Author

newleggo

Browsing

LeggoScrivo è uno strumento di cultura che attraverso la narrazione collettiva e l’arte dello storytelling racconta un luogo, un territorio, un’opera d’arte, una tradizione culinaria e un prodotto locale da diversi punti di vista e angolazioni, con l’obiettivo di conferirgli valore. Uno strumento di scambio delle conoscenze al servizio di turisti e viaggiatori affamati di bellezza, ma anche un contenitore virtuale per mete turistiche consolidate e soprattutto per quelle che possiamo definire mete turistiche minori, solo perché spesso sconosciute e quindi fuori dai circuiti tradizionali.

Il progetto nasce dall’esigenza di valorizzare il cosiddetto turismo esperienziale, condividere i nostri viaggi e di creare una guida turistica alternativa, o meglio una vera e propria antologia di racconti, grazie ai quali avremo la possibilità di scoprire e riscoprire un luogo in infiniti modi diversi.

Il mondo di LeggoScrivo raccoglie altri mondi, quelli di chi ama scrivere, raccontare, leggere e di chi non può fare a meno di viaggiare, animato dalla voglia di esplorare nuove destinazioni che se raccontate con gli occhi e il cuore giusto diventano territori degni di essere visti e visitati.

Sarete voi, i nostri social reporter, a svelare una meta, a darle concretezza con parole e scatti, a farne conoscere la storia, le curiosità, le sfumature e perché no le complessità.

Come diventare un Social Reporter e far parte della redazione?

Tutti possono chiedere di partecipare e far parte della community dedicata alla scrittura e al viaggio. È necessario compilare il form nella pagina dedicata per inviarci un racconto o un vostro reportage fotografico accompagnato da una breve descrizione scritta.
Questa avventura sta per iniziare, noi abbiamo lanciato la sfida, adesso ci aspettiamo colpi di scena e sorprese letterarie, exploit fotografici e storyboard disegnati con la fantasia.

Potete trovarci anche sui social: Facebook e Instagram

A Daniel Defoe dobbiamo la nascita del romanzo moderno; il suo nome rimarrà pertanto scolpito fino a che esisterà l’uomo.

Sebbene vi siano dei precedenti anche illustri, in primis il Don Chisciotte di Cervantes, egli fu in effetti il primo ad utilizzare questa nuova forma letteraria in modo sistematico. Lo fece con Robinson Crusoe, altro nome sacro nel tempio della letteratura.

Celebrato come iniziatore del genere e acuto scrittore, che sia stato anche un furbo matricolato non è altrettanto noto.

Daniel Defoe nella sua vita fu molte cose: imprenditore (fabbricante di mattoni), commerciante (calze e articoli di lana poi tabacco e vino), speculatore, agente segreto al servizio del governo, giornalista.

Mise presto in atto la sua scaltrezza, tanto per cominciare modificando il suo cognome, che era Foe, aggiungendovi la particella nobiliare e trasformandosi così in Daniel Defoe. Voleva passare per nobile, anche se suo padre era iscritto alla corporazione dei macellai e di mestiere faceva il mercante di candele.

Il nuovo cognome poteva aprirgli le molte porte a cui bussava per ottenere credito e prestiti in denaro per le sue mille attività. L’unico scopo che ebbe nella vita infatti fu quello di fare soldi, nessun altro.

Per raggiungerlo non esitò a prendersi molti rischi e a mischiarsi anche con la politica, mettendosi a volte al servizio dei progressisti (i Whigs) a volte al servizio dei conservatori (i Tories). I rischi gli valsero la prigione per debiti, i traffici con la politica la gogna pubblica.

Ma aveva talento, questo è innegabile, e non era mai a corto di idee.

Nel 1704, quando in Inghilterra scoppiò l’interesse per la lettura dei giornali, fondò The Review, La Rivista, e andò avanti per nove anni. La scriveva praticamente da solo.

Si rese conto che per ottenere l’attenzione di un vasto pubblico, e di conseguenza il suo denaro, non bastava pubblicare solo notizie politiche od economiche  ma occorreva trattare argomenti più leggeri, tipo cultura, gossip e novità letterarie. Aggiunse così anche la rubrica di cronaca mondana e quella delle lettere dei lettori; fu il primo anche in questo.

Fiutava il vento ed era sempre pronto a cogliere nuove occasioni di guadagno.

Per lo stesso motivo, sempre i soldi, volle scrivere un libro.

