pizze, bottiglie di vino acquistate a prezzi infimi in un grande magazzino di terza categoria, tutti contenti e pronti per fare baldoria.

Entrando nell’hotel, non guardarono nemmeno il vecchio Totò: le chiavi delle camere le avevano in tasca, per di più non parlavano una parola di inglese, come pure l’anziano portiere. Salirono a piedi parlando ad alta voce tra loro, e quando arrivarono alle loro camere al primo piano, come sempre iniziarono la loro personale lotta con la serratura. Dovete sapere che i coreani non hanno nessuna manualità, per esempio non riescono ad aprire una bottiglia di vino chiusa da un tappo di sughero, e sono costretti ad offrire una mancia a chiunque sia disposto ad offrire loro questo servizio; o anche, davanti ad una serratura un po’ difettosa si dichiarano vinti ancor prima di provare a infilare la chiave. E allora, l’unica cosa che viene loro in mente di fare è forzare tutto, spingere, provare con dei calci, insomma in qualche modo si aprirà sta porta, o no, maledizione?…E mentre provano ad entrare con pugni e calci alle porte, svegliano tutto l’hotel.

“Oddio, cos’è?…” chiese Assuntina, svegliandosi di soprassalto.

Subito una bussata violenta alla porta, svegliò anche Marcellino: era Ruzza, che urlava a squarciagola per svegliare i genitori: “Mamma, papà, uscite subito, c’è il terremotooo!!!…”

E mentre bussava, una bottiglia di presunto vino rosso, comprata a 0,99€ non si sa dove, rotolando lungo il pavimento la raggiunse, urtandole un piedino. Subito un ragazzo coreano corse a recuperare quel prezioso nettare italiota, e si profuse in dieci o dodici inchini di scuse nei confronti della ragazzina, che lo guardava mezza inebetita…

“Ora chiamo il portiere di notte, vediamo cosa mi dice”, disse Marcellino.

Ma il portiere, approfittando del fatto che la sua carcerie…ehm, la sua datrice di lavoro era andata a dormire, e non erano previsti altri arrivi, si era ficcato in cucina, e stava facendo l’amore con il mezzo saint-honoré avanzato due giorni prima. Il telefono squillò per un buon minuto, prima che Totò lo sentisse e si avviasse a rispondere. E finalmente: “Buonasera, senta sono le due, si può dormire in questo hotel o no?” Chiese Marcellino con tono perentorio.

“Fi fi, certo, fono i coreani, ora mi precipito”… Con l’ascensore rotto, il “precipizio” di Totò fu molto, molto lento, però poi alla fine riuscì a raggiungere il primo piano, con la gamba di legno che strideva sul pavimento. Appena sentirono quello stridio, i coreani, i quali evidentemente erano abituati alle “visite” del portiere di notte, si calmarono subito, le porte si chiusero tutte e il silenzio tornò, rotto solo dallo scricchiolio della gamba di legno di Totò, che piano piano tornava a piano terra.

“Ah non lo posso sopportare sto scriii, guarda, erano meglio quei casinisti coreani..” disse Riccardo, tappandosi le orecchie. Poi, finalmente, tutto sembrò tornare alla calma e al silenzio, e la famigliola in vacanza si addormentò nuovamente.

Chi me l’ha fatto fare. Spesso, davanti ai nostri fallimenti o alle nostre disgrazie, anche quelle piccole, la domanda è sempre la stessa. Chi me l’ha fatto fare…. Forse può servire ad apprezzare di più quello che si ha tutti i giorni, ma certo è un bel prezzo da pagare…

Fatto sta che alle tre di notte, quella notte, una porta vicina alla 122-3 si socchiuse, e restò socchiusa per un paio di minuti. Era il cugino matto di Frisella, Gontrano: nullafacente, alloggiato nella camera 110, che per pietà parentale  Frisella gli aveva concesso a vita, naturalmente in cambio della sua intera pensione di invalidità mentale; con la condizione di pranzare solo la notte, per non disturbare i clienti con il suo comportamento “fuori quadro”…

Era un uomo sui 50 anni, magro e allampanato, con folti capelli rossi a spazzola, sguardo fisso nel vuoto, appassionato di tennis, o meglio, ossessionato…Infatti era sempre vestito in maglietta e calzoncini, scarpe Stan Smith, con una Wilson sempre sottobraccio e una larga fascia di spugna asciuga-sudore che gli cingeva la fronte. Scese le scale fino alla hall, il povero Totò lo conosceva bene e lo sopportava ormai da dieci anni, da quando cioè la clinica che lo aveva in cura lo cacciò a causa dei troppi vetri che lui rompeva giocando a tennis nei corridoi della clinica.

“Oggi ho vinto contro Panatta, 6-4 7-5, ormai non c’è più nemmeno gusto a giocarci contro…. Ora mi devo tenere leggero, perché mi aspetta Borg per un allenamento. Totò, cosa c’è di buono in cucina?…”

“Ci sono le polpette al sugo, patate al forno e spinaci”

“Bene. Torno subito”. E naturalmente, cominciò a giocare a tennis con una polpetta, tentando di centrare il lampadario nella hall… Purtroppo oltre ad essere matto, Gontrano aveva anche una pessima mira, e malgrado avesse tirato una decina di polpette al sugo, non era riuscito a centrare il lampadario. In compenso, aveva colpito tutte le pareti della hall, che ora Totò avrebbe dovuto smacchiare…

“Bene Totò, cena ottima e nutriente. Ti saluto, non posso far aspettare Borg…”

“Certo, buonanotte…”

Il povero Totò cominciò a pulire le pareti sporche di sugo, e ci mise due ore a ridare alla hall un aspetto decente….

Poi finalmente, cominciò ad albeggiare. Ma per Totò, il turno di lavoro non era finito, anzi…

Alle 6,30 si presenta Frisella: “Totò, oggi devi aiutarmi a sistemare il bordo piscina, perché a mezzogiorno facciamo una festicciola con una cantante, un po’ di buffet, ecc.”

“Anche con dolci?…” chiese il portiere.

“No, non ci sono saint-honoré, non ci sperare. E adesso dai una mano in sala per le colazioni, che Mario è anziano e ha bisogno di una mano”…

Mario era un altro servo  “affezionato” da tanto tempo, aveva ormai più di ottant’anni, con un Parkinson non troppo grave, ma che lo faceva tremare leggermente, quando si ricordava di prendere le sue medicine. Quando invece se ne scordava, allora erano dolori per i clienti, perché il tremore era talmente forte che spesso i piatti che portava partivano in tutte le direzioni, finendo un po’ dove capitavano.

Per evitare incidenti con la clientela, Frisella aveva rimediato affiancandogli Totò, che non solo preparava le colazioni, ma apparecchiava i tavoli, e spesso, se Mario “non era in giornata”, diciamo così, serviva anche in sala.

“Forza belli, sono le otto, si va a fare colazione!”, disse Marcellino, aprendo la porta della 123 e buttando giù dal letto i figli.

“Mamma, riprenditi papà e lasciaci dormire”, disse Maruzzella mettendo la testa sotto il cuscino. Poi però anche lei si decise a scendere. Terminata la colazione, Assuntina non salì nemmeno in camera: “io vado subito in piscina, fa già troppo caldo per qualsiasi altra cosa”, e detto fatto, prese un telo da bagno, lo posò su una sdraio e poi si tuffò  in acqua….

Gli altri invece non la seguirono, presero le bici e uscirono per una pedalata nel verde. Nel frattempo, Frisella entrò di corsa in sala, urlando: “dov’è Totò?…”

“È in cucina, signora…” rispose Mario mentre sparecchiava.

La signora si precipitò in cucina passando dalla porta a ventola, trovando come al solito, Totò intento ad ingozzarsi di cornetti alla crema, avendone già ingurgitati dodici.

“Ora basta, intanto la giornata non te la pago, così impari ad ingozzarti. E poi vieni che mi devi aiutare a bordo piscina”, e così dicendo lo prese per l’avambraccio sinistro e lo trascinò via.

A bordo piscina c’erano dei tavoli da posizionare per creare un buffet, e poi le sdraio da riordinare. Naturalmente il povero Totò dovette spostare tutti i tavoli da solo senza altro aiuto che le urla minacciose di Frisella, la quale non perdeva occasione per promettere a Totò futuri tagli di stipendio e di viveri, se non avesse fatto per bene quel lavoro.

Intanto, Assuntina da dentro la piscina si godeva divertita tutta quella scenetta, felice di non essersi fatta convincere dalla famiglia a prendere la bici anche lei…

“Ok Totò, ora prendi quell’ombrellone e portalo tra i due tavoli del buffet…no, non quello vicino, sfaticato, ma quello laggiù a bordo vasca…”

Totò era stanco morto, dopo dodici ore notturne in cui aveva anche dovuto ripulire tutta la hall dalle polpette al sugo tirate da Gontrano, e dopo aver preparato tutte le colazioni, ora anche la piscina….faceva quello che poteva, i tavoli pesavano, molti ombrelloni erano incastrati e doveva far forza per sfilarli dalle loro sedi, e mentre trascinava un tavolo, si appoggiava alla gamba di legno per puntellarsi in qualche modo. Ma quell’ultimo ombrellone da sfilare era molto ben piantato, non veniva via. “Per favore Frisella, da solo non ce la faccio, dammi una mano tu…”

“Sei il solito buono a nulla, cosa ci vuole a sfilare un ombrellone?…ecco…”

E prese con due mani il manico tirandolo via di colpo. Ma inevitabilmente, questa mossa brusca fece perdere l’equilibrio a Totò, che inciampando nel bordo piscina, finì per caderci dentro, alzando una colonna d’acqua di almeno una decina di litri, che dopo essersi sollevata, finì rovinosamente addosso a Frisella, infradicendole tutti i vestiti. E Frisella, con tutta la messa in piega costosissima, “lavata” dal tuffo di Totò,  sputando un getto d’acqua piena di cloro, disse:

“Assassino!!! Non solo ti licenzio in tronco, ma ti faccio anche terra bruciata, non troverai lavoro nemmeno all’esterooo!”

“Aaaah, cos’è questo?…” urlò nel frattempo Assunta, la quale, ancora a mollo, si era vista arrivare un tronco d’albero sulla schiena. Non era un tronco d’albero. Era la gamba di legno di Totò, che durante il tuffo rovinoso si era staccata dal fissaggio, e se ne andava a spasso per la piscina….

Ma Frisella non si scoraggiava mai. “Non è niente signora, non si preoccupi, nuoti, nuoti, vedo che è molto brava….”

“Dio che schifooo!!… questa è una gamba di legno!…”

“Porta fortuna e prosperità signora, continui a nuotare…”

Intanto il povero Totò, che non aveva mai avuto una gran familiarità con l’acqua, arrancava tentando di restare a galla, ma non riusciva nemmeno a chiedere aiuto. Alla fine,  fu un passante corpulento, attenzionato da Frisella, ad eseguire quel penoso salvataggio, prendendo la collottola di Totò con un rampino come fosse un tonno, e issandolo sulla massicciata, più morto che vivo…

Intanto, Marcellino e i bambini tornarono dalla allegra passeggiata in bici. L’uomo incrociò lo sguardo terrorizzato di Assuntina, e cambiò subito espressione: “che è successo?…” chiese.

“Mi hanno tirato una gamba!…” rispose la moglie. Intanto, il povero Totò era ancora disteso a terra, con Frisella che gli agitava le braccia per tentare di farlo respirare.

“Lasci fare a me, sono un medico” disse Marcellino. Non era vero, era solo un infermiere, ma in fondo nemmeno quello era un hotel, quindi…. Alla fine, con le procedure standard del primo soccorso, Totò si riprese, Marcellino gli riattaccò la gamba e finalmente tutta la famigliola potè ritirarsi in camera per una doccia e prepararsi al gran buffet di mezzogiorno.

