Qualcuno temette e percepì che un’altra tragedia stesse per capitare.
Soprattutto chi riconobbe il timbro della voce di chi chiedeva aiuto, in preda ad una disperazione senza eguali.
Tutti si precipitarono all’ingresso della villa che dava sul grande cancello.
Chi vide quella scena non la dimenticò mai più.
Antonio Dattore era legato al cancello, con le mani in alto.
Dietro di lui dei giovani, ragazzi e ragazze, abbigliati e dipinti, come aveva narrato Rino Morselli, sulla stregua dei peggiori cannibali della più cupa savana del Continente Nero.
Insieme ad essi, una figura femminile che pareva appartenere ad una donna matura.
Tutti erano armati, di arco o di una lunga lancia appuntita; alcuni avevano in mano delle torce infuocate accese.
Una ragazza con il corpo dipinto di nero, tranne che per il volto e la parte frontale, dipinti di bianco, su di uno sfondo scuro; teneva, invece, una lancia puntata alle spalle di Antonio.
Il ragazzo era ferito, piangeva e chiedeva aiuto.
Era qualcosa di inaccettabile.
Nessuno ha diritto ridurre un altro essere umano in tali condizioni.
La ferocia con la quale la tribù stava torturando il proprio prigioniero, poteva essere concepita e compiuta solo da parte di una comunità che non avesse, mai, acquisito alcun barlume o rudimento di civiltà e carità umane.
La furia si impadronì degli invitati.
Alcuni dalla villa volevano uscire, erano presi da una rabbia furente.
Non appena, venne messo in pratica tale intendimento, ed alcuni degli invitati furono all’esterno, però, furono, subito, bersagliati da frecce e dovettero riparare, di nuovo, dentro; chiudendo le porte di pvc e nascondendosi dietro le finestre con le protezioni metalliche.
L’esecuzione doveva avvenire senza intoppi.
Le urla e le minacce degli invitati, colmi di riabbia, furono zittite dalla ragazza che teneva la lancia contro Antonio, la quale iniziò a ripetere, diverse volte, ad alta voce:
“L’humanitè est africane!
L’Homme blanc est criminel!
L’Homme blanc tue la planate!”.
Detto questo, la ragazza infilzò con la lancia la schiena di Antonio Dettore il quale urlò disperato.
Gli invitati trasalirono, la rabbia se li prese tutti, non seppero cosa fare, decisero di uscire e di lanciarsi contro gli indigeni.
Nessuno di loro accettava di assistere, inerme, ad un tale abominevole sacrificio umano.
Pino Nassa era amico di Antonio Dettore, nonché compagno di mille e mille bevute, e non seppe trattenere l’impeto d’ira.
Il ragazzo impugnò un’asta di metallo, della quale, nel frattempo, si era armato; e si lanciò ad impedire la barbara uccisione.
Gli altri gli dissero di fermarsi, ma il chitarrista, ormai, non ascoltava più nessuno, era, soltanto, corroso dalla furia.
Pino Nassa venne, però, immediatamente, centrato da una freccia alla gamba destra, quando ancora non aveva superato il cortile in sampietrini, e cadde a terra rotolando.
Il chitarrista urlò di un dolore atroce.
Rimase a terra, mentre degli arcieri nascosti cercarono di centrarlo.
In preda ad uno spasmo di dolore, allora, e richiamando ogni barlume della propria forza della disperazione, Pino Nassa si rimise in piedi e zoppicando, cercò di guadagnare di nuovo l’interno della villa; sorvolato, però, da ben tre dardi che, fortunatamente per lui, non andarono a segno.
Pietro Rummo marito di Mariarita, e Domenico Nelli, fidanzato di Valeria, aiutarono Pino Nassa a rientrare al coperto.
Non c’era nulla più da fare per salvare Antonio Dattore.
Jonathan e Rino risolsero di aggirare gli arcieri, uscendo dal retro per, poi, aggredire la “tribù” alle spalle.
Era una soluzione folle e pericolosa, oltre che, quasi certamente, votata al fallimento; però i due decisero di provarci lo stesso.
Non ci fu tempo.