Non sentì alcuna vocazione letteraria e del resto sarebbe stata alquanto tardiva dal momento che prese quella decisione alla bella età di cinquantotto anni. Ma i libri, come i giornali, erano la moda del momento e quindi un affare redditizio, a patto di centrare l’argomento.

Come tutti gli inglesi anche lui aveva letto la storia del marinaio scozzese Alexander Selkirk, sopravvissuto miracolosamente per quattro anni su un’isola disabitata al largo del Cile, e ne era rimasto colpito. Per questo lo volle incontrare di persona e si fece raccontare tutti i dettagli della storia.

Poi si presentò all’editore Taylor e con lui concordò persino il numero di pagine del libro che aveva in mente di scrivere.

Infine si mise all’opera. Il titolo? La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe.

Allinea poi una serie di furbate degne di lui. Finge che si tratti di una storia vera, perché è quello che reclama il pubblico, e sul frontespizio non stampa il suo nome ma firma solo la prefazione, facendo credere che il libro sia opera dello stesso Robinson, un uomo comune che, fatto ritorno a casa, scrive e poi fa pubblicare le sue memorie. Anticipa nella prefazione: “Se mai furono degne di pubblicazione per il mondo le avventure di un uomo comune, e certamente accettabili una volta pubblicate, il relatore della presente storia non dubita che questo sia il caso. Le meraviglie della vita di quest’uomo superano ogni altro caso che si conosca, la vita di un solo uomo difficilmente potendo accogliere maggiore varietà di eventi”. Per ultimo inserisce alla fine del libro dei rimandi a quello che sarebbe stato un seguito. Come nei film di Hollywood, per dire quanto avanti fosse il nostro amico.

Il libro esce il 17 aprile 1719 ed ha un successo strabiliante; in pochi mesi si susseguono quattro edizioni. Nell’agosto dello stesso anno Defoe pubblica Le ulteriori avventure di Robinson Crusoe e nell’anno seguente Serie riflessioni durante la vita e le sorprendenti avventure di Robinson Crusoe.

Nonostante tutto, Daniel Defoe non riuscì mai a raggiungere lo scopo della sua vita: morì nei pressi di Londra, all’età di 71 anni, solo e pressochè in miseria.

Teodoro Lorenzo

Mi aveva avvertito Steno, saldando un fusibile alla scheda, Due ore in auto sono una mazzata, eppure non lo capii prima di aver visto nell’oblò aeropiste identiche, qualche zigzag di fiume e ciuffi di bosco tra le reti delle città, l’oceano annoiato, la scatola di nuvole che chiudeva a stento l’alba e da lì a poco la ruvida costa di nord-est, il riverbero tedioso nella zona dei laghi, i campi di grano e mais sdraiati sul Nebraska, traboccanti e sterminati, splendenti d’ambra come il sole che si abbassava lento sulla statale, contro il senso di marcia, davanti ai nostri occhi arrossati dal fuso. Ogni tanto si scorgeva la sagoma di una cascina o il cartellone pubblicitario di un avvocato, a spezzare il piattume dell’asfalto, ma il resto ormai pareva tutto rettilineo fino a Kearney.

Il mio cellulare era puntato sulla mappa, il suo quasi scarico, di conseguenza Steno aveva chiesto di mettere canzoni ritmate per tenerlo sveglio. Gli avrei dato volentieri il cambio al volante, una chicca guidare negli States, ma sfortuna volle che la mia patente scadesse proprio al nostro atterraggio e avrei ricevuto la nuova tessera solo una volta tornato a Verona. Presi sul serio il mio ruolo di DJ, a pensarci forse per farmi perdonare, oltre che per mutua incolumità. Pescavo brani dance dalle onde FM e rigettavo le ballate non appena l’autista accennava sonnolenza. Testa inclinata in avanti: cambiavo stazione. Occhi socchiusi: altra canzone. L’unico che riuscimmo ad ascoltare per intero fu un pezzo di George Strait, grazie a una videochiamata di Steno a moglie e figli. Io a Giorgia giusto un breve messaggio, non era il caso di sentirsi dopo il litigio del weekend e quel breve viaggio ci sradicava dalla routine al momento opportuno. Stare un po’ schisci, a distanza di sicurezza, sembrava quanto di meglio.