Intanto, Mario si occupava della preparazione, mentre le tartine, le crêpes e tutto il resto venivano preparate in cucina dalla “cuoca” Beppa, una vecchia trucida corpulenta e semianalfabeta, che si occupava di tutto, dalle pastasciutte scotte da rifilare ai coreani, al rifacimento delle camere, allo smaltimento dell’immondizia. Però, aveva il pregio di costare poco, che poi era l’unica cosa che interessasse a Frisella. Certo, a volte smaltiva il suo pessimo umore azzannando i polpacci del povero Mario, ma in fondo ormai c’erano tutti abituati, per cui….

Ora, per il buffet Frisella aveva previsto un primo con penne all’arrabbiata e/o carbonara, un secondo con le polpette avanzate dal giorno prima, rimaste dopo che il cugino Gontrano ne aveva fatto strage la notte precedente, purè di patate, orata nemmeno a dirlo, surgelata, macedonia, e senza farlo sapere a Totò che per fortuna era andato a casa sua a dormire, charlotte a go-go, tanto il pasticciere era un parente, quindi poteva permettersi di abbondare.

Ma la ciliegina sulla Charlotte, non tardò ad arrivare. Era un’amica d’infanzia di Frisella, più anziana di circa dieci anni, cantante professionista, ai suoi tempi, che poi erano quelli del duce. Le sue canzoni erano quelle del ventennio, ormai si esibiva solo lì sotto ferragosto, perché anche i raduni di vecchi nostalgici, tutti deceduti, non esistevano più da anni. Solo lei, Lucilla Scognamiglio, in arte La Sciantosa dó Vesuvie, continuava imperterrita col suo repertorio, da “Giovinezza” a “Faccetta Nera”, a “Fischia il Sasso” e tutto il resto.

L’ultima volta che aveva provato a cantarle in pubblico, in un posto che non fosse stato quell’hotel, fu arrestata e tenuta in galera tre giorni, mentre fuori un nugolo di persone inferocite la volevano linciare.

La Sciantosa era molto professionale, nella sua follia: aveva un pianista di 101 anni (suo convivente), un basso di 89, e alla tromba una giovane promessa di 95 anni, che quando suonava non mancava mai di far partire la dentiera in tutte le direzioni.

“Frisella, che piacere, era un anno che non ti vedevo!…”

“Lucilla, come stai, sei ringiovanita!…”

“Eh, chill’è l’ammore, io faccio molto all’ammore, per quello sono sempre giovane. Guarda qua!”

E senza por tempo in mezzo, si tirò su la gonna scoprendo due gambe secche e flaccide, con la pelle che ballava un po’ dappertutto. Non contenta, provò anche a sollevarne una per mostrarla meglio a Frisella, ma perse l’equilibrio e cadde all’indietro, finendo per fortuna tra le forti braccia del “compagno” di 101 anni, Gennarino, il quale a malapena riuscì a restare in piedi.

“Allora, se vi volete preparare, tra un’ora iniziamo…” disse Frisella.

“Pronti!!…” disse Lucilla, Lillà per gli amici.

Ormai era tempo. Tutti gli ospiti erano lungo il bordo della piscina, i giovani musicanti erano lì che accordavano gli strumenti, “sa, sa prova” già lo avevano detto, via con “Sentimental” di Vanda Osiris…

“Sentimentaaal, come un sogno svanitoooo”, cantava Lillà, e i suoi boys la accompagnavano, soprattutto la tromba era uno spettacolo, e il pubblico piano piano si avvicinava, e sembrava gradire.

“Ciriniribin, che bel faccin…” anche quella era una canzone che molti tra i più anziani  apprezzavano, forse il ricordo di una giovinezza perduta, come anche “quando passa Nuvolari”, o “quando canta Rabagliati”…. Piano piano, tutto il bordo piscina si riempì, la gente veniva anche dagli hotel vicini, anche per scroccare le tartine che Frisella aveva fatto preparare. Poi, a un certo punto, a un segnale di Frisella, Beppa e Mario introdussero la ventina di Charlottes tutta panna, che la pasticceria del paese aveva regalato all’hotel in cambio di pubblicità. Proprio per questo impegno che aveva preso con la pasticceria, Frisella fece arrestare un attimo la musica, salì sul palco, prese il microfono della Sciantosa (a dire la verità, glielo strappò di mano…) e disse: “e ora, una bella fetta di torta per tutti gentilmente offerta dalla pasticceria “Abbuffàti e contenti”!!! Buona festa!…”

E lì fu il momento del grave errore. Perché per Lucilla l’apice della festa coincideva sempre con delle canzoni inequivocabili. E allora, iniziò con: “Giovinezza, giovinezzaaa, primavera di bellezzaaa”…. Il pubblico, ormai molto numeroso, ebbe quasi un sussulto. Molti cambiarono espressione, come se non capissero bene cosa accadesse. I camerieri continuavano a servire fette di torta, ma ormai molti non si interessavano più alla gozzoviglia, ma cambiando espressione e divenendo improvvisamente seri, stavano attenti alle parole di Lillà, la quale senza fermarsi cominciò con: “Faccetta neraaaa, bell’abbissinaaa, aspetta e spera che già l’ora s’avvicinaaaa”….

Il pubblico reagì come una pentola a pressione che sta per scoppiare.  “Ora basta, maledetti” urlò un signore da dietro i tavoli. “Tornatene da dove sei venuta, sòccola!!!…” disse un altro. Ma Lillà non li sentiva nemmeno, e continuava: “quando saremooo, vicini a te, noi ti daremo un altro duce e un altro reee”…

Quella frase fu il segnale che scatenò l’inferno. Ormai la gente non si teneva più. Un cliente dell’hotel, prese una charlotte intera e la tirò in faccia a Lillà, la quale, dopo essersi tolta la panna dagli occhi per vedere chi era stato, disse: “all’anema ‘e chi t’ammuort”…

Subito il suo ganzo di 101 anni smise di suonare, e per difenderla prese una torta e la tirò in faccia a chi si era permesso di molestare la sua fidanzata: “beccati questa, screanzato!”….

Non passò nemmeno un minuto, e tutti cominciarono a tirarsi torte in faccia, tra il divertimento di Ruzza e Riccardino, che finalmente sembravano apprezzare quel momento. “Aspetta papà, sto arrivando…” disse Ruzza al padre che naturalmente, stava preparando i bagagli per scappar via con tutta la famiglia. Ma prima, la piccola Maria voleva salutare una signora a lei molto simpatica….

“Ve ne andate già, ci dispiace, ma restate, è una bella festicc…” Frisella non finì la frase, perché la terribile Ruzza prese l’ultima Charlotte e gliela tirò dritta sul naso. E siccome Frisella era a bordo piscina, oltre alla torta si beccò anche un bel bagno rinfrescante…