La ragazza indigena, infatti, caricò un altro colpo, ripetè la stessa cantilena e si preparò ad affondare.
Uno sparo all’improvviso!
Un tubolare metallico del cancello, all’altezza del viso della giovane, scintillò.
La struttura del cancello aveva salvato la folle.
Qualcuno aveva cercato di fermarla, ma il proiettile era rimbalzato.
L’indigena non se lo aspettava, rimase quasi inebetita, e si girò verso la donna più grande; la quale dovette farle uno sguardo di assenso.
La donna più matura, allora, e gli altri indigeni, subito dopo, si dileguarono prontamente; probabilmente non si aspettavano che, dall’interno, qualcuno avesse un’arma di fuoco.
Loro, infatti, avevano inseguito Antonio, quindi non sapevano della fine del loro sodale e del ferimento dell’altro.
La ragazza, però, rimase lì.
Ella sembrò, in quel momento, dover compiere, meccanicamente, la sua missione.
L’indigena si girò con una espressione vuota e continuò la sua opera.
Conficcò la sua lancia nella gola di Antonio Dattore, nello stesso istante in cui un proiettile la centrò in mezzo agli occhi.
Entrambi morirono in quello stesso momento!
Tutti, nella villa, rimasero immobili, senza più fiato, avvinti da un orrore senza fine e non comprendendo, appieno, perché sembrassero essere tutti piombati nel peggiore dei gironi infernali.
Osvaldo Guglielmi si impose la calma e compì le medesime operazioni di medicazione, che aveva prima condotte su Daria, anche su Pino Nassa.
Tanti, ormai, erano in preda a crisi isteriche ed a cedimenti emotivi.
Riuscire a mantenere l’ordine ed a riflettere con lucidità, in quel momento, era quasi impossibile.
C’erano tre morti e due feriti tra gli invitati e due morti e, probabilmente, un ferito tra quelli della “Tribù”.
Cinque cadaveri erano fuori in giardino.
Tre dei quali, erano stati parte importante della vita di tutti gli invitati alla festa a sorpresa.
Darni era un piccolo centro di ottomila anime.
Silvio Tremendi ed Antonio Dattore erano stati parte integrante della fanciullezza, dell’adolescenza e della giovinezza di tutti.
Quando se ne va qualcuno che hai visto o frequentato, spesso, nel corso della tua vita, è come se andasse via una parte di te.
Ed era questa la sensazione che gli amici di Silvio ed Antonio provavano.
Una incredulità ed una non accettazione di una realtà che pareva impossibile fosse, ora, presente e contingente.
Chi mai lo avrebbe detto alle famiglie?
Michele Corto, invece, faceva parte di un’altra generazione, di altre comitive di persone, ed era lì, tra di loro, solo in quanto fidanzato con Anita che, invece, aveva la stessa età, pressappoco, di tutti gli invitati.
Però, comunque, anche Michele Corto era sempre stato parte del “paesaggio” di Darni, come Silvio ed Antonio.
Ed ora saperli morti, là fuori, era straziante ed alienante per chiunque.
Anche per l’assurdità di tutta la vicenda, anche per il modo inenarrabile ed ingiustificabile nel quale erano deceduti tutti; anche per l’evidenza insopportabile di vivere qualcosa che pareva non avesse senso, era per tutto ciò, che tutti erano, realmente, prostrati dal dolore e dallo sconforto.
Tutti si chiedevano perché?
Chi erano costoro?
Chi erano questi pazzi dipinti e vestiti da indigeni?
Perché stavano compiendo questo massacro?
Ed ancora, poi, chi era quello che sparava dal piano superiore?
Da che parte stava costui?
E, infine, si poteva sfuggire da quest’inferno?
Come si poteva evitare di fare tutti la fine dei tre amici caduti?
Come si poteva portare in salvo i due feriti?
“Cosa hanno detto questa volta, Elvira?” chiese Jonathan.
La ragazza dopo essersi asciugata le lacrime, prese a ricordare ed a tradurre: “Hanno detto: l’umanità è africana.
L’uomo bianco è criminale.
L’uomo bianco uccide il pianeta”.
Nessuno comprese il senso di queste frasi.