Suonammo al campanello del cliente la mattina successiva, con un lieve ritardo dovuto alle sveglie rimandate e due facce da zombie. Nel vetro della porta la receptionist veniva ad aprirci e di riflesso, sovrapposta, la bandiera americana sventolava tra i pick-up del parcheggio aziendale. Lynette ci accolse, riccioli biondi e un bustone di caramelle assortite, domandò se in Italia facesse più o meno lo stesso tempo, poi chiamò Karen alla cornetta e chiese a bruciapelo se avessi mai visto nascere un vitellino, mimando con le grosse braccia il gesto di tirare. Steno si era girato per fatti suoi, la testa nello zaino a frugare qualcosa. Io esitai in un finto colpetto di tosse, pensando di aver capito male, tra l’altro piuttosto confuso perché la donna sorrideva tutte lentiggini e mi avrebbe invitato volentieri al ranch di famiglia, se ero un tipo dallo stomaco forte. Risposi che sarebbe stato favoloso, un’esperienza del genere non volevo perderla, ma il soggiorno durava appena due giorni e di certo Karen ci avrebbe portati a cena col boss entrambe le volte, come infatti fece. Non appena si fece viva, la sua sagoma florida riempì un angolo della hall, Morning gentlemen, sorriso e strette di mano, raggiante per il nostro arrivo. La vedevo per la prima volta, videochiamate a parte, a dispetto di anni di lavoro insieme. Indossava berretto e occhiali protettivi, con giacca rifrangente su camicia a quadrettoni e un paio di jeans nei quali sarei entrato due volte e una spanna. Il suo team arrancava col servizio post-vendita, noi lenti coi ricambi a causa delle dogane intasate, cominciavano a ricevere lamentele, alcuni clienti chiedevano rimborsi, per questo ci avevano pregato di formarli con una formazione tecnica sui prodotti. Dunque Steno giustificava la sua presenza da uomo skillato in materia, mentre a me spettava agevolare il dialogo in lingua.

Il primo giorno pareva andato ok, soddisfatti da ambo le parti, salvo alcune diffidenze iniziali e la parentesi del cazziatone di Karen alla povera April, stagista imbarazzata, per aver dimenticato il proiettore. Nella mattina del secondo giorno erano state discusse tutte le slide della presentazione, in anticipo sulla tabella di marcia, complice una latente svogliatezza dei sei tecnici da formare, perciò Steno approfittava del fuso utile per una chiamata alla moglie e io facevo quattro chiacchere con Lynette, la quale stava allineando sul carrello i sacchetti del pranzo: burger di manzo e porzione di coleslaw. La sera precedente era nato un vitellino in fattoria e le brillavano gli occhi, Lemme show you, il suo pollice rapido sullo smartphone per avviare il video della mucca sdraiata nella stalla, a collo teso e un ago di biada incastrato tra i denti, col ventre stremato di muggiti profondi e il budello trasparente del piccolo a fare lento capolino attraverso il velo di sangue, sforzo su sforzo, prima la testina e poi le zampe, unite a coppie, fino al prolasso liberatorio della madre e gli incerti passetti del neonato verso le gonfie mammelle. Il miracolo del parto. Quando Lynette lasciò la stanza, nella sala riunioni c’ero solo io e i cappellini degli operai sulle sedie. Presi panino e salse da un sacchetto, stappai una soda dal minifrigo, e masticando ebbi la grata sensazione di un tepore inatteso.

Alla fine del training, Steno non volle aspettare il mio incontro riassuntivo con Karen ed era rientrato in hotel per smaltire del sonno in sospeso. Tornai a piedi costeggiando vagoni abbandonati su un binario morto, lungo il quale la mia ombra sarebbe presto giunta in paese. Intorno a me solo basse costruzioni in mattone e campi arsi. Pali elettrici, pali della luce e campi arsi. Strumenti di irrigazione, trattori e campi arsi. Da quelle parti, il terriccio era sottile e si spargeva come una polvere sulle strade e sulle cose, quando il vento ne aveva voglia. E il suolo famoso per essere ricchissimo, da poter sentire le radici del mais crescere scrocchiando. Almeno così mi aveva detto un anziano in hotel. Non era la stagione giusta, mancava del tempo, ma provavo ogni tot di passi, aguzzando le orecchie stordite dal silenzio. La strada era semi-deserta, ancora tutti a lavoro o in casa al fresco. Mi fermai davanti a un negozietto e ascoltai immobile, oltre l’insegna scolorita. Un fremito pareva davvero di sentirlo, sotto la gomma delle scarpe, come un coro di sussulti dalla terra.

