“7 euro al chilo!!”.
Rosangela in quel momento si sentì più alta di dieci centimetri.
La ragazza volle ripetere questa frase, a voce alta, come una rivelazione miracolosa.
Era il modo di dimostrare a Mariarita, Doris e Daria che erano state delle infedeli a non prestarle credito, per le sue informazioni in materia di organizzazione di feste.
D’altronde, tutte le offerte di preparazione del buffet che fino ad allora erano state vagliate ed illustrate, alle tre ragazze, erano ricompresse tra i 13 ed i 15 euro a chilo per un assortimento di rustici, panini napoletani, tramezzini, arancini, crocchè e supplì di riso.
Rosangela, però, aveva sentito di questa pasticceria che vendeva, lo stesso assortimento, a 7 euro al chilo, ed allora aveva subito voluto diffondere la sua riuscita attività di intelligence gastronomico-festaiola, alle sue amiche.
Certo, la ragazza, non aveva prestato particolare attenzione alle notizie di molteplici chiusure che erano state inflitte a quel locale per aver usato, tra le altre cose, burro scaduto, farina di provenienza ignota, manodopera immigrata irregolare, ed altre piccole amenità che per Rosangela sembravano, infondo, non avere eccessivo rilievo.
Anche perché “ogni 50 euro di spesa, c’era un vassoio di pasticcini in regalo…!!”.
Ed allora, l’affare venne concluso senza troppi ripensamenti.
La missione da dover portare a compimento era organizzare la festa a sorpresa per il fratello di Daria, Piero che compiva 30 anni.
Egli aveva, da poco, perso la sua giovane moglie.
Una tragedia, questa, che aveva gettato nello sconforto tutti gli amici dei due giovani.
Soprattutto per l’affetto che ognuno di essi aveva per Eliana, la cui straripante vitalità, l’innata simpatia ed il coinvolgente entusiasmo che la caratterizzavano; ora mancavano tanto ed avevano lasciato un vuoto in tutti quelli che l’avevano conosciuta.
La festa di compleanno, allora, serviva anche a questo, a risollevare un po’ il morale di tutti dopo la tristezza del subitaneo distacco.
Anche per questo motivo, oltre alle cibarie, era stato organizzato tutto alla perfezione.
Le ragazze avevano, infatti, trovato una vecchia masseria, da poco ristrutturata, adibita ad ospitare cerimonie, persa in una sperduta campagna e raggiungibile solo da un’unica strada, peraltro non completamente asfaltata.
“Villa Claudia” era un posto davvero isolato, ma insolitamente, elegante.
L’ennesimo tentativo di realizzare un finto agriturismo a spese dei contribuenti, per poi ottenere il finanziamento statale, trasformarlo in un ristorante-albergo e scansare, così, le tasse che pagano, invece, le altre attività di ricezione e di ristorazione regolari.
Ad onor del vero, poco oltre il prato all’inglese che circondava tutto lo stabile, si trovava, davvero, una sorta di coltivazione sotto le serre.
Retaggio, probabilmente, della vera ed antica destinazione del sito, quella cioè del lavoro agricolo.
Lavoro divenuto, poi, poco remunerativo a causa dell’incontrastata invasione delle merci di importazione a basso prezzo, ed accantonato in favore della trasformazione in struttura recettiva, pagata dallo Stato.
L’accordo con i proprietari era chiaro, l’affitto comprendeva anche l’utilizzo della cucina.
Salvo, poi, dover rimettere tutto a posto come prima, entro la serata del giorno dopo.
C’era, soltanto, un piccolo inconveniente dovuto al fatto che la zona fosse assolutamente non coperta dal segnale di cellulari, tablet ed altre apparecchiature ad onde elettromagnetiche.
Questo stava a significare “silenzio radio”, per tutti, e nessun aggiornamento, costante, sui social network per narrare di quante volte si era stati al gabinetto o dei pasti che ci si accingeva a consumare.
Tale inconveniente, però, non sembrò un gran problema, visto che, anzi, tale mancanza, semmai, dava a tutta la vicenda, ancor di più, un alone di segretezza e riservatezza.
