La ferita, però, fu comunque, larga oltre che abbastanza lunga, ed il latitante gridò selvaggiamente, inginocchiandosi.
Fernando, seppur corpulento, agì velocemente, si frappose come scudo a Gallucci inginocchiato e fece fuoco.
L’arciere, sul tetto, fece in tempo solo a gridare ed a spiaccicarsi a faccia in giù sul pavimento del terrazzo.
Gallucci gridava, Fernando perdeva sangue dall’avambraccio sinistro.
Fu allora che Rino lo vide.
Un indigeno che era salito dalla scala che sarebbe dovuta essere sbarrata con una porta in cartongesso.
L’arciere sopraggiunto puntò sul bersaglio grosso di Gallucci e Fernando, posti vicini l’uno all’altro.
Rino sapeva che questa volta non poteva esitare e si lanciò contro il nemico che era pronto a scagliare il colpo.
L’indigeno se ne accorse e puntò la freccia contro il suo aggressore.
Fu un attimo.
Anche Rino si accorse di essere sotto tiro e caricò ad occhi chiusi.
La parte di ringhiera non tenne ed i due precipitarono giù in giardino.
Gallucci gridò, allora, di tornare dentro, in quanto sarebbero, presto, arrivati degli altri.
Fernando voleva, invece, andare a sporgersi per vedere cosa fosse successo.
Il latitante gli disse che, in quel luogo, erano, entrambi, sotto tiro e che erano gli unici ad avere una pistola.
Rientrarono.
Sotto, intanto, era il terrore.
Gli spari e le urla che provenivano da sopra avevano ghiacciato tutti.
Fino a quando non si udirono le voci di Fernando e di Gallucci che discendevano le scale; di sotto era stato il panico.
Fernando disse di andare a controllare fuori dove fosse caduto Rino con l’indigeno.
Ma non vi fu tempo di farlo.
Improvvisamente si udì un boato.
Come un uragano.
Qualcosa entrò frantumando il grande portone centrale.
L’impatto fu spaventoso e colossale.
La polvere ed il frastuono furono insopportabili.
Qualcuno riconobbe il camioncino bianco dei proprietari della villa, ora fracassato nell’anticamera della grande sala.
Dietro di esso entrarono gli indigeni.
La grande porta finestra di ingresso era l’unico punto del piano terra che non fosse protetto dalle grate di ferro; ciò in quanto, all’occorrenza, vi era una saracinesca che scendeva a coprire le porte vetrate in pvc di colore bianco.
Tale chiusura non era stata fatta scendere poiché sarebbe stato, per gli occupanti, come chiudersi in una sorta di trappola.
Fu una scelta sbagliata.
Perché gli indigeni avevano escogitato una strategia per entrare.
Dapprima mandare un’esca a distrarre il nemico, quindi far salire un commando di infiltrazione nella dimora, per poi sfondare lo sbarramento, utilizzando il camioncino.
Gli invitati, però, avevano adottato una specie di contromisura per arginare un assalto, dalla sola parte dello stabile che non fosse difesa.
La prima consisteva nell’aver eretto una seconda linea di sbarramento, con le panche e con i tavoli, all’ingresso della grande sala del ricevimento.
Il camioncino si andò a scontrare, infatti, contro i pesanti mobili della “reception” posti dinanzi ad un muro portante che divideva la sala della festa dall’altra sala un po’ più piccola, che era rimasta chiusa.
Quando il veicolo arrestò la sua corsa contro il grande e pesante bancone di legno e marmo, gli indigeni presero a fluire all’interno dello stabile.
La tribù, però, si scontrò contro lo sbarramento di difesa, costituito dal mobilio, e nell’oscurità di chi non conosceva la conformazione dell’ambiente interno della villa; questa barriera fu, in un primo momento, un argine efficace.
Diede modo, così, agli invitati di attuare la seconda forma di difesa: il repentino arroccamento, cioè, nei locali della cucina, protetti da una grande ed antica porta di legno a due battenti, rimodernata.
Nel buio e nel più cupo ed insano dei terrori, però, porre in esecuzione, correttamente, il piano di evacuazione stabilito, fu comunque arduo e complicato.
Qualcuno cadde, qualcuno non riuscì a muoversi ed a raggiungere la cucina, qualcuno provò a parlare o a chiedere pietà agli aguzzini indigeni.
Tutti costoro ricevettero solo le frecce, pugnalate e la folle bramosia di uccidere dei membri della tribù.
I quali agivano come dei leoni affamati che si erano fatti strada in una mandria, sconfinata, di antilopi.
Gli indigeni colpivano e davano morte con insano appagamento.
Tra gli invitati qualcuno cercò di coprire la fuga delle donne e degli altri ed affrontò l’orda brandendo le proprie armi.