Al messicano quella sera cenammo ospiti del boss, tenuta casual e bottoni slacciati, elettrico per un grosso affare appena andato in porto e anche per questo loquace al contrario del solito, persino spiritoso, sebbene il suo assurdo accento scozzese misto a una sorta di erre moscia diventasse indecifrabile parlando con le frijoles in bocca. Raccontò di quella volta in cui la moglie si ubriacò in salotto con un’amica, cocktail assurdo di bourbon e whiskey, fatto sta che trovò le signore mezze nude in salotto a sghignazzare sguaiate, i cubetti di ghiaccio contro il bordo dei bicchieri, allora buttò lì un giochetto di parole che non colsi, figuriamoci Steno occhi fissi, Can you believe that crap, ma visto che il boss rideva come un idiota e Karen gli andava appresso col boccone affacciato nella gola, ridemmo come scimmioni anche noi due. Frattanto, alle loro spalle, la TV mostrava la sagoma del Nebraska marchiata da un’allerta incendi preoccupante, a partire dalle nove del mattino seguente. Se ci andava bene, per quell’ora saremmo già arrivati all’aeroporto e avrei provato a chiamare la Giò. In un paio di giorni l’avrei rivista e avrei finalmente pagato dazio.

Autore: Apolae

In realtà, ricordo alla perfezione il giorno in cui conobbi Elvira. Io e due miei amici molto stretti ne parlavamo da tempo, sembrava quasi trasudasse un certo odore di “novità”, nell’aria. Stavo mettendo i soldi da parte da diverso tempo e decisi che il fine settimana appresso, saremmo andati tutti e tre insieme a vederla. Inizialmente ero molto indeciso sul sesso e sulla razza, avevo già avuto un maschio e mi aveva procurato, oltre a immense gioie e indiscussi momenti di spensieratezza, come solo un cane leale al proprio padrone riesce a fare, anche parecchie beghe non troppo semplici da riuscir a risolvere. Perciò, viste le antecedenti esperienze, optai per una cucciolina.

Ero molto indecisa sulla razza poiché il mio vecchio labrador non sarebbe mai potuto venir rimpiazzato, né dalla medesima razza né da un’altra. Non avevo bisogno di un cane, in realtà, e fui molto razionale anche su tale decisione. E pur non sentendone il bisogno, seppur il mio cervello continuasse a negarlo, il mio cuore carpiva la necessità di vivere a stretto contatto con un cane. Diedi retta al cuore, come molteplici volte fatto in vita mia, spesso errando. Chiesi consiglio anche ai miei amici, i quali magari da esterni sarebbero riusciti a dare un giudizio un po’ meno offuscato sulla razza di cane che più mi si sarebbe potuta addire. Dopo miliardi di battute, di perdite di tempo e farneticamenti vari sul da farsi, consacrammo tutti e tre a pieni voti per un cane da guardia. L’idea mi balenava in testa da un po’, ad esser sincero, ma avevo sempre fatto in modo di farla rimbalzare il più lontano possibile. I cani da guardia sono i cani più tosti da gestire, in più non avevo lo spazio per poter tenere in casa un Dobberman o un Dogo Argentino. Venne fuori questa unica pecca, che fortunatamente, Rikkardino, uno dei due amici stretti li presenti, scacciò via con due parole:” PASTORE BELGA”. Rimasi un attimo interdetto, a esser sincero; era una razza che allora conoscevo poco, seppur la trovassi molto affascinante. Il Malinois nasce come pastore, ma col tempo è diventato un cane polivalente, che sia per la difesa, la guardia, il riporto e soprattutto come arma per i carabinieri cinofili. È un cane molto fedele al padrone, attaccato quasi visceralmente ad egli. Tenace di carattere, abile ed agile fisicamente. “Praticamente porti fuori una Glock al guinzaglio”, fu il primo pensiero di tutti.

Vi erano altri fattori da tenere in considerazione, quali lo spazio e il tempo necessario da poter dedicare al cane. Un cane molto attivo ed energico, il quale ha bisogno di scaricarsi in continuazione.

Altro fattore da dover tenere in considerazione.