Ed infatti, Piero non doveva sapere nulla fino a quando non si sarebbe trovato nella sperduta dimora, con tutti i commensali ben piazzati a tavola.
Era stato ideato anche il modo di condurlo in quel luogo ameno.
Gli invitati dovevano radunarsi in un punto preciso ad un ora stabilita, quindi, tutti insieme, dovevano raggiungere Villa Claudia.
Da lì attraverso il solo telefono fisso della tenuta, sarebbe, poi, partita la telefonata sul cellulare di Piero da parte di Rosangela.
La quale avrebbe inscenato un guasto alla macchina ed un accorata richiesta di aiuto all’amico, quest’ultimo, allora, si sarebbe subito precipitato a soccorrere l’amica in difficoltà, peraltro invogliato da un gruppetto di altri amici, che in quel momento si dovevano trovare, proprio, a casa di Piero.
Tutto preparato a puntino, quindi, salvo il fatto che in un eccesso di zelo e di foga organizzativa, Daria aveva fissato il punto di incontro, quasi, sotto casa di suo fratello Piero.
Il quale, alle 18 e 30 di quella domenica di Maggio vide, praticamente, sull’altro versante della strada, giungere una ventina di auto, “conosciute”, sotto il condominio dove abitava.
Dapprima, il giovane, non prestò troppa attenzione a quell’assembramento, considerato il fatto che lì sotto si trova una famosa cicchetteria.
Ma quando riconobbe buona parte delle auto in sosta e vide, poi, scendere dalle vetture una cinquantina di suoi amici, Piero dovette subito realizzare e rendersi conto di quanto stesse accadendo.
Il festeggiato, allora, stette al gioco e fece finta di niente con i complici che aveva in casa, anzi, apprezzando sia l’intenzione che la faciloneria con cui tale intendimento era stato realizzato, si lasciò trasportare dagli eventi.

Jonathan Forlini ricevette l’invito alla festa a sorpresa di Piero Monte, non senza considerare che fosse stato chiamato per “fare numero”.
Questo non perché Rino e Fernando, che lo avevano materialmente avvisato, non fossero suoi amici; anzi si conoscevano e frequentavano da una vita.
Ma perché era stata Rosangela a invitarlo, sincerandosi circa il mantenimento del più stretto riserbo riguardo alla notizia.
Jonathan si chiedeva quando mai si fosse scambiato più di un ciao con Rosangela?
Comunque c’erano tutti, proprio tutti, ed allora…
Quando si trovò nel giardino di Villa Claudia, venti minuti prima delle otto di sera, Jonathan notò l’assoluta lontananza di quel luogo da ogni parvenza di urbanizzazione.
Ogni indizio, immagine o dettaglio di quel posto rimandavano ad un passato contadino.
Il giardino era ampio, il prato curato, le giostre, gli alberi di ulivo posti in fila, davano un senso di serena quotidianità e travalicavano il significato stesso di tempo e del susseguirsi di cicli e generazioni.
Ai confini di quel quadro di civiltà contadina si stagliavano, poi, a perdita di occhio, i boschi, tranne che verso ovest dove invece si trovava una sterminata fila di vivai agricoli e di serre.
La casa era grande, come quelle di una volta, con il tetto in legno, ed era composta di due piani, dei quali, si accedeva al più alto attraverso una scala esterna che era stata coperta con dei pannelli di vetro plastificato dai bordi bianchi di plastica e sbarrata con una porta in cartongesso.
Al piano terra c’erano la reception, la sala principale, più una sala più piccola, una cucina ed i bagni rimodernati.
Mentre non vi era modo, a parte la scala, esterna, di giungere al piano superiore.
Quando Jonathan entrò nella sala principale con Rino e Fernando, notò che le ragazze si davano un gran da fare.
Con quella innata e naturale capacità che hanno le donne di ordinare ed accomodare l’ambiente che le circonda, infatti, le organizzatrici, tutte insieme, sembravano un formicaio in fase di allestimento.