Questa incertezza circa le motivazioni dell’insensato attacco e della carneficina in atto, resero ancor più destabilizzante l’intera situazione.
Si udirono, però, proprio in quel frangente, dei colpi da dentro una parete.
Si cercò di imporre il silenzio.
Di nuovo.
“Sono io, state calmi, sono io…”.
Una voce provenne dalla parete.
Rino riconobbe quella inflessione calabrese nel modo di parlare.
La parete, posta sulla destra rispetto all’ingresso dei bagni, e che, probabilmente, anticamente doveva essere una scala interna, successivamente murata; si aprì, come fosse comparsa una porta dal nulla.
Ne uscì una figura, snella, di quasi due metri.
Il volto era smunto, lungo e rabbioso.
Aveva i capelli rivolti all’indietro con la gelatina, una camicia stropicciata con le maniche arrotolate ed un pantalone estivo bianco.
Tutti gli guardarono la Beretta che aveva in mano e l’altra che aveva nella cinghia del pantalone.
Era lui quello che aveva sparato ed ammazzato due indigeni, salvando Rino, fuori in giardino, e cercando di impedire, poi, poco prima, la barbara e cruenta esecuzione di Antonio Dattore.
Tutti rimasero ammutoliti, nessuno ebbe il coraggio di domandare qualcosa.
Fu, infatti, lui, con un italiano stentato dalla chiara inflessione calabrese, ad esordire dicendo: “Ho provato a fermarla quella scrofa, ma ho preso quel cazzo di cancello!
Mi dispiace, veramente, lo volevo salvare il vostro amico”.
Tutti abbassarono lo sguardo e molte ragazze piansero.
“Chi sono quei pazzi pittati come i cannibali? – chiese ancora l’uomo del piano di sopra – perché ce l’hanno con voi?”.
“Tu abiti di sopra?” chiese Jonathan riuscendo ad uscire dall’empasse di non avere nessuna risposta a quanto stesse accadendo.
“Si…di sopra” rispose l’uomo, sembrando, però, volesse evadere la domanda e tornare alla questione di prima.
“Perché non prendete le macchine e ve la filate?” chiese ancora l’inquilino.
“Hanno bucato le ruote” rispose Jonathan.
“Caspita! – disse il tizio armato – questi vi vogliono, proprio, fare la pelle”.
“Ci…vogliono fare la pelle – disse Fernando – non penso che vogliano darti un premio per aver atterrato due dei loro”.
La corretta osservazione di Fernando fece riflettere i presenti e li rese tutti sodali del medesimo destino e della stessa sorte.
“Hai qualche modo di contattare i carabinieri ed il 118?” chiese Piero Monte.
“No!” rispose l’uomo sembrando nuovamente irritato.
“Comunque ce ne dobbiamo andare di qua, dobbiamo avvisare la gente in paese e dobbiamo farlo in fretta perché ci sono dei feriti” disse Rino.
“Andiamo via a piedi – disse Rosangela – lui ha le pistole, possiamo arrivare a piedi sulla strada nazionale e, poi, in paese”.
“No – disse l’uomo – E’ un bosco, si metteranno dietro gli alberi e ci faranno secchi a frecciate, se la caveranno soltanto in pochi”.
“Se non possiamo comunicare con l’esterno – disse Piero Monte – dobbiamo aspettare che faccia giorno e che ci vengano a cercare”.
Anche stavolta l’uomo armato parve rabbuiarsi; sembrava, infatti, sentirsi, quasi, intrappolato ogni qualvolta qualcuno asserisse che sarebbero sopraggiunti aiuti dall’esterno.
“Non mi piace questa storia – disse Fernando a Jonathan e Rino – mi sembra strano che questo viva qui, recluso al piano di sopra, con due Beretta e chissà cos’altro”.
“Me ne fotte uno stracazzo! – rispose Rino – mi ha salvato la pelle là fuori, ed ha cercato di fare lo stesso con Antonio Dattore; per me è ok”.
“Ha ragione – disse Jontahan – se questo ci voleva fare del male, eravamo già tutti morti adesso”.
“Lo so – disse Fernando – però ha un viso conosciuto, l’ho visto, già, da qualche parte”.