Fabio Mastropietro, Fiuggi

“Signora D’Orazio, la classe è questa, prego”.
Il bidello Gennaro aprì la porta come a dire “…Ora sono cavoli tuoi…”.
Noemi entrò sfoderando un sorriso radioso come il Sole ma dentro di sé pensò che avrebbe voluto sputare per terra!
Ed era solo il primo giorno.
Lei non conosceva, nemmeno, quei giovani studenti romani dell’Istituto Alberghiero “Pellegrino Artusi”; eppure sentiva già di odiarli.
Lei sentiva di odiare tutti.
Erano tre anni, ormai, che girava le scuole di Roma per fare punteggio e poter, così, ottenere una cattedra più vicina casa a sua.
Ed anche quel quarto anno, lei, si sarebbe dovuta svegliare alle tre del mattino, per prendere il treno delle quattro e poter arrivare alle sette a Roma.
Tre anni erano, già, passati a viaggiare di notte per poter lavorare al mattino e fare, poi, ritorno a casa solo a tarda sera; giusto poche ore prima di dover ripartire di nuovo.
Soprattutto in inverno, poi, lei usciva di casa col buio e ritornava a casa col buio.
Una dimensione di notte eterna che si era ingoiata la sua stessa anima…
Mezz’ora di macchina, durante quelle che sono le ore del sonno più profondo, attraverso strade di campagna scarsamente illuminate, per giungere alle quattro meno dieci, alla stazione di Cangiano.
Quel piccolo snodo ferroviario, perso in mezzo al nulla, a quell’ora della notte, lei lo aveva soprannominato “la casa degli spettri”.
Anime dannate che aspettavano l’arrivo del treno per cercare di riprendere un sonno lacerato dall’incombenza del doversi svegliare.
Noemi chiamava lei e tutte quelle ombre smunte, “i deportati della scuola”.
Si domandava per quale ragione i romani, docenti e studenti, si potessero svegliare alle otto, per poi essere a scuola alle nove; mentre loro, deportati della scuola, alle nove del mattino, avevano già fatto una prima giornata di viaggio.
Ed ancora, perché i romani, alle due del pomeriggio, dopo una normale giornata di lavoro e di studio, potessero rincasare agevolmente a riposare; mentre loro, deportati della scuola, appena finito il lavoro scolastico, iniziavano una terza giornata di viaggio per poter tornare a casa?
Praticamente, loro, facevano tre giornate di lavoro in una: ogni giorno!
Nello specifico, quattro ore e mezza di treno al giorno!
Ma, poi, quel maledetto orologio alla stazione di Roma…
Lei lo fissava tutte ogni giorno, era posto sulla sommità di una colonna, poco sotto il soffitto.
Ogni mattina, al suo arrivo nella capitale, segnava sempre la stessa ora!
Le cifre del display cambiavano la data ogni giorno, ma c’era sempre la stessa ora!
Sempre la stessa maledetta ora…!
Una visione che la faceva, letteralmente, uscire di senno, ma che non riusciva a smettere di guardare, ogni mattina.
Talvolta doveva farsi forza, per staccarsi da quella osservazione e proseguire il suo cammino; si sentiva come imprigionata in una dimensione senza tempo.
Però lei doveva stare attenta perché nessuno doveva accorgersi dei suoi pensieri strani, altrimenti non avrebbe trovato nemmeno più uno straccio di incarico.
La docente pensava, a volte, che, forse, nemmeno i deportati dei campi di concentramento nazisti avevano subito una tale privazione del sonno e della propria libertà per così tanto tempo.
Lei faceva studiare le bambine mentre era sul treno, collegata in videochiamata con il tablet del marito.
Lei parlava con il logopedista, dove suo marito aveva portato la loro secondogenita alla visita settimanale, sempre mentre era in treno, collegata in videochiamata sempre sul suo tablet.
Tutto questo inferno solo per poter portare uno stipendio a casa.
Perché solo con lo stipendio di quello che, nel frattempo, era divenuto il suo ex marito, maresciallo dell’Aeronautica militare, non si riusciva a far quadrare i conti.
Poi perché, infondo, quello era il mestiere che lei aveva voluto fare sin da quando era ragazza; lei aveva studiato per essere un insegnante.
Non aveva mai immaginato, però, in quale budello oscuro sarebbe stata intrappolata la sua vita e la sua stessa anima.
Noemi si era data una spiegazione per tutto questo.
I suoi genitori erano stati insegnanti ma non avevano fatto una vita tanto assurda.
Allora si insegnava nella propria provincia.
Perché, adesso, invece, si doveva scegliere tra svegliarsi alle tre del mattino o emigrare al nord?
Lei sapeva che il problema stava tutto nel ritorno a casa serale dei politici…
Negli anni settanta ed ottanta, infatti, quando i politici tornavano a casa, non sapevano mai chi avrebbero potuto trovare lì ad aspettarli.
Che fossero le brigate rosse comuniste, i Nar fascisti o l’anonima sequestri, infatti, i politici sapevano che dovevano accontentare la gente, altrimenti la gente avrebbe coricato loro a terra…per sempre!
Oggi, invece, i politici potevano fare quello che volevano, danneggiare famiglie, imprese e lavoratori, che tanto tornavano a casa tranquillamente; senza che nessuno stesse lì ad aspettarli.
Era per questo motivo che lei, e tutti gli altri come lei, vivevano da deportati della scuola.
Queste cose, Noemi, le aveva dette anche al suo psichiatra.
Ma lui non aveva capito nulla, aveva detto che la mancanza di sonno le stava creando dei seri problemi e che non doveva covare tanta rabbia; altrimenti, prima o poi, questa sarebbe esplosa.
E tale esplosione di rabbia avrebbe prodotto degli atti di violenza verso gli altri o dell’autolesionismo.
Così si chiamava, infatti, autolesionismo, ed è quello che venne refertato in ospedale quando lei tentò di gettarsi dal balcone di casa.
Poi, da allora, le cure, la separazione e l’affidamento congiunto con collocazione prevalente, delle sue due figlie, all’ormai ex marito.
La vita di Noemi era perduta come il suo sonno ed era successo tutto per colpa di quella maledetta scuola.
Scuola, però, alla quale non interessava nulla della sua vita; difatti, era bastata una semplice messa a disposizione per ottenere l’incarico, anche quell’anno.
L’ingranaggio della scuola macinava tutto. Senza accorgersi di nulla. Nemmeno di quello che Noemi aveva tentato di fare. Nemmeno dell’odio che lei covava nel profondo della sua anima.
Ed allora eccola lì, dinanzi ai suoi occhi, un’altra classe di tossici, teppisti e sgualdrine; di tutte le razze e di tutti i colori del mondo.
Il peggio del peggio della evoluzione umana.
Il posto che restava ai deportati della scuola come lei; dopo che i docenti più anziani, e con più punteggio, lo avevano, prontamente, scartato ed evitato.
Ma sin dall’anno prima, Noemi, aveva architettato un metodo per poter avere una destinazione migliore ed un lungo periodo di malattia e congedo retribuiti.
Il metodo era semplice, bastava eccitare quelle scimmie troglodite che sapevano bofonchiare solo suoni gutturali del tipo: “Ao! Annamo! Se Vedemo!”.
Poi loro avrebbero fatto il resto.
O mediante messaggi sul telefonino o, ancora meglio, con volgari apprezzamenti davanti a tutta la classe.
Dopo di che tutto sarebbe stato semplice.
Lei sarebbe andata in presidenza, avrebbe detto di venire infastidita o molestata da questo o da quello e che, non volendo sporgere denuncia per non rovinare dei ragazzi in piena tempesta ormonale, voleva chiedere un periodo di malattia per far calmare le acque e fare dimenticare la cosa.
Il preside di turno, ovviamente, per non avere problemi e fare scoppiare scandali nella sua scuola, abbozzava convintamente alla richiesta della sua docente.
Assecondandola nella sua volontà.
Con questo stratagemma, l’anno prima, Noemi aveva fatto due mesi di malattia, da febbraio ad aprile, senza nemmeno essere sottoposta a visita medico fiscale.
E, una volta tornata a scuola, era stata dirottata sull’insegnamento di sostegno ad una ragazza che veniva a scuola, al massimo, un giorno a settimana.
Così, anche quella prima mattina di quel nuovo anno, lei si era messa in tiro come una adolescente che va in discoteca.
Aveva delle zeppe che la innalzavano ancora di più del suo metro e settantacinque; una canottiera color corda che lasciava aperto un décolleté mozzafiato ed aveva un pantaloncino bianco che non copriva nemmeno le sue natiche per intero.
Uno spettacolo che camminava insomma.
Immediatamente accolta dai commenti “bavosi” dei maschi in aula e dai sorrisi di intesa delle ragazze che si trasmettevano “ telepaticamente” il messaggio: ”.. Ma questa è impazzita?!?…”.
Però questa volta, Noemi, voleva qualcosa di più.
Il solo pensiero di dover vivere un altro anno infernale, come quelli passati, le aveva, oramai, lacerato l’anima fin nel midollo.
Il solo pensiero di doversi aggirare, nottetempo, in quei reami di dimenticanza, che erano le strade per raggiungere la stazione di campagna, le metteva i brividi addosso.
L’essere sulla via di casa verso le sei della sera, dopo 15 ore tra lavoro e viaggio, ed a sole 9 ore dalla successiva partenza; le avevano scavato il cervello come un pozzo di petrolio.
A volte aveva pensato di cambiare lavoro, di fare qualcosa che fosse più vicino a casa, ma cosa?
Lei aveva studiato tutta la vita per essere un insegnate ed ora cosa mai si poteva mettere a fare?
I colleghi le dicevano di resistere un altro paio di anni, poi avrebbe avuto il punteggio per potersi avvicinare.
Ma il punteggio della sua vita era, ormai, andato a farsi fottere…
Il suo matrimonio era finito.
Le sue bambine le poteva vedere solo il sabato, per due ore, ed in presenza dell’assistente sociale, così come aveva disposto il Tribunale.
Oramai non le interessava più nulla, nemmeno di avere un avvicinamento.
Lei voleva solo dormire…
Perché in quelle poche ore di sonno prima della sveglia alle tre del mattino, lei non riusciva più nemmeno a dormire.
Nessuno lo aveva capito, ma quando aveva provato a volare giù dal quarto piano, lei voleva solo poter dormire.
Dormire veramente.
Noemi, intanto, si sedette al suo posto ed accavallò le gambe, riuscendo a sentire, su di sé, gli occhi sgranati di quelle scimmie antropomorfe dei suoi studenti.
Le ragazze le rivolsero delle domande per farla parlare ed indagare che tipo di persona fosse una che vestisse in quel modo a scuola.
Noemi rispose a quelle puttanelle tatuate, sfoderando un sorriso radioso come un mattino di primavera.
E quando loro le chiesero se fosse sposata, lei disse di si, di avere due bambine ma che suo marito non la voleva, mai, portare a ballare.
Tanto nessuno poteva sapere la verità.
Il suo mondo era, così, lontano da quella classe.
Immediatamente i ragazzi si proposero di portarla a ballare e le ragazze le dissero: “Professoressa, non si preoccupi, sabato la portiamo noi in discoteca…”.
Noemi rispose sorridendo: “Ragazzi, guardate che vi prendo in parola..!”.
I maschi della classe, quasi, non ci credevano che una “Milfona”, sventola, come quella volesse andare a ballare con loro.
Le ragazze si interscambiarono dei sorrisi di ammiccamento, come a voler dire: “…Questa ha proprio voglia di divertirsi!…”.
Noemi sorrideva e mostrava copiosa le sue grazie.
Ma nel suo animo c’era il buio assoluto.
Lei sentiva solo di volersi addormentare in quel buio.
Lei voleva solo poter dormire. Finalmente dormire.
Ed allora, stavolta, avrebbe fatto il lavoro per bene, si sarebbe presa un anno intero di riposo, pagato e spesato.
Bisognava solo organizzare bene la cosa.