Si poteva solo ammirare, in silenzio, tanta solerte risolutezza nell’allestire il proscenio della festa che si approssimava.
Ma i tre malcapitati ragazzi furono, comunque, quasi subito travolti dall’onda impetuosa costituita dalla premura delle ragazze di dover finire, per tempo, la preparazione.
E con quella, altrettanta, connaturata capacità che hanno le donne di saper comandare gli uomini, i tre ragazzi vennero, prontamente, adibiti a compiere delle specifiche mansioni nelle quali non avrebbero potuto fare molti danni.
La tenuta in campagna, in quel momento, dava la sensazione di essere un alveare in piena attività, governato da uno stuolo di api regine che dirigevano l’allestimento dei locali.
Alcune erano già arrivate in giornata e si erano prodigate in cucina con le preparazioni delle pietanze calde.
Il menù prevedeva un aperitivo di ingresso, costituito da piccoli rustici, olive, patatine e tramezzini; oltre alle leccornie scovate ed ordinate da Rosangela.
Per poi passare alla occupazione dei posti a sedere, con tutti ai tavoli rotondi presenti nella sala grande.
Ove sarebbe stato servito, dapprima, un composè di mare, con pesce spada, baccalà, pannocchie, salmone, vongole e polpo.
Quindi si sarebbe passati al risotto alla pescatora ed alle fettuccine al prosecco ed alle capesante.
A questo punto, poi, si sarebbe virato su un secondo di carne, voluto da Mariarita e da Rosangela che avevano prevalso e messo in minoranza Daria e Doris.
Tale secondo di carne consisteva in una scaloppina al limone.
Una bella insalata caprese come contorno, quindi fragole con la panna per preparare il palato, degli astanti, al “faraonico” buffet di dolci.
Anche questo preso a 7 euro al chilo…
Jonathan, intanto, si ritrovò ad entrare spesso, con una scusa o l’altra, in cucina.
Voleva vederla…
Lei era lì.
Valeria la sorella minore di Mariarita.
Era stata lei, il principale motivo, per il quale Jonathan aveva accettato di eseguire le disposizioni di Rino e Fernando, e di prendere parte alla festa a “sorpresa”.
Il ragazzo, difatti, era a conoscenza delle motivazioni che spingevano, entrambi, i suoi sodali: Rino Morselli stava, infatti, “tacchinando” Rosangela, cercando di circuirla con false dichiarazioni amorose e propositi simulati; al solo fine di poter copulare con lei.
Mentre Fernando Villario era, a tutti gli effetti, il guru della comitiva, prodigo sempre di consigli ed alte massime di saggezza per tutti.
Anche se al contempo, quest’ultimo, nutriva una passione celata, a tutti, così come forse anche a sé stesso, per Doris Rizzo; una delle componenti del gineceo organizzatore.
Jonathan sentiva battere il cuore forte ogni qual volta vedeva Valeria Camuso.
Lei era il motivo per il quale Jonathan era, spesso, presente nelle iniziative di quella combriccola, della quale, lui, non si sentiva, affatto, un componente.
Valeria Camuso sembrava una polinesiana, con la sua pelle color smeraldo, i suoi lunghi capelli di un nero corvino ed il fisico sodo, dalle forme molto pronunciate.
Lei era una bomba che esplodeva, ad ogni suo avvistamento, nella testa e negli occhi di Jonathan.
Valeria, però, era fidanzata con Dino Minelli.
Per ora, ovviamente…secondo Jonathan…
I preparativi giunsero a compimento, proprio, mentre calava l’oscurità.
Anche grazie al fatto che, il giorno precedente, Daria, Mariarita, Rosangela e Doris Rizzo erano state nella villa a depositare la spesa ed a effettuare le prime preparazioni di base.
Piero arrivò come da copione, e, seguendo appieno i canoni del canovaccio, si mostrò sorpreso da quanto stava accadendo.
Seppur qualcuno notò che il neo trentenne si fosse già vestito, di tutto punto, ed abbigliato con una mise elegante; alquanto poco consona con il semplice giro con gli amici, al quale era stato, invece, invitato dai suoi “adescatori”.