Intanto la discussione continuava.
“Ora che sanno che c’è uno armato, forse ci lasceranno stare – intervenne Mariarita – così domani ci verranno a salvare”.
“Gli altri sono scappati, ma quella troia è rimasta ferma lì a finire il suo lavoro, non ha avuto paura di morire – disse il tizio armato con gli occhi sgranati, mostrando quasi un sadico piacere nell’averle sparato – quelli lo sanno che domani arriverà gente.
Vogliono finire il lavoro con noi, questa stessa notte!”.
“Cosa possiamo fare?” chiese Piero Monte, interpretando il sentimento di tutti, nell’aver, immediatamente, intitolato a capo e condottiero l’inquilino armato.
“Intanto spegnete ste cazzo di luci – sbottò il tizio – siamo un bersaglio troppo facile così, sembra Natale; tanto le luci di fuori illuminano pure qua dentro.
Poi controllate che le protezioni metalliche delle finestre sono chiuse e che le loro chiavi sono tutte a posto.
Chiudiamo bene la porta principale, le altre che danno sul giardino e quella di sicurezza.
E cercate di armarvi con qualcosa, come hanno fatto loro tre con i coltelli…questi tra poco tornano!
Che fregatura questa storia!”.
L’ultima frase fu detta dall’inquilino quasi sottovoce, però Fernando la udì e, forse, ne comprese appieno il senso.

L’idea che presto la tribù sarebbe tornata, era come una spada di Damocle sulle anime di tutti.
Le disposizioni dell’inquilino, armato, del piano di sopra vennero eseguite alla lettera.
Gli invitati si armarono ed eressero difese.
Seppur Fernando disse di non barricare troppo le porte, in quanto, con le grate metalliche alle finestre da dover aprire con le chiavi, le porte erano le uniche vie di uscita, più facili da utilizzare, nel caso gli indigeni fossero riusciti ad entrare.
La penombra aveva avvolto le sale della villa.
Una luce fioca penetrava dall’esterno del giardino.
Tutti erano al riparo dal tiro degli archi nemici.
I minuti passarono lunghi come ore.
Era l’una del mattino ed il buio sarebbe stato padrone per tanto tempo ancora.
Dalla serra non si scorgevano movimenti, però la sensazione generale di tutti, era che la tribù fosse nascosta lì.
Avendo provveduto a spegnere lo sfavillio di luminarie che circondava la lussuosa villa, l’inquilino armato del piano di sopra, chiese ai proprietari di alcune auto di tentare una sortita all’esterno.
Svuotate, allora, delle bottiglie di prosecco, si procedette alla estrazione di benzina verde e di gasolio dai serbatoi delle auto.
Solo e soprattutto di quelle più datate, però, che non avessero retini o condotti di protezione atti proprio ad evitare il travaso di carburante.
L’intuizione dell’inquilino era corretta, con il favore delle tenebre scese sul parcheggio e con la tribù che si trovava lontana tra le serre; gli imbottigliatori potettero operare indisturbati e non individuati.
Vennero, così, prodotte, con degli stracci imbevuti ed attorcigliati, 12 bottiglie incendiarie; delle vere e proprie molotov, le quali, secondo le intenzioni dell’uomo armato, sarebbero servite da deterrente per il prossimo attacco, che costui riteneva imminente.
Tutti, ormai, guardavano fuori dalle finestre, acquattati e nascosti.
Si fissava il vuoto buio del giardino nel tentativo di scorgere il più minimo e furtivo movimento dei portatori di morte.
“Ecco chi è – proruppe Fernando, stando, però attento a non farsi udire da altri, oltre che da Rino e Jonathan – me lo sono ricordato, quella faccia lunga e quegli occhi da pazzo.
È Mirko Gallucci, è un latitante della ndrangheta, è uno dei 30 ricercati più pericolosi d’Italia!”.
“Smettila di fare il poliziotto – disse Rino, anche lui parlando piano per non farsi sentire – ci sono i nostri amici morti la fuori!
Non è detto che vedremo l’alba di domattina!
Allora, per quanto mi riguarda, non me ne fregherebbe nemmeno se fosse il bandito Giuliano, se ci può dare una mano a tornare a casa!”.