Jonathan vide Valeria scortata da Domenico verso la cucina, furono raggiunti da un indigeno che si lanciò contro di loro.
Jonathan provò ad intervenire ma tutto accadde in un attimo.
L’aggressore colpì Domenico con la lancia nell’addome e poi ritrasse l’arnese.
Mente il ragazzo si piegava in ginocchio, Valeria urlò disperata, non riuscendo più a muovere, neanche un dito.
Jonathan, con una padella per castagne con il manico in legno e l’asta in ferro battuto, presa dal grande camino centrale, riuscì a colpire il capo dell’indigeno da dietro.
Costui crollò tramortito.
Il giovane terrorizzato prese Valeria, di peso, essendo la ragazza, ormai, resa immobile ed inerme dal terrore e dalla disperazione e la condusse in cucina.
Jonathan ebbe, quasi, l’impressione, mentre la trasportava, che la ragazza fosse svenuta in piedi.
Mirko Gallucci scaricò il caricatore della sua Beretta contro i nemici, i quali gli venivano incontro come se fossero i personaggi di un videogame.
Il latitante sparava, ed ogni colpo si portava con sé una vita.
Eppure gli indigeni non si fermavano.
Due colpi erano stati esplosi dal sicario della ndrangheta di sopra.
Gli altri tredici furono usati per abbattere otto giovani indigeni.
Esaurito il caricatore, Gallucci non fece in tempo a sostituirlo che venne affrontato da un altro aguzzino con la lancia.
Il latitante non si scompose, afferrò la lancia del suo aggressore, con un calcio lo allontanò e si impossessò della sua asta appuntita.
A nulla valse un improvviso barlume di umanità del giovane indigeno che si accorse di quanto stava succedendo e sembrò, quasi, chiedere pietà.
Gallucci lo infilzò con entusiasmo e sadica soddisfazione.
Il latitante riprese, allora, la pistola, a terra, per ricominciare il suo tiro al bersaglio, ma venne, in quell’istante, raggiunto da una freccia sulla spalla destra e da un’altra alla gamba sinistra.
Due indigeni, allora, lo accerchiarono, entrambi armati di lance.
Gallucci si avvicinò al tavolo alle sue spalle, prese una delle bottiglie ed uno degli accendini, ivi predisposti, e si girò verso i suoi aguzzini, proprio mentre questi lo infilzavano con le aste.
In quello stesso istante, il latitante, gridando, accese l’accendino, e diede fuoco allo straccio imbevuto intorno alla bottiglia piena di gasolio, proferendo, con la bocca colma di sangue, le sue ultime parole: “ Crepate bastardi! Tuttiii!!!”.
Il sicario della ndrangheta fracassò la bottiglia incendiaria, accesa, sull’asta di una delle due lance.
Rotto il vetro, il carburante si sparse ed incontrò la fiamma dello straccio acceso da Gallucci.
Fu come l’accensione di una stella.
Il fuoco divorò tutto.
Fu una esplosione di fiamme e di luce.
Gli indigeni arretrarono e fuggirono verso l’uscita, gli invitati chiusero la grande porta della cucina; mentre alcuni, di entrambi gli schieramenti rimasero bloccati nella sala.
Fernando era stato circondato, senza più proiettili e senza la possibilità di sostituire il suo caricatore.
La deflagrazione lo salvò dalle armi degli indigeni che preferirono darsi alla fuga, tra le fiamme, per guadagnare l’uscita.
Il poliziotto non aveva altra via di uscita che tra le scale rimaste aperte.
Fernando, allora, richiuse la porta segreta dietro di sé, anche nel tentativo di bloccare le fiamme.
Gli invitati erano nei locali della cucina.
Gli indigeni se n’erano andati, ma la sala stava bruciando e presto le fiamme avrebbero raggiunto tutti.
I locali cucina avevano solo finestre alte, con delle grate di ferro fisse.
Gli invitati erano in trappola.
Eccezion fatta per la porta che dava sulla sala da ricevimento, più piccola, rimasta chiusa e non utilizzata per la festa.
Non vi era scelta.
O uscire ed andare incontro agli indigeni o restare e morire carbonizzati.
Il frastuono delle fiamme dall’altra parte della porta era assordante.
Il fumo e l’odore acre cominciava a penetrare nei locali della cucina.
Gli invitati erano afflitti da un dolore insostenibile per la perdita di amici e parenti e per il terrore di subire, anche loro, ben presto, una fine altrettanto tragica e cruenta.
Jonathan si accorse di tenere ancora, stretta a sé, Valeria; la quale, però, era in uno stato di shock e non dava più segni di essere presente.
“Piero dobbiamo uscire!” proruppe Jonathan.
Piero Monte, il festeggiato, aveva i nervi lacerati, teneva sua sorella, Daria, ancora appoggiata sulle spalle: “Per cosa? Per farci ammazzare!!?!”.