L’effetto musicale, all’ingresso di Piero, costellato dalla colonna sonora di “Jump” dei Van Halen, con tanto di tappeto rosso, parve eccessivo a molti.
Così come gli strani aggeggi, distribuiti agli invitati, dalle organizzatrici, che proiettavano un flash, a comando, simile alle macchine fotografiche; parve pomposo ed, a tratti parossistico, a molti.
Intanto uno stuolo di smartphone suggellava la scena dell’ingresso del festeggiato, rendendo il tutto ancora più kitsch e pacchiano.
Anche se, tali filmati non sarebbero stati divulgati fino al ritorno nel “mondo civile”.
Jonathan era tra coloro che giudicavano troppo sfarzose ed appariscenti le manifestazioni allestite per una semplice festa di 30 anni.
Anche se il giovane, più che prestare attenzione a Rino che pontificava sulla stupidità di Daria e sulle forme prorompenti di Rosangela o a Fernando che, come suo solito, aveva calato, in quel marasma, il suo “carico da 90”, esibendo e suonando una trombetta da stadio di calcio; guardava Valeria.
Era bellissima con un abito estivo lungo, con le spalle scoperte ed uno spacco alla gamba sinistra.
Jonathan era senza fiato, la fissava inebetito.
Lei se ne accorse, come già era successo altre volte, e degnò il ragazzo solo di un veloce sguardo di rimprovero.
Quasi come a voler dire: “Non ti vergogni a sbavare in quel modo, davanti a tutti? Non lo vedi che c’è il mio fidanzato!?”.
Era tutto inutile, per Jonathan, lei era il Sole e la Luna.
Il sontuoso buffet orchestrato da Rosangela, intanto, ebbe inizio.
Effettivamente il prezzo modico e dozzinale della fornitura di piccoli artefatti rustici, come frittatine di pasta, arancini di riso, olive ascolane, panini napoletani, mozzarelline in carrozza quadrate, frittelle di fiori di zucca e panzarotti, ne permise una acquisizione in quantità industriale.
La vista d’occhio dei tavoli, imbanditi ed abbondanti, fu faraonica.
Anche se l’assaggio, poi, non fu sempre impeccabile, denotando qualche pecca nella qualità delle materie prime.
Qualche mormorio soffuso e trattenuto, allora, si levò in protesta, facendo il paio con qualche viso storto e qualche smorfia, e Rosangela venne, seppur in maniera silente, additata dalle amiche come responsabile della naufragata sortita.
La ragazza sentendosi ghettizzata dalle altre organizzatrici, si irritò e, cercando di mantenersi in equilibrio sui vertiginosi tacchi, data la sua statura non proprio slanciata, così come i capelli corti che non le facevano certo guadagnare centimetri; si lanciò alla ricerca di Rino per trovare spalla e manforte alla sua “ sfogata” contro le amiche.
Rino, una volta scovato da Rosangela, accettò di buon grado di fungere da interlocutore di costei, e non perché fosse d’accordo o prestasse attenzione a quanto lei dicesse; ma perché, con il suo piatto di plastica colmo di rustici di infima qualità, il giovane si perdeva con lo sguardo nell’abbondante decoltè della ragazza.
Fortunatamente, i bocconcini di mozzarella scelti da Marta Tremendi, altra organizzatrice, e l’insalata di pasta preparata da Doris Rizzo erano di qualità sopraffina, ed ottennero il plauso e l’approvazione di tutti.
Frattanto, Silvio Tremendi, fratello di Marta, nonchè proprietario di una famosa pizzeria in paese, uscì, in quel momento, in giardino ed iniziò a rullare il suo tabacco, preparando la cartina con la quale lo avrebbe avvolto.
L’enorme giardino curato ed equilibrato, con le giostrine sparse qua e là, era illuminato da lampade incavate nel terreno e da qualche piccolo lampione sollevato a poco più di due metri.
Era scesa la sera, anche se l’aria non si era rinfrescata per niente.