“Ha ragione – intervenne Jonathan – adesso l’unica cosa che conta è uscire vivi di qua”.
Detto questo, il ragazzo si girò a guardare Valeria, che era seduta con le spalle al muro, sotto la finestra, e teneva le gambe tra le braccia, con la testa appoggiata sulle ginocchia.
Incurante la ragazza, ovviamente, data la situazione e lo stato d’animo, che tale posa lasciasse nuda, praticamente, tutta la gamba nel punto in cui il vestito aveva lo spacco.
Jonathan non riusciva a non osservarla ed a non morire per lei.
Lui si sentiva, quasi, in imbarazzo, perché nemmeno in quel momento, tanto assurdamente e profondamente tragico, riuscisse a staccare gli occhi da lei, e stesse, lì, a pensare che Valeria sapeva essere sensuale e magnifica anche nello sconforto di una situazione incredibile e pericolosa.
D’improvviso, però, al latitante, sicario della ndrangheta, Mirko Gallucci si illuminarono gli occhi: “Eccoli, arrivano…”.
Un indigeno corse zigzagando verso la villa.
Si fermò in prossimità di alcune giostre ed urlò: “L’homme blanc il a tuè peuples anciens!.
Peuples anciens vècu en paix avec la nature!
L’homme blanc payer!
Ce soyor!!”.
Il giovane ripeteva ritmicamente la sua folle cantilena.
Elvira venne osservata da tutti, e, mentre era in ginocchio, con la sola fronte a superare il davanzale della sua finestra, procedette con la traduzione: “L’uomo bianco ha ucciso i popoli antichi.
I popoli antichi vivevano in pace con la natura.
L’uomo bianco pagherà.
Stanotte!”.
“Che significa – chiese Domenico, il fidanzato di Valeria, interpretando il sentimento, prima, e le domande, poi, di tutti – che vogliono da noi? cosa abbiamo fatto contro i popoli antichi?”.
Elvira, quasi, in lacrime, disse che aveva tradotto la frase ma che non ne comprendeva il senso.
“Mi ha rotto le palle!” Mirko Gallucci scoppiò di rabbia, fece fuoco.
La giostra deviò il colpo.
Gli altri fermarono Gallucci, perchè poteva essere utile capire cosa volessero gli indigeni da loro.
L’indigeno tremò per lo sparo, ma, incredibilmente, non si mosse e continuò il suo sermone.
Il latitante era assetato di sangue e di rabbia, si divincolò dalla presa degli altri, ed, attraverso la finestra e le grate, centrò il colpo.
L’indigeno urlò, si tenne la spalla sinistra con la mano destra e si diede alla fuga.
Jonathan si accorse che tutti gli invitati erano accorsi, su quel versante, per vedere cosa succedeva.
“Nando – disse il ragazzo a Fernando – quello è il punto più illuminato del giardino, lo sanno che abbiamo una pistola; perché facilitarci tanto il compito di centrare il bersaglio?!?”.
Fernando trasalì
“Tornate alle vostre finestre!!!! Ci vogliono distrarre!!!”
Molti ascoltarono e tornarono alle loro postazioni di vedetta.
Pietro Rummo corse alla sua grossa porta-finestra, con le grate di protezione in ferro, e lanciò un’occhiata nella parte più buia del parco.
L’entrata era alta circa due metri, incavata nella parete, con dei bordi di marmo bianco.
La finestra era in pvc di colore bianco, mentre la pesante grata di ferro, a protezione, a circa un metro dalla finestra, era interamente costituita da rombi collegati alle estremità degli angoli
Pino Nassa era seduto, all’interno, spalle al muro, con la gamba destra fasciata e la freccia ancora conficcata nel lato della coscia: “ Pietro abbassati!” disse.
Pietro Rummo non vide nulla dinanzi a lui, nello spazio aperto, e si girò per tranquillizzare Pino.
Ebbe solo il tempo di percepire uno spostamento ed una variazione nell’intensità della penombra.
Pietro non scorse, appieno, la sagoma nera che si era materializzata dall’altra parte del vetro; lui scorse solo la punta della freccia.