“Piero, ascolta – disse Jonathan cercando di mantenere la calma – ci sono altre molotov sul tavolo, appena il vetro comincerà a cedere per la temperatura dell’incendio, esploderanno tutte…crollerà tutto qui!!!!”.
Pino Nassa che camminava zoppo, avendo ancora la freccia conficcata nella gamba: “Usciamo, meglio morire lottando che bruciati vivi qua!”.
Dopo una rapida consultazione con coloro i quali erano ancora capaci di intendere e di volere, gli invitati aprirono la porta della sala, che non era stata utilizzata per la festa e, come, una masnada di lebbrosi afflitti dalle piaghe, iniziarono lentamente ad uscire trasportando, di peso, feriti ed inermi.
Fernando, nel frattempo, salì al piano superiore, seppur conscio che le fiamme lo avrebbero, presto, raggiunto.
Il poliziotto sapeva che, da un momento all’altro, le altre molotov si sarebbero incendiate e la Villa Claudia sarebbe diventata un immenso falò.
In quel momento Fernando agì d’istinto, e dopo aver percorso, con circospezione, ogni metro della dimora di Gallucci e del balcone, cominciò a scendere dalla scala esterna; favorito dal fatto che la porta di cartongesso era stata divelta dall’indigeno che era precipitato con Rino.
Fernando scorse in giù prima di scendere e non vide tracce né dell’amico né, tantomeno, dell’arciere.
Erano spariti.
Il poliziotto, però, non incontrò nessuno ad attenderlo ed ebbe gioco facile a raggiungere il giardino ed a nascondersi dietro delle giostre.
Giusto in tempo, perché il fuggitivo assistesse ad una scena agghiacciante.
La tribù era schierata, a semicerchio, ad una trentina di metri dalla entrata principale della villa.
Delle torce erano state accese e la donna, che sembrava più grande di età rispetto agli indigeni più giovani, capeggiava sulla tribù schierata.
Gli invitati, con i feriti trasportati, iniziarono ad uscire e si fermarono dinanzi al loro plotone di esecuzione.
Le donne piangevano e chiedevano spiegazione di tanta barbarie e ferocia inumana.
Gli uomini si preparavano ad una flebile resistenza, votata ad un esito tanto tragico quanto scontato.
La tribù non parlava, non rispondeva, pregustava solo il suo banchetto di sangue e di vite umane.
La capo tribù, allora, parlò, con la stessa identica voce stridula ed atona dei suoi indigeni: “Offre l’homme blanc en sacrifice à la nature!
Justice pour peuples anciens!”
Elvira scoppiò a piangere, ed anche chi non comprendeva il francese intese che era stata pronunciata una condanna definitiva su tutti loro.
Fernando aveva una Beretta con il caricatore pieno.
Erano 15 colpi, però gli indigeni, rimasti, erano almeno una trentina.
Iniziare a sparare avrebbe, allora, decretato la sua fine certa.
Il poliziotto sapeva che, in quelle condizioni avrebbe, forse, abbattuto sei o sette degli assassini.
Sapeva, però, al contempo, che gli altri assassini non sarebbero fuggiti via; lo aveva già constatato in precedenza.
Gli altri della tribù lo avrebbero massacrato, ed ora lui aveva paura.
Fernando sentiva di non riuscire più a compiere il benché minimo movimento ed ad articolare alcun pensiero che fosse coerente.
Il poliziotto sentiva solo un incessante tremolio in tutti i suoi arti, la vista gli si stava annebbiando… sentiva che stava per cedere.
La capo tribù riprese a parlare: “L’homme blanc va s’èteindre.
Le monde retour…”.
La donna si bloccò.
Era comparsa un’ombra alle sue spalle.
Dal buio qualcosa si era materializzato dietro di lei e l’aveva afferrata.
Una freccia penetrò il collo della capo tribù, mentre costei, alzando gli occhi al cielo diede un urlo spaventoso.
Quando l’ombra, ebbe compiuto lo sgozzamento, lasciò cadere, esanime, il corpo della capo tribù; qualcuno degli invitati riconobbe la figura di Rino Morselli!
Il giovane, seppur vistosamente ferito e sanguinante, lasciò cadere anche la freccia, sputò con sdegno e disgusto sul cadavere della indigena e, dopo aver barcollato, crollò anch’egli a terra.
“Madame!!!Madaaamme!!Madaaaaammmmeee!!!!!!!!!”
Le grida di terrore e di sgomento degli indigeni furono isteriche e schizofreniche; pareva quasi che fosse stata recisa una parte del corpo ad ognuno di essi.
Le torce e gli archi caddero a terra.
Gli aguzzini parevano in preda al panico più insano e terrificante.
Fernando trovò, allora, il coraggio e cominciò a fare fuoco.