Certo era meglio stare dentro con la musica e l’aria condizionata.
Però Silvio doveva fumare.
Lo stesso pensiero che aveva avuto Pino Nassa, il chitarrista del gruppo rock contattato per allietare la serata, il quale che aveva accettato l’ingaggio, così come gli altri componenti della band, solo per l’entusiasmo indotto dal “board” organizzatore dell’evento ma soprattutto, in cambio dei barili di Peroni ghiacciata.
Silvio vide Pino Nassa e comprese che il suo momento di quiete era sfumato.
L’iperattività e la frenetica logorrea del chitarrista, infatti, fracassarono la quiete silente di quella serata boschiva, e non solo…
Silvio dovette sorbirsi elucubrazioni ed ardite teorie di filosofia universale su temi molteplici e diversificati, quali: musica, calcio, conformismo sociale e vacuità del pensiero femminile.
Mentre Pino Nassa, letteralmente, trasbordava di concetti illuminanti ed elevati postulati sociologici, Silvio sentì un bruciore alla parte bassa dello stomaco.
Il ragazzo pensò di aver esagerato con gli antipasti e con il vino di infima qualità e, abbassando gli occhi, si mise la mano sullo stomaco, sentendo qualcosa di freddo.
Fu allora che silvio la vide.
Una freccia conficcata nel suo addome!!
Il giovane si girò, con gli occhi sgranati, verso Pino Nassa, che, invece, non si era accorto di nulla e continuava a parlare ed a saltellare ritmicamente.
Silvio provò a dire qualcosa ma il sangue gli riempì la bocca, prima di cadere all’indietro, e stramazzare a terra.
Pino Nassa, già saturo di alcool, non comprese appieno quanto stesse accadendo e si abbassò per capire cosa fosse capitato al suo amico.
Questo gesto spontaneo del chitarrista gli salvò la vita.
Una freccia sibilò nel buio e si conficcò nel palo ligneo della altalena, lì vicino.
Pino sentì sfilare e vide il dardo entrato nel palo dell’altalena, poi ne vide un altro conficcato nel corpo esanime di Silvio.
Il chitarrista, guardò verso destra, verso il giardino con le giostrine, la serra ed il buio; quindi cominciò ad urlare, correndo come un forsennato verso l’ingresso.
Pino Nassa, quasi, divelse la porta laterale di ingresso quando piombò dentro la sala, letteralmente, rotolando.
Il ragazzo cercò di articolare una frase sensata ma senza riuscirci.
La sua concitazione ed il suo volto paonazzo attirarono l’attenzione di tutti.
Alcuni si portarono all’esterno e quando videro il corpo di Silvio a terra, furono avvinti dal terrore più insano.
Solo dopo qualche secondo, le persone, accorse, notarono la freccia mortale e collegarono questa scena con le grida disperate di Pino Nassa che, intanto, giungevano inascoltate dall’interno della struttura.
Il musicista, infatti, urlava a tutti, di rientrare immediatamente.
Fu tardi.
Michele Corto, un idraulico di 46 anni, separato e compagno di Anita, una giovane ragazza polacca di 27 anni, venne centrato alla testa da un dardo fulmineo.
Cadde a terra stecchito, non riuscendo nemmeno a gridare.
Il terrore si impadronì di quei luoghi.
Alcuni rientrarono, altri corsero alle auto, compiendo, però, la scelta sbagliata.
I pneumatici di tutte le macchine erano, infatti, completamente, sgonfi, forse perchè forati con qualche oggetto appuntito.
Vennero scagliati altri tre dardi che, fortunatamente, causa la sagoma delle auto ed i bersagli in movimento, non andarono a segno.
La paura annebbiò la ragione.
Antonio Dattore, in preda al panico ed all’alcool, si portò al grande cancello e lo scavalcò, lanciandosi in una galoppata inarrestabile sulla strada sterrata e scomparendo nel buio della notte.
Gli altri rientrarono.
Ma era il caos.
Le donne urlavano di paura con un pianto fragoroso ed incessante.