Però stesso quel giorno, perché il solo pensiero di doversi svegliare alle tre del mattino successivo, le faceva mancare la terra sotto i piedi.
Ci volle poco ad individuare l’obiettivo.
Noemi lo capì subito che lui era il capo branco.
I ragazzi ridevano fragorosamente ad ogni suo commento, anche il più cretino, come fossero delle scimmie ammaestrate.
Le ragazze si fissavano e sbuffavano ad ogni sua battuta, come a dire: “…Ti pareva che non era sempre lui…”.
Lui si sentiva gli occhi dei suoi accoliti addosso e, per acclarare il suo dominio, li faceva ridere bofonchiando e scimmiottando, frasi e comportamenti, ad ogni movimento delle gambe della “Prof”.
Lei lo guardava sott’occhio, e si convinse che lui era quello giusto.
Doveva essere egiziano o roba simile, era scuro, magro e coi capelli corti.
Non era molto grosso, ma si pompava tenendosi sempre ritto e fiero nel suo posto per mostrare una imponenza che non possedeva.
Non emetteva una sola sillaba in italiano, parlava solo dialetto romano e qualche frase araba con altri due suoi conterranei che erano in classe.
Noemi si convinse, sul serio, che fosse lui quello giusto.
Ed allora, nelle due ore di lezione che seguirono, non appena si accorgeva che nessuno la potesse scorgere, gli dedicava degli sguardi che avrebbero fatto incendiare anche un iceberg!
L’egiziano non se lo aspettava, d’altronde come tutti i bulli, anche lui, viveva un profondo complesso di inferiorità nei confronti degli altri.
Un po’ per la sua condizione familiare, un po’ per le privazioni dovute alla sua situazione economica, lui si era sempre sentito estraneo.
Estraneo nel suo quartiere, estraneo a scuola, estraneo sul campetto di calcio o alle feste.
Fino a che non aveva capito che anche lui poteva avere un ruolo, qualcosa per cui essere rispettato e temuto; una sua collocazione nel giudizio e nella considerazione degli altri.
E quel ruolo era il bullo.
All’inizio ci volle solo un po’ di coraggio: qualche litigata e qualche atto vandalico.
Però tanto valse a fargli ottenere l’incoronazione a ras del quartiere e della classe.
Ed ora il suo “curriculum” in Tribunale vantava, già, qualche piccola ma “promettente” citazione.
Queste cose, quantunque in modo intuitivo e percettivo, Noemi le aveva carpite e perciò lo scelse.
Lo smilzo egiziano, alla fine delle due ore di lezione, era talmente su di giri che sarebbe potuto decollare.
Noemi lo aveva cucinato a puntino con sguardi furtivi e movimenti sinuosi.
Solo quel tanto che bastava, però.
Perché nessuno avrebbe, poi, dovuto testimoniare, in seguito, che era stata la “Prof” a far “ingrifare” il suo studente.
Questo non doveva assolutamente accadere perché, nei propositi di Noemi, la vittima doveva essere, solo e soltanto, lei.
Un sacrificio necessario e dovuto, che però le sarebbe valso il non dover più vagare, nelle notti dei giorni feriali, in strade buie e deserte.
Una delle sue tante prove da dover superare, ma che le avrebbe portato in dono ciò che lei agognava più di ogni altra cosa…poter dormire.
Quando la docente di economia uscì dall’aula salutando tutti, rivolse un ultimo fugace sguardo d’intesa all’egiziano.
Lui, quasi, si sollevò dalla sedia!
Il docente che entrò per la terza ora, trovò una classe in mezzo subbuglio.
I ragazzi commentavano, frenetici, ogni curva ed ogni lembo di pelle scolpita ed abbronzata della loro insegnante.
Le ragazze spettegolavano sul fatto che suo marito, con una moglie tanto bella e focosa, dovesse avere più “corna” di un cesto di lumache…
Ma lui non c’era.
L’egiziano si era mosso prima ed aveva ordinato agli altri di dire che era andato in bagno.
Lui, invece, la stava seguendo. A distanza.
Lei se ne accorse e, girandosi, gli fece un sorriso malevolo.
L’egiziano non si accorse della luce folle che balenava negli occhi della docente.
Non se ne accorse nessuno, erano tutti intenti ad aggredire le macchinette distributrici di cibi e bevande.
Noemi salì al piano superiore, si diresse al bagno dei docenti e vi entrò, non prima di aver rivolto un ultimo sguardo di invito al suo inseguitore.
Lei fece ingresso nel bagno delle signore e si portò allo specchio, non c’era nessuno.
Quando lui entrò ansimante, lei gli sorrise attraverso il vetro.
L’egiziano non comprese quale follia si celasse dietro quel sorriso.
La docente si mosse lenta e sinuosa verso la porticina di un water.
Lui fece per parlare ma lei si portò la mano alla bocca e gli fece segno di fare silenzio.
Lei entrò nella porticina e la lasciò semi aperta.
Lui la seguì e, entrando, trovò la donna più bella che avesse visto nella sua vita, appoggiata con la schiena contro le piastrelle della parete.
Lui la prese come se volesse sbranarla.
Lei accettò. Ma il suo pensiero era uno solo.
Presto quello schifo sarebbe finito.
Presto lui avrebbe finito.
E lei sarebbe andata in presidenza…
Lo avrebbe denunciato per violenza sessuale!
In tanti lo avevano visto seguire la sua professoressa.
Poi lei sarebbe andata in ospedale a farsi curare ed a far refertare l’avvenuto rapporto sessuale, a riprova di quanto lei asseriva.
I carabinieri lo avrebbero arrestato all’uscita da scuola.
D’altronde Noemi era certa che quel ragazzo avesse dei precedenti penali.
Si sarebbe fatto, certamente qualche anno di carcere…
Ma per uno come lui, un po’ di carcere in più o in meno, contava poco.
Però lei sarebbe stata libera!
Quell’anno lo avrebbe passato, a casa sua, in congedo per malattia; retribuita regolarmente ogni mese.
L’anno successivo, poi, manco a dirlo, avrebbe avuto l’assegnazione in ruolo praticamente sotto casa sua.
Finalmente avrebbe potuto dormire come una persona normale.
Finalmente avrebbe riavuto le sue bambine a casa…
Avrebbe riavuto suo marito.
Lei non sarebbe stata più sola…
Noemi pensava questo mentre l’egiziano compiva il suo rapporto sessuale.
Le fece schifo, come può fare schifo fare sesso con un asino.
Sadicamente, però, ella pensava, di quel ragazzo che la stava prendendo nel bagno dei docenti: “…Goditela…perché poi ti ci vorranno alcuni anni, prima di rivederne un’altra……!”.
Questo pensiero masochista e sadico fece eccitare la donna, la quale partecipò con foga all’amplesso, emettendo gemiti e sospiri che fecero imbufalire ancor di più il giovane egiziano.
Quando il rapporto terminò non ci furono parole.
L’egiziano parve pienamente soddisfatto dalla sua prestazione: “Secondo me tuo marito, non te ne fa vede’ mai bene! Se vede da come c’hai dato, t’è piaciuto davero – disse il ragazzo – però nun te sta’ a preoccupà che mo a te ce penso io, per tutto l’anno…”.
“…Che romantico…” rispose sarcasticamente Noemi mentre si rimetteva lo slip.
L’egiziano si girò verso il water come se volesse urinare e, dopo, qualche secondo si udì la voce registrata della donna che ansimava per il rapporto di poco prima.
“Cosa diavolo è questo?” sbottò la Prof.
L’egiziano si girò verso di lei e sorrise: “Che te credi che me faccio denuncià?! Questo mo’ conservo, così se te viene qualche strana idea in testa, faccio sentì il festival di Sanremo che hai fatto nel gabinetto dei professori!”.
L’egiziano continuò a parlare sempre girato di spalle e non riuscì a vedere cosa era diventato il volto di Noemi, letteralmente sfigurato da una follia incontenibile.
“Poi – continuò il giovane – se te dovesse venì de cambià idea, o se nun me vuo’ fa’ qualche regalino de tanto in tanto, te che pigli lo stipendio; questo o famo sentì pure a tuo marito…”.
L’anima di Noemi si lacerò. Pensò che non avrebbe mai più rivisto le sue bimbe.
Si sentì condannata senza appello, come sprofondare in un pozzo senza uscita.
Ora sarebbe stata vittima sessuale ed economica di quel teppistello pregiudicato per tutto l’anno e, forse anche, dei suoi amici.
Avrebbe perso tutto e, nonostante, questi inquietanti pensieri, quello che le fece più rabbia fu che…anche il giorno dopo non avrebbe dormito!
Noemi colpì con la zeppa che aveva in mano l’egiziano mentre questi era ancora di spalle.
Il colpo fu scagliato con una violenza inaudita e raggiunse il giovane proprio dietro al cranio.
L’egiziano perse i sensi e crollò sul water.
Noemi allungò il piede destro e lo mise sul capo del ragazzo, spingendolo dentro il gabinetto.
Lo spinse con la faccia nell’acqua, ringhiando con tutta la rabbia che aveva e tenendolo così per qualche minuto.
Tirò lo sciacquone, in continuazione, come se lo volesse far inghiottire dalle fogne.
Noemi sollevò, quindi, la gamba e lasciò l’egiziano con il viso, praticamente, incastrato nel water.
La docente rimase a guardare ciò che aveva fatto, per qualche secondo, come se stesse vedendo la scena di un film in tv.
Quindi indossò il suo pantaloncino e corse fuori dal bagno.
Tornò immediatamente dopo a prendere il telefonino del ragazzo che era caduto in terra e lo raccolse.
Mentre si abbassò, Noemi notò la totale immobilità del corpo del giovane e si alzò lentamente, non staccandogli occhi di dosso.
La docente riprese, allora, la via d’uscita e non si fermò nemmeno quando venne chiamata dal bidello Gennaro, che le indicava la classe dove avrebbe dovuto fare la terza ora; già abbondantemente cominciata.
Noemi corse via; via da tutto.
Ormai non si sarebbe fermata per nulla al mondo.
Scese in metropolitana e prese la corsa che portava alla stazione.
Mentre era seduta non rispose alle telefonate che giunsero dalla scuola.
Lei guardò il telefonino dell’egiziano e si rese conto che era stato tutto inutile.
L’avevano vista in tanti salire le scale seguita da quel ragazzo.
Così come altri l’avevano vista camminare verso il bagno dei docenti, sempre seguita da lui.
Ormai era spacciata, per lei era finita.
Si rassegnò a quel pensiero e la sola cosa che riuscì a sentire, distintamente, in quel momento, era di avere sonno…tanto sonno.
Lei voleva solo tornare a casa e mettersi a dormire.
Quando arrivò in stazione, vide l’orologio sulla colonna e, per la prima volta, fu diverso!
Non era quel mostro notturno che condannava ed incatenava la sua vita, giorno dopo giorno, in una dimensione di buio senza fine.
L’orologio era illuminato dalla luce del mezzogiorno che stava arrivando, era luminoso e colorato; Noemi rimase a fissarlo, per alcuni minuti, sorridendo.
I volti delle persone, poi, non erano freddi e smunti dalla privazione del sonno e dalle ore di viaggio nella notte.
La gente sorrideva, era allegra e piena di vita.
Noemi si mosse leggiadra verso il suo binario e si mise in attesa del treno che sarebbe arrivato.
Camminò lungo il marciapiede, fino a quando non raggiunse una panchina dove si sedette spossata.
Il sonno diventava sempre più pesante.
Lei non ce la faceva più, sentiva che non era giusto continuare a resistere.
Il sonno le stava cancellando anche i ricordi.
Ormai non contava più nulla.
Quel Sole e quella luce erano bellissimi.
Finalmente lei avrebbe dormito e le importava solo questo.
Il treno fischiò il suo impetuoso arrivo in stazione.
In quel momento, Noemi si girò e vide provenire, dalla stazione ed a passo spedito, due carabinieri e due agenti della polizia ferroviaria.
La Prof riuscì a malapena ad alzarsi dalla panchina, mente sentiva come di vivere in un sogno.
Ce l’aveva fatta. Forse stava dormendo, finalmente lei stava dormendo!
Noemi chiuse gli occhi assonnati e, con un sorriso dolce, si lasciò cadere sui binari mentre sopraggiungeva il suo treno.