Due indigeni, un ragazzo ed una ragazza, dopo circa sei colpi esplosi, caddero a terra feriti.
Gli altri, quasi, non se ne accorsero.
Gli indigeni continuavano a fissare il corpo senza vita della Madame.
Cominciarono, incredibilmente, gli aguzzini, a piangere disperati ed a urlare come forsennati.
Fino a quando, gli ulteriori spari di Fernando non li fecero fuggire via.
Tutti gli indigeni uscirono di corsa dal perimetro della villa, continuando a guardare ed a gridare verso il cadavere della loro capo tribù.
Fernando raggiunse gli altri invitati.
Jonathan, tenendo ancora stretta a sé Valeria, chiese a tutti di allontanarsi dalla villa, prima che le molotov, all’interno, esplodessero.
Dopo tre quarti d’ora, giunsero i vigili del fuoco, chiamati dai proprietari della struttura, a loro volta allertati, a distanza, dal sistema di allarme della villa.
Quando giunse l’alba, l’incendio di Villa Claudia era domato, ma quei luoghi brulicavano di forze dell’ordine e di operatori sanitari.
Le indagini che seguirono, dopo quella che venne definita, da giornali e tv, come la “Strage della Villa”; portarono all’arresto dei proprietari della struttura per aver favorito la latitanza di Mirko Gallucci.
La Madame venne individuata essere come la professoressa Assira Calcati, docente di storia al Liceo Artistico “Salvador Dalì” del vicino Comune di Pignone.
Gli indigeni erano tutti suoi studenti.
Quelli, di loro, rimasti in vita furono internati in strutture sanitarie per la cura delle malattie mentali.
Erano stati tutti plagiati, condizionati e soggiogati, in maniera irreversibile dalle convinzioni antropologiche della loro professoressa.
Secondo la quale, tutti i popoli non europei, vivevano rispettando e tutelando l’ecosistema che li ospitava.
Tale equilibrio antropologico ed ecologico, sempre secondo la docente, era stato violato dalle invasioni dell’uomo bianco.
Il quale aveva, talvolta, quasi sterminato, come nel caso degli Indiani d’America o degli indigeni della Savana ed a volte estinto, come nel caso di Maya, Incas ed Aztechi; tali popolazioni.
Dopo questi immani scempi, poi, gli europei, sempre secondo le tesi della professoressa, erano passati allo sfruttamento ed al depauperamento irreversibile delle risorse naturali di tali paradisi incontaminati.
Per Assira Calcati, l’uomo bianco doveva risarcire quei popoli e ripristinare i loro habitat.
Per tale ragione, l’insegnante, aveva plasmato le menti dei suoi studenti e li aveva forgiati come uomini e donne dei popoli antichi.
Coloro i quali si riebbero dal sortilegio della loro incantatrice, narrarono, nei giorni a venire, di esperienze bellissime vissute tra la natura, quasi, come un gioco ed una scoperta.
Correre nei boschi, accendere il fuoco, cantare le antiche nenie dei popoli perduti e dimenticati, abbigliarsi e dipingersi come loro; tutto riportava l’animo degli studenti ad una dimensione arcaica e primigenia.
Era la nascita di una nuova innocenza.
Tutto in quella esperienza era puro e sincero, era come una catarsi.
Far riaffiorare, dal più recondito dei propri cromosomi, le reminiscenze sopite trasmesse dalle vite e dai ricordi degli antichi avi; era plasmante ed avvolgente.
Rivivere le immagini e ricordi, remoti e lontani, vissuti da genti che erano tutt’uno con la natura e con le sue leggi; era, al contempo, destrutturante e ricostituente.
Tali pratiche ridestarono e fecero riemergere l’anima più vera e sincera di quei giovani, riportandoli ad un passato di libertà assoluta.
Tutto fu bellissimo e coinvolgente, e nulla pareva sbagliato.
Anche il successivo uccidere, per doversi nutrire, era una forma di rispetto per la natura stessa.
Non sopprimere animali per un insano piacere o per una vacua vanità; si prendeva dalla natura solo ciò che era giusto e necessario.
Giusto e necessario divennero, col tempo, i soli numi tutelari e le uniche divinità che accompagnavano quei giovani, nelle lunghe gite di ricerca e di studio tra i boschi.
La Madame sapeva ciò che era giusto, lei conosceva ciò che era necessario.
Lei disse cosa andava fatto, perché giusto e perché necessario.
I ragazzi lo fecero.
La scelta delle prede, da offrire in sacrificio sull’altare della loro causa ecologista; poi, era stata compiuta osservando i continui spostamenti a Villa Claudia.
Luogo, questo, limitrofo alle cavità, agli anfratti ed ai campi dove la tribù, sovente, si addestrava e soggiornava per il compimento dei propri riti e delle proprie celebrazioni ancestrali ed ataviche.

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l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

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