Il dardo fu scoccato, frantumò il vetro e la vita di Pietro Rummo.
Il giovane ingegnere fu trapassato dalla freccia all’altezza del petto e cadde a terra senza nemmeno poter gridare.
Pino Nassa gridò.
Gallucci corse e provò a sparare nel buio.
L’ombra assassina si era dileguata nell’oscurità.
Mariarita urlò tanto forte che, quasi, fece cadere la villa; prima di crollare, lei stessa, a terra.
Osvaldo Guglielmi cercò di rianimarla, dopo aver constatato che per il marito della ragazza non vi fosse più nulla da fare.
Le grida di terrore si mischiarono agli ammonimenti di stare giù e di non offrire bersaglio agli arcieri nemici.
Vedere il corpo di Pietro Rummo a terra, per gli altri, equivalse a vedere la propria morte.
Tutti sentirono la pesantezza di un destino che pareva, ormai, inesorabile.
Purtroppo, seppur fossero protette dalle grate, le finestre e porte-finestre, infatti, erano tante e stare al riparo era veramente difficile.
Anche l’indigeno di prima che aveva attirato l’attenzione, adesso, era sparito.
Si udirono dei rumori provenire dal piano di sopra.
Si zittirono tutti.
“C’è qualcuno lassù con te?” chiese Rino a Gallucci.
Il latitante fissando il soffitto, mentre cercava di ascoltare, rispose di no, nominando, però, il suo fucile che era lì.
Mirko Gallucci ringhiava come un cane, aveva desiderio di uccidere.
Fece segno agli altri di restare dove erano; dopo di che lo ndranghetista si diresse verso l’apertura a scomparsa dalla quale era entrato.
“Dammi una delle pistole” disse Fernando parandosi innanzi a lui.
“Cosa?” rispose Gallucci.
“Se ti ammazzano e prendono entrambe le pistole, siamo fottuti”, replicò Fernando.
Gallucci stette a riflettere: “Perché la sai usare?”
“Sono Beretta 98 FS, penso con matricola abrasa” rispose secco Fernando.
“Sei uno sbirro!” disse Gallucci ritraendosi
Fernando rimase fermo: “Ho perso già troppi amici stanotte, non conta più chi siamo, dobbiamo andarcene da qui, da vivi…poi ognuno per la propria strada…”.
Gallucci si rasserenò: “Non fare scherzi, sbirro..” e porse l’altra pistola, con un caricatore di riserva, a Fernando, il quale annuì.
Rino si aggregò alla spedizione.
Jonathan si rammaricò di non avere il coraggio di farlo, seppur si sentisse, parzialmente, rinfrancato dal fatto che anche Domenico, il fidanzato di Valeria, non si facesse avanti come volontario.
Seppur i rumori fossero cessati, intanto, la sensazione di avvertire una presenza nello stabile, era tangibile.
Qualcuno era dentro.
Di sopra.
I tre salirono le scale, non si sentiva nulla.
Mirko Gallucci, Rino e Fernando furono sopra.
C’era un corridoio, subito dopo le scale, con tre porte ed altrettante stanze per lato.
Cucina, bagno, ripostiglio, studio, locale lavatrice ed asciugatrice e dispensa; le stanze aperte e spaziose furono superate, senza incontrare nessuno.
Nel buio e nel silenzio, i tre avanzarono ed entrarono nello sconfinato salotto con un mastodontico divano in alcantara, il bancone bar ed un televisore talmente grande da sembrare lo schermo di un cinema.
Quindi il muro, la porta scorrevole aperta, ed i tre furono nella camera da letto.
Laddove v’era un letto a due piazze, due armadi, uno contenente vestiti maschili, mentre l’altro adibito a contenere vestiti ed oggettistica per signora.
Guardando il secondo armadio, Gallucci sospirò: “ Meno male che c’eravate voi della festa e non l’ho fatta venire” riferendosi, forse, alla moglie.
Un altro sconfinato televisore, poi, era attaccato alla parete.
Null’altro.
Si doveva uscire nei terrazzi, adesso, e, poi, sul tetto; i luoghi da dove, prima, Gallucci aveva fatto tiro al bersaglio con i due indigeni abbattuti.