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo” La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

“Wow! Si! È lei!
È la sua macchina! Lo sapevo!
La mattina viene qui!
Adesso, però, calma e sangue freddo!
Devo entrare con indifferenza, come se venissi qui ogni mattina, come effettivamente faccio, e come se l’intruso fosse lei……
Cavolo ci sono poche macchine e nessuna appartiene a quei barboni che le corrono dietro!
E vaaiiii! Oggi me la gioco alla grande!!!”.

Purtroppo per lui, Vito aveva effettuato questa disamina della situazione, mentre stava parcheggiando la sua auto nell’area recintata della Tenuta Serreto, a voce alta e con i finestrini aperti.
Non appena ebbe, però, superato la 500 bianca di Tina, ed un’altra auto posta alla destra di quest’ultima, il giovane non fece in tempo a parcheggiare la sua macchina che la bionda tormentatrice dei suoi sogni aprì la sua portiera sinistra e, con il cellulare all’orecchio, si diresse spedita al giardino di ingresso della piscina!
Se ci fosse stato qualcuno ad osservare Vito in quel momento, avrebbe visto la sagoma di un essere umano, seduta al posto di guida della propria autovettura, letteralmente impietrita!

Il giovane ripassò in rassegna, nella sua mente, quegli ultimi secondi.
Le scene che aveva visto, le parole che aveva detto e cercò, al contempo, di rievocare il volume della voce con la quale, lui, aveva parlato.
Immobile e quasi trattenendo il respiro, Vito, trovò un po’ di conforto nell’immagine dei finestrini chiusi della macchina di Tina.
I quali, unitamente, alla conversazione al telefono della stessa, dovevano averle precluso la facoltà di udire i propositi del suo spasimante.
Perlomeno Vito volle convincersi di questo.
Ora però bisognava muoversi.
Lei, probabilmente, non lo aveva nemmeno visto, impegnata com’era a conversare al telefono.
Anche se, quest’ultimo pensiero, tolse quel po’ di ristoro che si era radicato nell’anima del giovane.
Perché Vito traspose, nella posizione di osservazione che aveva dovuto avere Tina poco prima; l’immagine di lui che, nel girare attorno al recinto di legno, subito dopo la salita, si era sporto, con tutta la testa, fuori dal finestrino per osservare “famelicamente” l’auto di lei.
Il giovane si biasimò per cotanta sbadataggine.
“Si, ok! Però io stavo osservando attentamente la zona del parcheggio per trovare un posto…”.
Vito volle convincersi di questa sua interpretazione dell’accaduto che, effettivamente, poteva avere una sua base concettuale e fattuale solida.
Ed allora, presi asciugamano ed occhialini da sole, lo spasimante scese dall’auto e si diresse, convinto e motivato, all’entrata della piscina.
Pochi metri attraverso il vialetto di ciottoli, costellato da curati e squadrati cespugli di rose, ed il giovane vide crollare, miseramente, tutti i suoi propositi di conquista.
Tina aveva, difatti, appena occupata la sdraio vicino a quella di Gennaro…!
Ed, allora, ecco svelato l’arcano.
Lei era al telefono con lui, poco prima nel parcheggio, in quanto non avendone intravista l’auto, lo aveva chiamato.
Il nano malefico tatuato con le ciglia e la barbetta curate, invece, per fare lo splendido, era venuto in bici e le aveva confermato di essere già a bordo vasca a prendere il Sole.