Doris che si era lasciata da qualche mese con Silvio Tremendi, ma che provava, ancora, come immutati, i sentimenti nei suoi confronti, svenne.
Lo stesso mancamento lo ebbe Anita.
Chi riusciva a mantenere un barlume di autocontrollo gridava agli altri di stare giù e lontano dalle finestre.
Qualcuno provò ad utilizzare il telefono della struttura, temendo, però, pur senza una ragione apparente e definita, l’esito sinistro di tale iniziativa.
Il telefono, infatti, non era più funzionante, pareva fosse stato scollegato.
Ora c’era veramente di che aver paura.
Qualcuno aveva, forse, voluto chiudere tutti loro in una trappola mortale.
Il pensiero e l’immagine di due persone là fuori, morte ammazzate, era lacerante.
Sia per i loro semplici conoscenti che per coloro che vi erano più legati.
Non si poteva fare nulla, però.
La situazione era, parimenti, assurda quanto terrificante.
I dispositivi di telecomunicazione mobili erano inattivi in quel luogo a causa della assenza di segnale elettromagnetico.
Il telefono fisso era silente, forse, perché staccato a causa di un sabotaggio.
Le ruote di tutte le auto erano a terra, forse, perché forate.
Due persone giacevano morte in giardino, trafitte da frecce provenienti da un punto non individuato.
I partecipanti della festa non credettero, subito, che quanto stesse loro accadendo fosse reale.
Tutti ebbero l’impressione di trovarsi in un brutto sogno, in una specie di film dell’orrore e che le cose stavano succedendo troppo in fretta per essere vere.
Però era tutto vero.
Anche la morte.
I corpi esanimi coricati in giardino, venivano fissati con lacrime e sgomento dagli invitati, tutti messisi al riparo, nel frattempo, nascosti dietro pareti e colonne.
Le urla delle ragazze, col passare dei minuti, cessarono.
Tutti cercarono e trovarono un riparo lontano dalle finestre e dalle porte di entrata.
Le persone iniziarono a parlare tra di loro, ad analizzare la situazione.
Ci si accorse di essere tutti in trappola.
Erano, infatti, in un posto isolato e le comunicazioni con l’esterno erano impossibili, in qualsiasi maniera.
Le auto erano inutilizzabili.
La sola strada era quella di fuggire a piedi, nella campagna, di notte, come aveva fatto Antonio Dattore.
Ma con quale esito?
Un solo fuggitivo era, effettivamente, sfuggito al tiro dell’ignoto arciere, in quanto questi era impegnato a centrare tanti altri bersagli nel parcheggio.
Se avessero, invece, tutti optato per una tale sortita, di certo l’arciere li avrebbe seguiti e, nascosto tra gli alberi, al buio, avrebbe fatto una carneficina.
Ma poi chi era questo arciere?
Era solo? O erano più aggressori?
Perché aveva attaccato i partecipanti alla festa?
Cosa voleva?
Sterminare tutti?
Perché?
Erano queste alcune delle domande che frullavano nella testa dei partecipanti alla festa, oltre alla disperazione per le due persone morte ed alla paura per la propria sorte.
Istintivamente, allora, tutti cominciarono a chiudere e sbarrare porte e finestre, con le grate di ferro, chiudendole a chiave dall’interno.
Si guardava fuori, in giardino, nell’oscurità, rotta solo dalle luci delle giostre e dai lampioni; aspettandosi, da un momento all’altro, un attacco.
Nella grande cucina, vi erano solo finestre alte, poste alla base del soffitto.
Era un luogo in cui si era al sicuro da attacchi.
“Vaffanculo!!! Te la porti sempre appresso quella cazzo di pistola! In quel marsupio da turista svedese di 70 anni! E adesso, la prima volta nella tua vita che quella pistola sarebbe servita, non ce l’hai!! Certo che veramente sei un genio!!!” Rino Morselli sbraitava, come suo solito, contro Fernando Villario; mentre recuperava un coltello per tagliare il pane, grande come un machete.