Dopo brevi parentesi sempre per decidere il da farsi, optammo per il beccarsi al circolo sabato al tocco, che qui a Firenze sono le una del pomeriggio. L’allevamento era nel Mugello, non ricordo quale fosse di preciso il paese ma se non erro eravamo alla Ronta. Era una giornata di metá maggio a dir poco mozzafiato, col sole che ci puntava il viso e un venticello fresco e leggiadro che ci accarezzava la pelle. Il viaggio in macchina tra musica, canne e le solite cazzate voló come il vento. Lavoravo tutti i giorni, e solo ed esclusivamente per godermi quei piccoli momenti di libertà. In cui ti sentivi in grado di cambiare il mondo, anche da un piccolo quartierino grigio di periferia. Arrivati la, vennero i proprietari dell’allevamento a presentarsi ed a farci entrare nel posto, il quale, ci fece rimanere tutti e tre a bocca spalancata. L’allevamento era una distesa di verde immensa, in cui ogni cane correva libero come fosse selvatico. Appena arrivammo circa 5 cani ci saltarono addosso e ci finirono dalle leccate, cosa che fece stringere il cuore di tutti e tre. Loro furono più “duri”, affermando che l’unico ad andare in fibrillazione fossi stato io. Mai cazzata fu più grossa, specie quando li vidi sorridere a 32 denti accarezzando qualsiasi bestiolina passasse per i loro dintorni. Ci presentarono la nuova cucciolata, e fu lì che la vidi.

Era la cucciola più bella e più taciturna.

Fu la prima a venirmi incontro, e con un rantolio secco, quasi a mo di monito, pareva fosse stata ella a scegliermi. La presi in collo e il cuore cominciò a pompare leggermente più forte, i palmi delle mani si fecero più scivolosi, il respiro leggermente più affannato. La cucciola mi guardò e mi riempì di baci per 5 minuti abbondanti. I miei amici avevano già capito, proprio da lì nacque la storia di “Elvira”.

Paolino, l’altro mio amico presente, si avvicinò a me ed alla canina che tenevo in collo, e fece per darmi una pacchina.

La canina, d’istinto, si girò verso di lui e comincio a ringhiare, per poi abbaiare con tutta la forza che teneva in corpo.

Paolino mi guardò, stupito, ed esclamò: “L’unico nome che puoi dare a questo cane è Elvira!”.

Mi fece sorridere quell’espressione, sbloccandomi un ricordo.

Essendo sia io che Paolino fissati sin da giovanissimi con Scarface e con i gansta movie, avevo deciso di appendere in camera mia un poster, quale pensavo fosse a caratteri cubitali quando lo ordinai ma che arrivò molto più piccolo di quanto immaginato, raffigurante Tony Montana con il sigaro in bocca. E di fianco, con caratteri altrettanto giganteschi, la scritta “SCARFACE”. Inutile dire quanto poi oggetto di scherno fu quel cazzo di poster. Ci ridevamo spesso su, era un aneddoto divertente. Elvira è il nome della donna di Tony Montana nel film, interpreta da Michelle Pfifer, bella come il sole. L’associazione per Paolino, dopo il gesto del cane, fu rapida e semplice. Mi convinse seduta stante quell’epiteto, che da soprannome subito divenne nome. Non ero stato io a scegliere il cane, bensì la bestia a scegliere me. La posai in braccio prima a Rikkardino e poi a Paolino, i quali divennero subito ufficialmente gli “zii” di Elvira. La questione mi fece sorridere, e così tutti e 4 salimmo in macchina per tornare verso casa. Mia madre quando la vide mi rincorse per tutta casa, dato che come al solito la mia testardaggine era riuscita a contraddistinguersi. Più volte mi aveva accennato su quanto fosse piccola la casa, su quanto tempo e spazio ci sarebbe voluto per un altro cane, specie uno da guardia. Ed io, come al solito, preferii fare di testa mia. Dopo la confusione iniziale, mia madre prese in braccio la canina e cominciò a coccolarla. Le mancava il nostro vecchio cane, riuscivo a carpirlo, spesso la vedevo triste. E dopo il tentennamento iniziale mi strinse forte tra le sue braccia, quasi le avessi fatto un regalo. La mamma è sempre la mamma, e sono poche le cose che riescono a soddisfarmi come regalarle un sorriso. Mia madre è fatta così, tanto impulsiva quanto buona. E credere che sia ingenua è un errore madornale. Oltre a sottovalutarla, perdi anche quella parte meravigliosa che si cela sotto quella maschera. Quello dell’aiuto verso il prossimo. Ha il vizio di dire sempre di sì, ma capisce sempre quando una persona se ne sta approfittando. Mia mamma per me è un po’ come un supereroe, seppur io riesca molto bene a non darlo a vedere. Mi ha sempre capito con uno sguardo. Ha sempre capito tutti con uno sguardo.