Vito stette, per un istante che gli sembrò eterno, sul punto di girarsi e di andarsene.
Però, oramai, lei lo aveva visto e sparire, così, di punto in bianco, avrebbe significato palesare a lei e, forse, al mondo intero, i suoi sentimenti più reconditi.
Ed allora bisognava andare avanti.
D’altronde nessuno sapeva. E non c’era alcun problema di sorta per uno che, in piena estate, se ne andava a fare due tuffi in piscina.
Perciò Vito ingoiò il boccone amaro e si diresse verso il locale bar a bordo vasca, laddove solitamente versava la quota di ingresso alla cassiera e le indicava, poi, quale ombrellone dovesse aprire.
Stranamente, però, non c’era nessuno.
Vito rimase un attimo interdetto da questa anomalia, ma poi, guardando tutta già in acqua o sulle sdraio, ritenne che, forse, il personale di piscina era, momentaneamente, rientrato nella struttura.
Comunque, importava poco, perché lì, lui era di casa ed avrebbe saldato il dovuto in un secondo momento.
Vito decise, allora, di sistemarsi da solo e, manco a dirlo, ovviamente, il giovane scelse una posizione diametralmente opposta a quella di colei che gli aveva spezzato il cuore per l’ennesima volta.
Come sempre, però, il destino parve volersi burlare di lui e, non appena, si fu posizionato nella sua zona, il giovane non fece a tempo a girarsi che si trovò Tina dinanzi ai suoi occhi!
“Vito ciao – disse lei sorridente – anche tu qui, vedo. Perché non ti vieni a mettere vicino a noi. Siamo io e Gennaro Doria, tu lo conosci, no?!?
Ha organizzato lui che conosce il posto. Tra poco dovrebbero arrivare anche gli altri”.
Vito fece in tempo solo a vedere gli occhi “infuocati” di Gennaro che lo fissava da lontano e che lo faceva sentire come fosse un ospite decisamente indesiderato.
Però la sorpresa di avere tanta considerazione da Tina, gli fece davvero piacere: “Ciao Tina, grazie, chi siete? Sai com’è, non vorrei occupare il posto di qualcuno.”
Il giovane cercò di mascherare il turbinio di emozioni che sentiva vibrare dentro di sé.
“Maria Teresa, Vitaliano, Antonio, Anna Clelia…questi” rispose Tina.
Vito stava per assecondare l’insperata ed allettante richiesta della bionda e formosa protagonista dei suoi sogni; quando, però, intravide, nuovamente, lo sguardo “fiammante” con il quale Gennaro stava inviando strali ed anatemi nei suoi confronti.
Vito percepì subito che il suo “malefico” concorrente non lo volesse tra i piedi, così come ebbe la sensazione, per lui fantastica, che Tina non volesse restare da sola con Gennaro, perlomeno fino all’arrivo degli altri.
Ciò nonostante, però, Vito ritenne che doveva guadagnare tempo, anche per vedere tutta la comitiva che stava giungendo.
Così, ne approfittò per spararsi un po’ la posa: “A dire il vero- rispose lo spasimante- dovrebbe arrivare un’amica…
Magari aspetto prima lei e, se non riesce a liberarsi, vi raggiungo”.
“Certamente – rispose Tina- oppure, appena viene anche lei, ci raggiungete. È una che conosciamo?”.
Al giovane non parve vero che Tina volesse sapere chi fosse la ragazza in arrivo.
“No- bofonchiò il giovane- è un’amica di fuori, non è mai venuta da queste parti.”.
“Va bene, allora- sorrise lei – appena viene raggiungeteci, oppure vieni tu se lei non dovesse arrivare”.
Il giovane sorrise a trentadue denti, preoccupandosi, però, subito dopo, di aver eccessivamente mostrato interesse verso di lei ed il suo invito.
Tina, nel frattempo, si era mossa, sinuosa e delicata, verso il suo posto e Vito, dopo averla guardata camminare, sentì, fortemente, il bisogno di doversi subito rinfrescare…
Qualcosa, però, attirò nuovamente l’attenzione del giovane.
Come un qualcosa di stonato in mezzo ad una situazione apparentemente normale.
Vito si tolse la maglietta ed il pantaloncino, restando in costume, mentre passava in rassegna le persone intorno a lui.
Sembrava tutto normale, però, c’erano i soliti clienti abituali.
C’erano i due culturisti che spesso pernottavano nella struttura.
Lei con il viso gentile ed i capelli lunghi e fluidi da una parte, ed il braccio sinistro tatuato e la stazza imponente dall’altra; che la facevano sembrare una “bambinona gigante” cresciuta ad omogeneizzati; quantunque paresse essere, sempre, intimidita e riservata, tanto che non si era ancora tolta i vestiti di dosso.
C’erano, poi, le due lesbiche con il loro inseparabile cane.
Le quattro “salsere”, con le due più avanti negli anni, che avevano, già, dato inizio alle danze latino americane a bordo vasca; sulle note del cellulare di quella più alta del gruppo.
C’erano i quattro “pensionati” con le due signore in acqua ed i mariti sdraiati ad abbronzare le pance.
C’era la tipa “fighettina” con la cagnolina “fighettina” che avevano preso l’ombrellone “fighettino” chiuso su tre lati.
Vito non riusciva mai a comprendere come si riuscisse a stare in quella gabbia di seta, con la calura insostenibile che c’era.
Questa, insomma, era la solita “fauna” della Tenuta Serreto che lui ben conosceva.
Fino a che Vito non scorse altri volti…
O meglio, udì qualcosa di poco consono.
Una voce femminile stridula ed atona che proveniva dall’acqua.
Una donna adulta che cantava, come una bambina impazzita, una canzone che inneggiava alla camorra!
Vito la fissò per un attimo: “Oh merda! Ma non può essere?!”.
Il giovane si rese conto di conoscere quella donna, così come, poco dopo, riconobbe anche i brutti ceffi che erano con lei, insieme a due medici ed un’infermiera.
Erano gli internati della residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza!
Lui li riconobbe tutti.
Il corvo, il barbuto, il rosso con i tatuaggi il torvo, il pelato senza sopracciglia, quello con gli occhiali che parla sempre ed il turco con il turbante e la barba bianca.
Questi erano i nomi che erano stati affibbiati dalla gente ai residenti che spesso, accompagnati dai medici ed infermieri, facevano lunghe passeggiate per le vie cittadine.
Tra di loro c’era il corvo che sembrava essere un personaggio, alquanto, particolare.
In paese, era chiamato così perché vestiva sempre di nero e, di lui, si diceva che fingesse di fare il pazzo per evitare la detenzione carceraria.
“Ma come si fa? – bisbigliò Vito – il migliore di questi ha ammazzato la mamma e l’ha messa in freezer! Già farli camminare per il paese è una follia, addirittura farli venire qui a contatto con le persone…”.
Ogni volta che il giovane vedeva in giro i “residenti” della REMS, pensava che i veri pazzi fossero quelli del personale sanitario che li accompagnavano, liberi e senza vincoli, in mezzo alla gente.
Ed anche stavolta egli rivolse delle occhiate di disapprovazione, verso il medico anziano con la barba bianca, quello giovane al telefono e verso l’infermiera intenta a curare la sua abbronzatura.
A Vito parve tutta una situazione paradossale, tanto che, in condizioni normali, se ne sarebbe andato via subito.
Ma stavolta c’era lei.
Non poteva lasciarla nelle mani di quel nano, scroccone seriale, di Gennaro Doria.
Tanto più adesso che lei aveva mostrato una inaspettata attenzione nei suoi confronti, invitandolo ad andare in mezzo alla loro comitiva.
Oltretutto, poi, pensò lui, sarebbe stato semplice intrufolarsi; bastava dire che la “lei” di turno non era venuta per qualche imprevisto e che lui era libero di potersi unire a loro.
Ora, però, pensò il giovane, bisognava fare una bella nuotata, anche per mostrare a Tina la propria “sfolgorante” condizione atletica; a differenza di quel nano malefico, tatuato e con le ciglia curate, che le stava accanto.
Mentre si toglieva i vestiti, il giovane, si vide, incredibilmente, osservato da lei e questo lo fece ringalluzzire non poco; egli si sentiva come il bomber di una squadra di calcio che si involava a rete in solitaria con la porta sguarnita.
Sentiva che, ormai, il goal era vicino.
Ce l’aveva fatta…
Quando entrò in acqua, Vito transitò vicino alle due “pensionate”, le quali stazionavano, in piedi, attaccate al bordo.
Un rapido saluto ed uno sguardo di disapprovazione verso la “residente” che continuava la sua insana litania di devozione verso la criminalità organizzata partenopea, però, trasmisero al giovane la sensazione che le signore volessero dirgli qualcosa.
Vito si fermò.
“Sta facendo questo da stamattina, da quando siamo arrivati”, disse una delle due signore.
“Non so perché non esce nessuno del personale? Così almeno chiediamo che dicano qualcosa a quei dottori che se ne fregano”, disse l’altra.
“Ma perché nemmeno voi avete incontrato qualcuno della Tenuta? – chiese Vito- Io ho aspettato un po’, poi ho deciso di tuffarmi, magari verso la quota appena esce qualcuno, tanto sto sempre qua, quasi tutti i giorni”.
“No, non abbiamo trovato nessuno – disse la prima – solo “questi”. Anche i loro medici sono arrivati dopo”.
“Secondo me hanno dormito qui- disse la seconda – i medici sono venuti a prenderli stamattina. Sarà qualche esperimento sociale di reinserimento o cose simili”.
Vito avvertì una inquietudine indefinita.
Si chiese dove fossero il Professore, la signorina Lucia, la signora Palma e la “Morositas”; il proprietario, cioè, ed il personale della struttura e perché non fossero ancora venuti in piscina?
Certamente dovevano essere impegnati nell’allestimento della sala interna, pulizia delle camere o cose simili.
Anche perché il Professore si affacciava sul balconcino della sua mansarda solo a mattinata inoltrata.
I pensieri del giovane vennero distolti dal gracchiare di una voce rauca e fastidiosa che proveniva dal lato opposto della vasca.
Tempo di girarsi e Vito si accorse di quanto stesse accadendo.
Il nano infame aveva urtato uno dei residenti: il torvo!
Quest’ultimo, come faceva sempre, lo aveva fissato con uno sguardo minaccioso senza proferire parola alcuna; ed, allora, Gennaro aveva cominciato a sbraitare per farsi notare da tutti, soprattutto da Tina.
Solo che, anche un tappo stappato come lui, avrebbe dovuto sapere chi fosse quella gente e che mettersi a fare questione con loro non era per niente una grande idea.
Era come lanciare una bomba atomica in un vulcano che dorme!
Difatti i medici erano accorsi, subito, a calmare le acque…
Vito ritenne che non ci fosse espressione più adatta di questa, per indicare la vicenda e si lanciò verso la scena della litigata.
Lo gnomo malefico stava inveendo come un forsennato contro il torvo, il quale lo fissava in silenzio con degli occhi che sembravano schizzati dalle orbite.
I due dottori e l’infermiera stavano, intanto, cercando di dialogare con Gennaro per dirgli che il loro paziente non era completamente padrone di sé ed era per tale ragione che pareva fissare in maniera minacciosa le altre persone.
Frattanto anche gli altri residenti si erano agitati.
La bambina folle aveva cominciato ad inveire, con la sua voce stridula, contro il tappo stappato; mentre il rosso si era alzato dalla sdraio, aveva cominciato a tremare ed a ringhiare e bofonchiare contro lo gnomo in acqua.
Vito, forte della sua possanza fisica, si frappose dinanzi al nano e, facendogli comprendere che stava litigando con degli psicopatici rinchiusi, riuscì a trainarlo via.
Ormai, però, la miccia era stata accesa.
Il barbuto gridava contro il nulla, il rosso pareva un dobermann che ringhiava contro il nano, la bambina folle emetteva dei gridolini atoni ed acuti insopportabili, il turco si alzava e si sedeva in continuazione, come fosse un filmino in continuo riavvolgimento.
Era un trambusto insensato, in ogni dove, che i medici facevano fatica a contenere.
Fino a che il corvo, seduto sulla sua sdraio, non fece un cenno con la mano.
Si placò ogni rumore…all’istante!
La bambina folle smise di strillare, il barbuto si placò, il rosso si sedette come nulla fosse successo ed il torvo riemerse dalla scaletta per andarsi a sedere al suo lettino.
Era sopraggiunta la quiete, improvvisa ed assoluta, dopo la tempesta.
Un fenomeno che aveva dell’innaturale.
Era come se lo stesso umore dei residenti fosse mutato d’improvviso.
Addirittura il barbuto, si era avvicinato al bordo dove si trovava il medico più anziano e ripeteva, a macchinetta: “…Dottore qui è bellissimo, è bellissimo…”.
Tutte le persone rimasero esterrefatte da un tale accadimento, e ripresero, man mano, le loro precedenti occupazioni.
Le salsere ricominciarono a ballare al ritmo latino, la fighettina si rimise nella sua posizione cristallizzata, il culturista tornò a sedersi vicino alla sua culturista, le lesbiche riuscirono a calmare il cane che aveva abbaiato fino a quel momento ed i pensionati si riunirono in conciliabolo per decidere cosa fare…d’altronde non avevano ancora pagato la quota…
Quest’ultimo pensiero allarmò, ancora di più Vito…
“Dannazione! Non sono usciti nemmeno con tutto questo casino?!”.
Il giovane decise che era venuto il momento di andare a chiamare qualcuno nella Tenuta.
Dopo aver sentito, ancora per un po’, le acide contestazioni del nano ed aver sorriso alla sua “amata”; Vito si incamminò verso la struttura, attraverso il giardino.
Non prima, però, di aver notato il modo famelico con il quale il corvo stava fissando Tina…
Questa ultima immagine non fece altro che aumentare il senso di inquietudine nell’animo del giovane.
Tanto più che, proprio nel momento in cui Vito entrò nel prato che suddivideva la piscina dagli ombrelloni della sala da pranzo all’aperto, non potette fare a meno di notare tutti gli oggetti, motorizzati e non, che stanziavano in giardino e che, come una mostra permanente della civiltà rurale, richiamavano l’antica vocazione campestre e contadina della struttura originaria.
C’erano rastrelli, zappe, vanghe, un trattore ed una falce!
Si vedeva che erano oggetti vecchi di decenni, ma erano ancora utilizzabili e, pertanto, potenzialmente pericolosi.
Bisognava parlare con il personale della struttura, subito!
Perlomeno far togliere quegli attrezzi dal giardino o per farli colloquiare con i medici e fare in modo di tenere i residenti in una parte della piscina ed i clienti in un’altra.
Vito superò la sala da pranzo all’aperto ed entrò nella struttura dagli ingressi posteriori.
Uno era quello della sala da pranzo interna e l’altro era quello della cucina.
Il giovane entrò in entrambi, disse buongiorno in ambedue i casi, ma nessuno rispose.
C’era il tavolo dove aveva fatto colazione un gruppo di persone, ed era ancora in disordine.
Vito si allarmò, e contò i posti a quel tavolo.
Il conteggio fu veloce: il corvo, il rosso, il barbuto, il torvo, la bambina folle e, poi, il pelato e quello con gli occhiali che parlava sempre ed il turco.
“…Hanno dormito qui… senza i medici…”. Sospirò Vito.
“Signorina Lucia…! Signora Palma…! Professore!”.
Il tono di voce alto di Vito non ebbe risposte e tornò indietro dai piani alti come un eco ramingo e solitario.
Il giovane si domandò cosa fosse accaduto, perché non ci fosse Lucia, carina e sempre sorridente, alla reception? Perché non c’era la signora Palma, la quale assomigliava a Sofia Loren da giovane, in cucina a collaborare, ed a far girare la testa, al giovane cuoco con la barbetta? Perché non c’era la “Morositas” che si muoveva tra i tavoli, con la sua carnagione olivastra ed il suo sedere grande e tondo come il mondo? Perché non si vedeva scendere il professore, dalla sua mansarda, con il suo fare, incedere e parlare da comandante in capo?
Vito, dentro di sé, sentiva di conoscere la risposta e, già, vedeva la scena da film dell’orrore che si aspettava, di lì a poco, di andare a scoprire…
Erano stati tutti uccisi! Tutti! Quella notte! dai residenti!
E quando al mattino erano arrivati i medici, avevano trovato i detenuti già in piscina.
Ora le camere dei piani superiori erano dipinte del sangue e delle membra dei membri del personale della struttura!
Vito salì le scale preparandosi, già, alla visione da girone infernale che avrebbe visto di lì a poco.
Invece le camere erano vuote…tutte vuote!
I letti erano ancora sfatti e c’erano i vestiti dei residenti dappertutto.
Però il sangue, le membra e le ossa del personale non c’erano…
Fortunatamente Vito non scese nelle cantine dove si trovavano i freezer a pozzetto.
Per fortuna per lui, non li aprì.
Altrimenti li avrebbe trovati tutti lì! Il Professore, la signora Palma, la signorina Lucia, la Morositas, il cuoco con la barbetta che, mentre lavorava, ammirava sempre la scollatura della signora Palma…