Fernando imprecava di rabbia, ben conscio, in quel momento, che la sua pistola di ordinanza della Polizia di Stato, sarebbe stata vitale in quel momento.
Jonathan diceva ai due litiganti di stare zitti, per sentire cosa accadeva dalla sala del ricevimento.
I tre giovani erano, subito, corsi nella cucina ad armarsi.
Grossi coltelli e tridenti per infilzare la carne, difatti, non mancavano.
“Se ha armi da fuoco, ed entra nella Villa, questi coltelli sono inutili, farà un massacro” disse Jonathan rivolgendosi a Fernando.
“Se avesse avuto armi da fuoco, le avrebbe già usate – rispose Fernando – ha solo arco e frecce”.
” Se è uno solo!” Disse Rino.
“Come facciamo a sapere se è uno o più assassini? – chiese Jonathan -dannazione! Non è possibile…Silvio! E l’idraulico! Non può essere…sono morti!!!”.
“Se escono allo scoperto, lo sapremo – disse Rino – se sono in tanti, ci verranno a prendere qua.
Solo che qui ci sono quasi tutte donne, siamo fottuti!”.
“Non sono tanti – disse Fernando – se lo fossero, già sarebbero venuti, adesso, invece se ne stanno nascosti, e forse è uno solo”.
“Perché?” chiese Jonathan.
Rino e Fernando non seppero rispondere.
I tre ragazzi videro passare Daria nel corridoio, di fretta.
Le andarono dietro.
Daria si era ricordata della uscita di sicurezza, posta alla fine del corridoio, quella con la maniglia tubolare a scatto.
La ragazza voleva verificare se tale porta di pvc e vetro plastificato, fosse chiusa e sbarrata per chi cercasse di entrare dall’esterno.
Daria si accorse dei tre ragazzi che la seguivano e si sentì più sicura.
Giunta alla fine del corridoio, alla uscita di sicurezza, Daria Monte si girò nuovamente verso la porta di vetro plastificato.
La ragazza la aprì per verificare se fosse stata chiusa.
La porta si aprì per un attimo sul cortile in sampietrini, prima del giardino verde e delle giostre.
Daria diede una veloce occhiata all’esterno, volendo richiudere prontamente.
Ma non ci riuscì.
Daria Monte non comprese appieno cosa vide.
La figura dinanzi agli occhi della ragazza, non doveva trovarsi lì, in quel luogo, in quel tempo.
Era nudo.
Scalzo.
Indossava solo un qualche indumento, forse, di paglia per coprire la pudenda.
Era dipinto di una qualche vernice nera su tutto il corpo, salvo un ulteriore strato di una qualche vernice bianca sul petto, sull’addome e sul volto.
Riproduceva, in toto, la sagoma e la figura di un indigeno di una tribù africana.
Daria rimase basita da quella immagine.
L’indigeno scoccò la freccia.
Daria emise un rantolo strozzato e cadde all’indietro strabuzzando gli occhi.
L’indigeno estrasse un’altra freccia dalla faretra.
Rino Morselli non sopportava per niente Daria Monte, ce l’aveva sullo stomaco da sempre, ma il modo in cui era stata abbattuta era inumano.
Il giovane perse la testa.
Urlando si lanciò con due grossi coltelli contro l’indigeno.
L’arciere si rese conto dell’assalto e caricò velocemente la freccia, puntandola in avanti.
In quell’istante, però, all’aggressore, gli arrivò addosso il meno grosso dei coltelli lanciato da Rino.
L’indigeno, allora, gridò per il dolore e fece cadere la freccia.
Rino gli era addosso.
L’indigeno tentò una fuga.
Rino scagliò un fendente contro l’arciere che, però, non andò a segno.
L’indigeno era smilzo e veloce, si diede prontamente alla fuga.
Rino era furibondo, lanciò il coltello grande contro le spalle dell’arciere e quando lo sentì, colpito, urlare di un dolore folle, ne fu compiaciuto.
Il ragazzo corse a riprendere il coltello grande per inseguire l’arciere e farlo a fette.