I tre, lentamente, in silenzio e con circospezione si portarono ad una porta-finestra che dava sui terrazzi.
Entrambi gli armadi della camera da letto erano stati acquistati da una fabbrica del luogo.
Non erano di fattura dozzinale, come quelli dei grandi magazzini, fatti di compensato o in cartongesso; questi manufatti, seppur di disegno e foggia moderni, erano solidi e resistenti.
Il punto di giuntura dei due mobili, poi, era certamente la parte più forte e capace di sopportare il peso, di entrambi gli armadi.
Gallucci non si domandò per quale motivo le ante dell’armadio che, alternativamente, sua moglie prima e la sua “amichetta”, poi, utilizzavano quando gli facevano visita; fossero entrambe aperte.
Le ante di entrambi gli armadi, quelle di destra dell’armadio delle signore e quelle sinistre del mobile di Gallucci, infatti, si toccavano.
Da tale punto, in cui i due manufatti si toccavano e dalle ante aderenti, discese, silenziosa, una figura esile.
Gallucci, Fernando e Rino erano fuori, procedevano in fila indiana, però si mantennero aderenti alla parete esterna, senza andare fino alle ringhiere del terrazzo; perlomeno, non fino a quando non si sarebbe verificato che anche sul tetto non vi fosse nessuno.
Rino era il terzo della fila, aveva il grosso coltello in mano e, stranamente, non provava nessuna remora e nessun timore al pensiero di dover sopprimere o fare del male ad un altro essere umano.
L’aver visto la tragica fine di molti suoi amici aveva generato, in lui, solo odio e rancore verso quegli strani e silenti assassini che elargivano morte a persone inermi ed innocenti.
Non era solo lotta per la sopravvivenza, non era solo mors tua, vita mea; era vendetta, desiderio di farla pagare a quei maledetti.
Mentre seguiva questi pensieri, Rino sentì uno spostamento d’aria alle sue spalle, si girò e fece solo in tempo a gridare ed abbassarsi.
Dalla stessa porta-finestra dalla quale erano usciti loro, si era materializzata una figura nera e silente che si scagliò contro i tre brandendo un lungo pugnale.
Abbassandosi, Rino eluse il fendente dell’indigeno che, però, colpì Fernando sull’avambraccio sinistro, proprio nel momento nel quale, quest’ultimo, lo aveva eretto, in orizzontale ad improvvisata difesa.
Fernando urlò, provando a liberare il campo alla sua pistola, tenuta nella mano destra.
Rino accovacciato, però, senza riflettere caricò l’aggressore con indistinta furia cieca.
I due caddero a terra.
L’indigeno perse il suo pugnale nella caduta, si rialzò e si diede alla fuga verso le scale, esterne, coperte e sbarrate dalla porta di cartongesso.
Rino avrebbe potuto affondare il suo pugnale nella schiena del nemico, ma esitò perché, nonostante quanto avesse pensato prima, non trovò il coraggio di sopprimere, così selvaggiamente, un altro essere umano.
Mirko Gallucci no.
Lui non ebbe alcuna esitazione, anzi con un’espressione sadica e soddisfatta si staccò dal muro e fece fuoco alla schiena del fuggitivo, il quale urlando si irrigidì e cadde a terra prima di raggiungere le scale.
Il latitante aveva abbattuto l’intruso, però, per farlo, era uscito allo scoperto.
Aveva dimenticato che sul tetto ci poteva essere qualcuno: e c’era.
Gallucci fu centrato da una freccia proveniente dall’alto, alle sue spalle.
La fortuna del latitante, in quel momento, fu che era girato di lato per eliminare il fuggitivo di prima.
Il dardo, allora, gli sfilò dietro il collo, senza penetrare nella spalla.
Nonostante il tiratore ed il suo bersaglio si trovassero a pochi metri di distanza in linea d’aria, infatti, riuscire a conficcare la freccia in una figura magra e smilza come Mirko Gallucci, girato di profilo e con un buio quasi totale; sarebbe stata un’impresa impossibile anche per il migliore degli arcieri.

Leggi il capitolo 1

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

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