Tutti fatti a pezzi, imbustati e con la scritta sulla bustina che indicava la parte del corpo contenuta nel sacchetto, il proprietario alla quale apparteneva in precedenza e la data di refrigerazione!
D’altronde il giudice di sorveglianza lo sapeva che alcuni dei residenti erano molto metodici ed ordinati in tema di refrigerazione dei loro “alimenti”, ed avevano fatto la stessa cosa a madri, sorelle e parenti vari.
Però, lui era uno dalle vedute progressiste e le attività di socializzazione dei residenti, come prospettate dal personale medico, erano più importanti della incolumità della gente del paese o di quella del personale della Tenuta.
Anche perché lui, non si era trovato nei boschi, la notte prima, allorquando il personale della Tenuta era stato soppresso, smembrato, cotto sul fuoco ed imbustato….
Vito, intanto, era ancora fermo nel corridoio delle camere superiori, a domandarsi cosa stesse accadendo, nel momento in cui cominciò a percepire, al di sotto del frastuono della musica in piscina, qualcosa che non era ritmo o melodia.
Erano grida di terrore!!
Il giovane trasalì, ed urlando il nome di Tina si precipitò alla finestra.
Quello che egli vide in quel frangente, restò per sempre scolpito nei suoi occhi e nella sua anima, come la materializzazione terrena della dimensione concettuale di Inferno!
Ciò che lui aveva temuto si era verificato! I residenti avevano imbracciato gli attrezzi restaurati che facevano bella mostra, in giardino, della antica civiltà contadina che abitava quelle terre.
Ora, però, quegli stessi attrezzi erano usati per massacrare degli esseri umani!
E con la musica così alta, la “festa” doveva essere iniziata già da qualche minuto.
Il culturista, infatti, era riverso nel prato, immerso in una pozza di sangue|!
La sua “bambinona gigante”, invece, aveva cercato scampo correndo verso il cancello principale, ma lo scienziato con gli occhiali che parlava sempre, l’aveva raggiunta sul vialetto di ciottoli.
Laddove l’aveva, evidentemente, colpita con una “pirocca” di legno, che era a terra vicino a loro; ed ora stava abusando di lei, quantunque ella fosse ancora semi tramortita.
Uno dei pensionati erano sdraiato sui lettini e non si muovevano più.
Le due pensionate galleggiavano con il viso riverso sul pelo dell’acqua.
Seppur la musica latina proseguisse la sua scaletta, due salsere non ballavano più; erano a pancia sotto a bordo vasca.
La fighettina arrivò dal giardino correndo ed urlando disperatamente, mentre si diresse alle spalle del locale bar, inseguita dalla “bambina folle” che emetteva un risolino acuto e famelico.
Il braccio di una delle due lesbiche penzolava dalla sua sdraio ed il cane le abbaiava contro come se volesse svegliarla.
I medici e l’infermiera non c’erano.
Vito rimase agghiacciato da quel set di un film dell’orrore che si stava svolgendo sotto i suoi occhi e si domandò se stesse accadendo veramente.
Restò così fino a quando non udì una voce, concitata e rotta dal pianto, chiamarlo dalle scale.
Il giovane urlò il nome di Tina e si precipitò giù fino alla sala da pranzo invernale, quella con il camino.
Abbracciò la sua bella, quasi investendola in velocità, ed entrambi corsero alla porta di ingresso principale, chiudendola a chiave.
Quindi, corsero entrambi, seppur Tina venisse praticamente trascinata, verso la porta della sala da pranzo estiva, e chiusero anche quella.
A quel punto, ambedue, si portarono in cucina, posta a fianco della sala estiva, e chiusero l’ingresso che dava sulla sala da pranzo all’aperto.
“Tina fermati! – urlò Vito – smetti di piangere! Cosa è sucesso?”.
Non lo so! – rispose lei con la voce rotta dal pianto – è iniziato tutto all’improvviso! Hanno cominciato ad ammazzare tutti!!”.
“E i medici- chiese Vito- dove sono?”.
Lei scosse il capo significando che anche loro non potessero fare più nulla ormai: “Quello giovane ha gridato “Io non volevo mettervi quei cosi in testa”. Quello più vecchio ha urlato “Salvatore, tu li puoi fermare”. L’infermiera ha gridato..aiuto!!”.
Tina si mise le mani sul viso.
Vito comprese e chiese: “Hai il cellulare con te?”.
Lei non riuscì a parlare ma fece un cenno di diniego con la testa.
“Gennaro? – chiese Vito- che gli è successo?”
Tina dovette sforzarsi per riuscire a rispondere che non lo sapeva: “Mi sono nascosta…hanno cominciato ad ammazzare la genteeee!!!…le gridaaaaa!!…Perchè!!”.
“Calma- disse Vito- non facciamo rumore…”.
I due giovani si silenziarono fino ad accorgersi che non c’erano più rumori che provenissero dall’esterno.
“Ora verranno qui…” Sospirò Tina con un tono piagnucolante e spezzato.
Vito prese un grosso coltellaccio per il taglio della carne e ne porse uno più piccolo a Tina.
“Dobbiamo cercare un telefono- replicò lei fissando con aria dubbiosa la lama che Vito le aveva messo in mano- dobbiamo chiedere aiuto”.
“Non lo so se c’è un telefono fisso qui- rispose Vito- ogni volta che telefono sul numero che c’è sull’elenco, mi viene trasferita la telefonata sul numero di cellulare del professore. È possibile che non abbiano un telefono fisso”.
“Dove sono le persone della Tenuta? – chiese Tina – mica anche loro…?”.
Vito fece segno con la testa e con gli occhi di non sapere nulla circa il loro destino.
Fu in quel frangente che si udì un tonfo sordo, e pesante, provenire dalla sala da pranzo estiva, dall’altra parte del muro della cucina.
I due giovani si ghiacciarono e si silenziarono all’unisono.
Vito si portò alla finestra che dava sulla sala da pranzo all’aperto, seguito, poco dopo, anche da Tina.
Quando videro ciò che aveva provocato quel rumore, entrambi trasalirono e Vito dovette mettere, immediatamente, una mano sulla bocca di Tina per non farla gridare.
Ce la fece e, almeno per quel momento, non furono entrambi individuati dai residenti.
Ma la scena che i due ragazzi avevano visto aveva, letteralmente, ghiacciato il sangue nelle loro vene.
Il corpo pesante di uno dei pensionati era stato buttato a terra come fosse un sacco della spazzatura, proprio davanti alla porta di ingresso della sala da pranzo estiva.
La stessa sorte che era toccata da una delle lesbiche ed a una delle salsere.
Poi, via via, i medici e tutti gli altri.
Fatto ciò, i residenti, avevano chiuso la porta.
Dopo di che, avevano preso l’olio delle lampade che facevano da cornice “retrò” alle feste serali della Tenuta e l’avevano riversato sui tavoli e sulle sedie che erano stati usati per “seppellire” i corpi.
Ancora una volta, Vito ebbe la sensazione che il corvo “governasse” i residenti senza nemmeno dover parlare, quasi come se li comandasse con una sorta di controllo a distanza.
“Ci vogliono bruciare…” disse Tina con voce isterica, subito bloccata da Vito con una mano.
La bionda, però, aveva ragione.
Il corvo si girò, proprio in quel momento, in direzione della finestra e fece pietrificare i due giovani.
Dedicò loro un sorriso beffardo, mentre i suoi sterminatori appiccarono il fuoco!
Più che una fiammata, fu una vera e propria deflagrazione!
Vito e Tina gridarono e si gettarono a terra, mentre un terrificante odore acre di carne bruciata si spandeva all’interno della Tenuta, insieme ad un fumo nero che oscurava anche la luce del Sole.
Era la carne delle persone che si trovavano in piscina che stava bruciando!
Questa infernale dimensione di follia sanguinaria, che pareva avesse avvolto e sommerso le anime dei due giovani, li atterrì e li prostrò rendendoli inermi dinanzi a tale inumana ferocia.
Tina piangeva e chiedeva aiuto.
Questo fece ridestare Vito che si convinse a dover tentare una sortita.
“Dobbiamo uscire- disse lui- Tina, dobbiamo uscire dalla porta principale!”.
Tina lo fissava ma era come se non lo sentisse, ormai il suo equilibrio mentale era andato.
“Se qualcuno si è salvato- continuò Vito- comunque non farà in tempo a far giungere aiuto, ci sono tre chilometri di bosco prima del paese e se sbagliano strada…Tina dannazione ascoltami!!”.
Vito strattonò la ragazza ridestandola dal suo stato catatonico, mentre il fumo aveva invaso l’intera cucina ed il crepitio delle fiamme aveva avvolto la sala da pranzo estiva.
“Non possiamo più uscire nemmeno dalla porta principale- gridò Vito- dobbiamo usare la finestra dietro di te! Tina dobbiamo fare presto, prima che esplodano le condutture del gas!!”.
Vito sollevò Tina di peso e la trascinò verso la finestra che dava su di un piccolo cortile laterale.
Quindi, il giovane guardò fuori e non vide nessuno, anche se Tina non voleva saperne di uscire, sapendo che i residenti erano là fuori.
La sala dietro di loro, però, stava prendendo fuoco e presto ci sarebbe stata una esplosione terrificante.
Vito si mise il coltellaccio tra i denti e scavalcò la finestra che aveva spalancato, nonostante le rimostranze di Tina, quindi afferrò la ragazza e la trascinò fuori.
In piedi, nel piccolo cortile sotto un colonnato, i due giovani si guardarono intorno.
Tina non aveva più il suo coltello, ma Vito era pronto alla lotta con la sua arma.
La porta laterale, che dava sul cortile, era chiusa e sembrava che nessuno stesse per arrivare, perciò il giovane si diresse verso il giardino, tirando la sua amica con la mano sinistra.
Vito puntò, allora, sul vialone di ciottoli che portava al cancello principale.
Fino a che Tina non diede un urlo spaventoso!
Comparso, praticamente, dal nulla, il corvo aveva afferrato la ragazza e la stava tirando verso di sé.
Vito caricò il braccio destro per sferrare un fendente con il suo coltellaccio, ma venne affrontato dal rosso con i tatuaggi che, con un falcetto in mano, cercò di tranciarlo.
Il giovane dovette mollare la presa sulla sua amica, la quale venne portata via dal corvo.
Il ragazzo, allora, gridò il nome della sua amata, in risposta alla invocazione di aiuto di lei.
Ma l’assalto del rosso coi tatuaggi fu veemente e furioso.
Ancora una volta, Vito, seppur impegnato nella colluttazione, ebbe l’impressione che il corvo comandasse i residenti senza nemmeno dover parlare!
Entrambi i contendenti, nel frattempo, si procurarono delle ferite e finirono per carambolare a terra.
Il rosso perse il suo falcetto e, nel tentativo di recuperarlo, si allungò strisciando sui ciottoli.
Così facendo, però, quest’ultimo, diede le spalle al suo avversario, il quale inferse un taglio al suo polpaccio sinistro.
Il rosso urlò come vitello che stava per essere sgozzato e prese a correre via zoppicando.
Vito si rialzò sanguinante, con la lama intrisa del sangue del suo nemico.
Era arrivati tutti!
Tranne la bambina folle.
Il barbuto, il turco, il torvo, il pelato e quello con gli occhiali che, però, adesso, non parlava.
Vito rimase immobile e senza più alcuna speranza.
Il corvo aveva lasciato Tina, la quale era ruzzolata all’indietro finendo per sedersi radente alla parete della struttura.
Anche lei non era più in grado di muovere un solo muscolo.
Le fiamme avvolsero il lato posteriore della struttura, il fumo nero si alzò alto nel cielo.
Presto, gli occupanti delle abitazioni limitrofe avrebbero visto il fumo innalzarsi dalla struttura e sarebbero accorsi.
Ma Vito e Tina non avevano più tanto tempo.
Il turco porse una grossa falce al corvo e tornò subito in formazione con gli altri residenti.
Come un presagio di morte, allora, il corvo con una grossa falce in mano si mosse in direzione di Vito.
Fortunatamente non diresse alcuna attenzione a Tina, seduta con le spalle contro la parete; mostrando, così, che il suo obiettivo era lei.
Il giovane raccolse il falcetto del rosso e si rialzò con ambedue le armi in mano.
Il corvo vestito di nero non era molto grosso, ma la falce che aveva in mano, invece, si.
Vito arretrò con brevi passi all’indietro, stando attento a non finire con le spalle contro il cancello.
Entrò nel giardinetto piccolo, circondato da cespugli curati e costellato da dondoli, gazebo e divanetti coperti, dove egli poteva cercare di rendere più lenta e farraginosa la manovra del suo nemico.
Le colonnine di tali strutture semoventi, divennero difesa naturale contro il primo terrificante affondo del corvo, il quale caricò con una furia inaudita, seppur senza emettere alcun fiato o gemito.
Il corvo manteneva imperturbabile l’espressione del suo volto scuro e non mostrava alcun tentennamento.
Affrontare una falce, però, era praticamente impossibile, quando il residente caricava il colpo, così come era inutile ogni tentativo di reazione o di parata del fendente; bisognava solo scappare.
Le colonnine dei gazebo cominciarono a cadere, una ad una, sotto i colpi della falce del corvo.
Vito, però, si trovò con le spalle contro il denso e compatto cespuglio di rose e di rovi che delimitava il giardinetto.
Superare quella barriera, restando indenni, era impossibile.
Il corvo parve pregustare il compimento finale del suo disegno di sterminio.
Assestò il colpo, con una bramosia famelica di vedere scorrere il sangue di Vito.
Il giovane, però, gli tirò contro il coltellaccio che aveva nella mano sinistra e, quantunque, il corvo riuscì ad eludere, con un movimento del capo, il tiro del suo avversario; ne venne, comunque, parzialmente intaccato.
Vito guadagnò, nuovamente, il campo aperto, mentre il corvo emise un rauco urlo di dolore mantenendosi la parte sinistra del collo, laddove si era aperta una ferita.
Lo stesso grido, di eguale inflessione e tonalità, venne emesso, all’unisono, anche dagli altri residenti…
Vito, però, adesso aveva solo il suo falcetto in mano.
Il corvo era, intanto, divenuto furente e mostrava il volto sfigurato da un ghigno di collera e di rabbia.
Egli non eseguiva più dei movimenti coordinati e mirati ma caricava il suo nemico in preda ad una furia incontenibile.
Così facendo, però, anche la sua micidiale ed inattaccabile arma diveniva difficilmente manovrabile.
Ciò nonostante, Vito venne quasi falcidiato da un colpo mortale del corvo, riuscendo ad evitare il fendente solo compiendo una giravolta attorno alla colonnina dove si era appoggiato a bordo piscina.
La lama, però, gli aprì uno squarcio poco più sotto delle spalle ed il giovane, gridando di dolore, cadde a terra.
Vito cercò di rialzarsi utilizzando un lettino, mentre avvertì lo spostamento d’aria provocato dal corvo che aveva portato la falce dietro di sé per caricare e sferrare il colpo finale.
Il giovane si girò, di scatto, mentre era, praticamente, a pancia sotto sul lettino e scagliò con tutta la sua forza il falcetto contro il suo nemico.
Spostando, con veemenza il lettino, allora, Vito, cercò di trovare scampo strisciando tra i mattoni di cotto ed il susseguente prato.
Ormai sapeva di essere spacciato.
La falciata finale, però, non arrivò.
Vito si girò, mentre usava mani e piedi per rialzarsi e vide la scena.
Il residente aveva ancora la falce innalzata sopra la sua spalla sinistra, mentre con gli occhi sgranati fissava il falcetto di Vito che gli si era conficcato in bocca!
Il corvo emise un rantolo soffocato prima di stramazzare al suolo.
La sua falce, cadendo e rimbalzando, ribaltò un lettino.
Vito si allontanò di scatto, mentre fissava la sagoma nera del suo aguzzino, tremare a terra con dei movimenti riflessi ed incondizionati; poco prima di bloccarsi del tutto.
Il giovane si toccò la schiena sanguinante e si girò verso i residenti, ancora messi in formazione sul viale.
Ormai lui era ferito in più punti, dopo i due scontri, e non aveva più forza per lottare.
Egli sentiva che la fine era vicina.
I residenti, intanto, fissavano con degli sguardi vitrei il corpo del corvo.
Si mossero, quindi, tutti insieme.
Vito cercò di trovare scampo correndo verso il trattore della mostra della civiltà contadina che era nel prato; però gli assassini non erano diretti verso di lui…
Come una silente processione di morte, allora, i residenti presero la salma nera del corvo e, tutti insieme si diressero verso il retro della struttura avvolto dalle fiamme.
Non comprendendo nulla di quanto stesse succedendo, Vito risolse però di correre in direzione di Tina.
La ragazza aveva perso i sensi, forse da prima dello scontro del suo amico con il corvo.
Vito la alzò di peso e la trascinò verso il parcheggio, oltre il giardino.
Quando giunsero le auto di Antonio, Anna Clelia, Gino, Lella, Vitaliano, Maria Teresa e gli altri amici di Tina, videro Vito insanguinato che trascinava di peso la loro amica, mentre la Tenuta Serreto bruciava…