Quando, però, riprese il coltello, Rino vide una scena che gli ghiacciò il sangue nelle vene.
Ce n’era un altro.
Un altro indigeno dietro uno scivolo.
Era sulla destra, pronto a lanciare il suo dardo.
“Vengeance pour les frères!!” gridò l’arciere.
Rino non comprese, però non riusciva nemmeno più a muoversi, chiuse gli occhi.
Ci fu uno scoppio improvviso!
Le cervella dell’indigeno schizzarono via verso la sua sinistra.
Rino gridò e si abbassò di scatto, lo scoppio gli fece fischiare le orecchie.
Dopo un attimo, però, il ragazzo si accorse che qualcuno, da lontano, gli stava gridando qualcosa.
Rino si girò verso la Villa.
Sulla balconata posta al piano superiore, quella dalla quale si accedeva attraverso la scala esterna coperta e che era sbarrata; vi era una figura filiforme ed altissima che stava gridando qualcosa, ripetendolo in continuazione.
“Entra dentro cugliùneee!!! Moooo!!!! Ce ne stanno nu saccu!!!!! Nu saccu!!!!”.
Rino comprese, allora, che quell’uomo aveva sparato all’indigeno, per salvargli la vita e rientrò di corsa.
Fernando e Jonathan chiusero e sbarrarono la porta.
Intanto, dall’interno della sala, corsero tutti all’uscita di sicurezza e vedendo Daria, a terra, con una freccia conficcata nella spalla destra che perdeva sangue; furono, tutti, presi dal panico.
Daria urlava e piangeva, stessa cosa che facevano anche le ragazze accorse, tranne poche eccezioni di alcune dedite a prestare soccorso alla ferita.
Osvaldo Guglielmi, fratello di Nerina, che si era da poco laureato in medicina generale e stava svolgendo la specializzazione in chirurgia, disse di non estrarre la freccia.
Non in quel luogo e non in quel momento, perché la ferita avrebbe necessitato di medicazioni, disinfettanti ed antibiotici che non c’erano nella villa.
Oltre al fatto, poi, che sarebbe stata necessaria una radiografia prima di procedere alla estrazione dell’oggetto appuntito.
Osvaldo fece imbevere dei panni con l’amaro e la grappa e procedette ad una pulitura marginale della ferita, intorno al punto di entrata della freccia.
“Chi è che ha sparato?! – chiese Pietro Rummo, marito di Mariarita Camuso – sono armati!?!”
Rino gli indicò di guardare fuori il cadavere dell’indigeno, raccontando, poi, a tutti della dinamica del ferimento di Daria, della sua aggressione ed inseguimento dell’indigeno e della uccisione dell’altro arciere da parte di qualcuno sulla balconata di sopra.
“Sta al piano di sopra – disse Rino – E’ magro e molto alto e parla… credo…calabrese!?!
Credo, comunque, mi abbia salvato la vita…era finita…il secondo di questi zozzi, ormai, mi aveva sotto tiro”.
“Che ci fa qui? Che vuole da noi?” chiese Rosangela
“Ti ho detto che mi ha salvato, ha sparato a quello schifoso e mi ha detto di correre dentro!”.
“Come si sale sopra Rosangela?” chiese Fernando.
“Non si sale – rispose la ragazza – il proprietario mi ha detto che sopra ci sono, solo, mobili vecchi e basta e che non ci sta niente da vedere lì.
La scala per salire è sbarrata da quel cartongesso”.
“Rino che ti ha detto quello che è stato sparato?” domandò Jonathan, il quale aveva sentito qualcosa durante lo svolgimento dell’azione.
Rino parve riaversi del ricordo e si rivolse a Elvira Nona, la quale lavorava e viveva, con le sue due bambine, a Nizza, in Francia.
“Elvira che significa vengeance pour les frères?” chiese Rino alla ragazza.
“Vendetta per i fratelli” rispose Elvira non comprendendo il senso della domanda.
Frattanto, giunsero, all’improvviso, delle grida dal cancello principale.
Ancora.
Forti e disperate.

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

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