La fighettina sopravvisse e venne trovata a vagare nei boschi, nuda ed in stato di shock, trascinata da una delle lesbiche che l’aveva salvata.
Quest’ultima, infatti, nascostasi durante il massacro, aveva preso una grossa pietra ed aveva tramortito la bambina folle mentre costei stava soffocando la fighettina, dopo averla denudata.
Anche un pensionato si salvò, così come la bambinona gigante che, dopo aver subito la violenza carnale dall’occhialuto che parlava sempre, sin era finta svenuta ed aveva scavalcato, poi, il cancello non appena ne aveva avuto l’occasione.
Così come vennero ritrovate che si aggiravano spaesate e sperdute tra i boschi anche le due salsere sopravvissute.
Il nano malefico tatuato Gennaro Doria, venne trovato abbarbicato sulla sommità di una quercia, laddove si era nascosto tra i rami.
Dei residenti sopravvisse solo la bambina folle, la quale venne rinchiusa in una struttura di detenzione meno progressista e permissiva.
Da quel giorno, però, ella non emise mai più parola.

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo” La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

È successo.
Adesso.
7 miliardi, 412 milioni, 868 mila, 332 anni secondo il calendario del Nazareno.
Il giorno 9 dell’undicesimo mese, seguendo sempre la linea temporale che si fa risalire alla nascita del Cristo di Nazareth.
12 miliardi di anni dopo, invece, se si considera la nascita della nostra meravigliosa stella.
E’ accaduto proprio nel momento previsto dalla “Tecnomente” della mia nave.
D’altronde essa è parte del mio cervello, ha i miei stessi ricordi ed è collegata a me.
Una piccola parte del mio tessuto cerebrale, integrata nell’apparato bioconnettivo della nave e strutturata recependo e riproducendo le frequenze elettriche che costituiscono la mia memoria.
Ora sembra che anche la mia nave sia prostrata dalla malinconia che attanaglia la mia stessa anima.
Cammino fino all’ultimo punto di osservazione, in coda al mio vascello.
La luce dell’ultimo Evento non ci ha ancora raggiunti.
Io lo vedo ancora lì, piccolo puntino lontano in mezzo a milioni di altre luci stellari, ma il magnetoscopio della nave ha già rilevato l’avvento della Singolarità: il Sole è esploso!
Avevano detto che non sarebbe accaduto, che la condizione di Gigante Rossa della nostra stella sarebbe degradata fino ad una Nana Bianca e poi, forse, ad una Nana Rossa.
Eppure io ho sempre saputo che questo non era vero.
Per questo motivo decisi di partire tanto tempo fa, anche se non ricordo più quando questo sia avvenuto.
Non sono diretto ad Alfa Centauri, ove si dice ci sia un mondo che, in passato, fu colonizzato da noi umani.
Le voci dicono di un tempo remoto, però, nel quale l’umanità aveva preso una strada sbagliata e riteneva di dover imporre il suo infausto cammino anche alle sue più remote colonie.
Allora l’uomo si era fuso con la natura e con le sue specie animali, fino quasi a rinnegare la sua stessa identità.
Questo, però, ci aveva resi ancora più arroganti ed aggressivi e ci aveva fatto muovere guerra a quel mondo lontano.
Fino a quando l’umanità di quella nuova Terra aveva, infine, ridestato anche la nostra appartenenza atavica, ed una rinata razza umana non aveva, allora, deciso di lasciare in pace la progenie di quel luogo remoto.
Per tale ragione, sin da quel tempo lontano, Alfa Centauri è spazio precluso ad ogni intrusione della nostra stirpe.
L’età di quel sistema Tristellare, poi, è contigua a quella della nostra stella e le simulazioni circa l’arrivo dell’onda di Super Nova, tra circa quattro anni, in quello spazio, non sono chiare.
Perciò devo cercare altrove.
Si, ma cosa? Forse una casa? Un mondo dove poter vivere? Con chi?
Abbiamo trovato, tanto tempo fa, un altro mondo abitabile nel sistema solare di Gleese, ma la mia vita non basterà a compiere un viaggio tanto lungo.
Tutti gli altri astri sono ancora più lontani e raggiungere gli altri mondi terraformi finora trovati nelle loro orbite, mi è precluso dalle immani distanze.
Sono condannato.
La cosa più giusta sarebbe stato restare sul mio mondo ed attendere la fine della mia razza.
Perché laddove la nostra razza è nata ed è vissuta, lì sarebbe dovuta sparire.
Io, invece, mi sono ribellato al Destino ed ora ne pagherò le conseguenze.
Io, da solo.
Perché non c’è nessuno là fuori.
Noi non abbiamo trovato nessuno negli spazi infiniti.
Seppur di mondi abitabili ne sono stati trovati tanti, infatti, di razze intelligenti non ne sono mai state scoperte.
Solo strani segnali provenienti da luoghi e tempi remoti e dimenticati.
Forse scaturiti da fenomeni naturali sconosciuti o, forse, da disperati ultimi vagiti di civiltà che stavano scomparendo.
Ci fu solo un episodio, in un passato lontano, sulla Terra che diede i natali alla nostra stirpe.
Accadde, in un luogo chiamato Braxton, in una regione chiamata New Mexico, in quella che era la più importante delle antiche nazioni nelle quali era divisa la umanità primordiale: gli Stati Uniti d’America.
Si narra di due oggetti volanti sconosciuti, di una città distrutta e di un oggetto che lasciò la Terra.
Però nessuno è mai riuscito a stabilire cosa sia realmente accaduto.
Se quell’incidente sia stato causato da un fenomeno naturale, da un esperimento militare o da esseri di altri mondi.
Le distanze in questo Universo sono un limite invalicabile, anche per la Luce e per il Tempo; io continuo a vedere la luce del nostro Sole, eppure esso non esiste più, è esploso nella sua infinita gloria di Super Nova.
Questo perché anche lo stesso Tempo, seppur di un evento tanto immane, fa fatica a colmare le distese eterne della incommensurabile trama dello Spazio-Tempo.
L’appartenere a luoghi diversi significa, di fatto, appartenere a dimensioni temporali infinitamente distanti tra loro.
Perciò la possibilità che due razze intelligenti si possano incontrare è una illusione anche in termini percentuali.
Perché l’Universo è questo, è solo questo: solitudine.
Immane, immutabile ed immensa solitudine.
La stessa solitudine che ora ha avvolto la mia esistenza.
O ciò che ne rimane.
Per una insana e vacua vanità, poi, ho raccolto tutto ciò che noi siamo stati, fino alla nostra estinzione, nella sconfinata memoria della Tecnomente del mio vascello.
Ultimo atto di supponente superbia dell’ultimo membro di una razza che si è si ritenuta padrone di tutto, e che ora è divenuta polvere cosmica.
Davvero, solo, uno spreco di risorse della memoria della mia nave.
A cosa è servito portare con sé tutta la storia della mia razza? Le sue opere, le sue invenzioni, la sua arte e la sua filosofia.?
Chi mai ascolterà quei suoni? Chi ammirerà quelle immagini? Chi mai potrà leggere quelle parole?
Ora, davvero, mi rendo conto che la Natura ha una sua logica.
Noi siamo nati ed abbiamo vissuto nello Spazio che ci ha ospitati, riscaldati dal Sole che ci ha illuminati.
Consumando ciò che era utile ed adatto a noi.
Ora quel luogo non esiste più. E con esso doveva sparire ogni traccia del tempo che è stato.
Un giorno lontano, quella stessa forza che ora ha distrutto ogni cosa, ritornerà ad essere materia e sostanza.
Una nuova stella si accenderà e nuovi mondi nasceranno.
In essi forse sorgerà una nuova razza che percorrerà il suo cammino e scriverà la sua storia.
Così è. Così è sempre stato. Forse così sempre sarà.
Io, però, mi sono ribellato a questa legge universale.
Solo io non ho accettato la stessa sorte del mio mondo e della mia razza.
Ed ora sono qui, davanti alla camera di conservazione dove è rinchiusa lei.
..Zana…
L’altra metà della mia anima. La mia compagna.
Non ricordo quando sia morta. Ormai è passato troppo tempo.
Nessuno poteva saperlo, nemmeno uno scienziato come me.
Ma il viaggio così lungo le ha, praticamente, consumato i globuli rossi fino a farla spegnere.
Ho inutilmente provato a trasferire la sua coscienza nella Tecnomente della nave.
Se ci fossi riuscito, mi sarei addormentato anche io ed, entrambi, avremmo vissuto nella dimensione che il vascello avrebbe creato per noi.
Magari in quella che fu la nostra meravigliosa Ganimede, dove siamo nati e dove abbiamo vissuto, sotto la gargantuelica magnificenza di Giove nel cielo.
Fino al giorno della infausta decisione di intraprendere questo viaggio.
Pensavo che il tentativo fosse andato a buon fine, però la coscienza di Zana non ha dato segnali di sussistenza nella Tecnomente.
E da allora sono solo.
Zana è chiusa in questa stasi biologica, affinchè un giorno io possa trovare il modo di riportarla in vita.
Ci riuscirò, devo riuscirci, perché altrimenti, in caso contrario, anche porre termine alla propria esistenza è una condizione migliore della eterna solitudine.
Intanto, ho dovuto evitare di fare la sua stessa fine e, per questo motivo, ho dovuto modificare radicalmente la struttura del mio DNA.
Adesso, però, non riesco nemmeno a guardare la mia immagine riflessa attraverso il vetro della camera di conservazione di Zana.
Vedere ciò che sono diventato mi riesce difficile.
Delle volte, nei lunghi interminabili periodi vissuti in silenzio, mi rivolgo, con la mente, a riflettere sulla possibile esistenza di un Creatore.
Egli dovrebbe correre in aiuto di una sua creatura perduta nel buio infinito.
Egli dovrebbe mostrare la strada al suo figlio che si è smarrito.
Però finora non ho percepito alcunchè.
Delle volte penso che, forse, Egli lo stia già facendo.
Ed allora mi perdo a riflettere sul modo nel quale si esprimerebbe un’entità che ha creato il Tutto e che forse è la sostanza di ogni cosa che esiste.
Forse sono anche io parte di esso?
Ed allora è inutile cercare un segno esteriore della presenza del Determinatore.
Egli, forse, si esprime attraverso la sua stessa essenza, della quale io faccio parte.
La sua voce, allora, sovviene dal dentro della mia stessa coscienza.
Può mai un Creatore, però, dirmi di fare quello che sento di dover fare in questo momento?
È possibile tutto questo?
Davvero egli mi sta chiedendo di accettare lo stesso Fato di Zana e di tutti gli altri esseri umani?
Può mai egli chiedere ad una vita, da esso stesso creata, di spegnersi?
Non so se sia questo quello che il Creatore mi sta spingendo a fare.
In me ci sono delle spinte contrastanti e divergenti, da una parte della mia essenza c’è qualcosa che mi dice di fermarmi, qui, adesso e per sempre.
Dall’altra, c’è una voce lontana e remota che mi dice di proseguire, di continuare a viaggiare e di continuare a sperare.
Quale di queste è la voce del Determinatore?
Talvolta chiudo gli occhi e percepisco che la voce che sento più lontana e flebile, non è la mia.
È quella di Zana.
Ed allora, io la vedo ancora sorridere felice e piena di vita, mentre dona significato e ragione ad ogni mio respiro.
Forse è questo il modo che ha Creatore di parlare ai suoi figli?
Ricordare a noi che è solo nella gioia di chi amiamo che risiede la nostra stessa felicità?
Non sono più sicuro di nulla.
Ma forse ciò è normale per l’ultimo esemplare di una specie ormai estinta.
Ed allora mio Creatore, essendo io l’ultimo della mia razza, lascerò a Te l’ultima mossa.
Decidi Tu cosa deve essere. Io mi fermo qui.
Credo di chiamarmi Hor.
Forse nacqui 304 anni fa su Ganimede, Luna di Giove.
Forse 160 anni fa partii insieme a mia moglie Zana per sfuggire alla imminente esplosione della nostra stella.
Forse 70 anni fa, mia moglie Zana si spense.
Da allora sono solo.
Ora io mi addormenterò insieme a lei, chiederò alla Tecnomente del mio vascello di interrompere il viaggio e di fermarsi alla deriva nel Cosmo.
Allorquando l’onda di Super Nova ci raggiungerà, forse ci distruggerà.
O comunque danneggerà in maniera irreversibile la coscienza della nave ed i suoi parametri vitali.
Sarai Tu, dunque, a decidere, infine, ciò che sarà, Determinatore.
Ascolta, soltanto, l’ultima parola dell’ultimo degli uomini e tienila per sempre con Te, negli Universi che verranno.
Essa è…Zana…
Noi due, piccoli ed insignificanti esseri umani persi nell’Infinito, abbiamo fatto ciò che abbiamo potuto…fino alla fine.

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo” La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.