È una grande lavoratrice e la persona più onesta che abbia mai conosciuto. Peccato che non abbia preso da lei tale caratteristica, mia madre per me è un mito in questo. Furono anche questi i pensieri che mi attraversarono l’encefalo, in quell’istante. Una scena unica,sarò sincero. La canina ricambiava ogni coccola o carezza di mia madre, che sembrava già star iniziando a farla obbedire. Dopo un paio d’ore decisi di portare la new entry a fare un paio di bisogni e nel mentre arrivò anche Emma, la mia ragazzina di allora. Vorrei poter fare una descrizione dettagliata, ma non mi viene molto semplice parlare di ella. È finita malino e non passa giorno in cui io non pensi a lei. Ora sta con un altro ragazzo, il quale tra l’altro credo sia il suo ex. Ci sono molte che mi ha nascosto, ma anche tante che io ho nascosto a lei. Ma non solo a lei, forse a tutti. Sono molto introverso e odio narrare qualsiasi cosa, specie a una persona del sesso opposto, che potrebbe compromettermi. Ci sono cose di me, come tutti, che sa solo me stesso. Chi dice che non ha niente da nascondere mente, ed anche spudoratamente. Credo di essere tra questi anche io. Sbagliai, sbagliai tante volte con lei. A non dirle la verità, ma anche a darla per scontata forse. In fondo io non dipendevo da lei, ma da una sostanza, che sarebbe il THC. Specie quando la frequentavo fu un periodino di straordinario abuso. Mi rendevo conto sempre di non litigare con lei, ma con me stesso. In fondo tutti i suoi dubbi erano leciti, assai meno comprensibile il mio perenne e continuo sorvolare il problema, perché infondo “c’ho tutte le canne che voglio chi m’ammazza”. Questo spartito suonava in testa puntuale come uno jaeger le coutre, ogni volta che sorgeva fuori qualche questione. Io, come se annuissi, lei che invece cercava di toccare i tasti giusti per farmi innervosire. Finiva sempre con qualche lacrima o con qualche urlo. Non mi piace trattare male le persone, ed odio toccare tasti dolenti. Non sono nessuno io per continuare ad infierire sul latte già versato. Non tutti la pensano così, ed io, piuttosto che controbattere ad ogni “tossico di merda “(per due canne poi, roba da pazzi) continuavo a fare ciò che la infastidiva, ma senza ferirla ulteriormente. Tante volte cercai di spiegarle, vanamente, che tutto dipendeva dai modi. Avrei fatto un tentativo volentieri, se lei magari avesse chiesto di calmarmi un attimino. Apro una piccola parentesi, fumava anch’essa, ma molto meno di me e due tiri tanto per farli. Tante volte ho avuto l’opportunità per scagliarle contro questo piccolo paradosso, ma ho preferito sempre tacere. Lo sapeva bene anche lei che la predica proveniva da un pulpito assurdo, ma si ostinava egualmente a provocarmi. Bene o male riuscì quasi sempre a controllare le mie emozioni, evitando di farfugliare racconti scomodi. Credo lei fosse, e ancora sia, anche se mi auguro di no, piena di traumi. Cresciuta in una famiglia benestante, quasi abbiente, ed adottata a 5 anni dalla Cambogia. Credo ricordi dei suoi veri genitori, ho sempre sorvolato sulla questione. Non mi sono mai permesso.

È bella come il sole. Alta ma non troppo, scurina di pelle, gli occhi quasi a mandorla di color nocciola, capelli lunghi e un sorrisone niveo sempre stampato sulla faccia. Lei camminava sempre dritta e composta, io invece sempre imbronciato a testa bassa. Era buffa perché provava a mettersi i tacchi pensando di riuscire ad essere più alta di me, ma perennemente rimaneva più bassa. E quando succedeva sbuffava un paio di minuti, canticchiando la consueta filastrocca:” non è giusto”. Dopodiché si fermava, mi mirava negli occhi un paio di istanti ed esclamava, a gran voce:” ma lo sai che mamma Barbara ti ha fatto proprio bene si?”. Poi mi sorrideva e mi scoccava un bacino timido, quasi a mo di carezza. E quando ciò succedeva, sentivo il mondo scomparire piano piano scomparire intorno a me. Rimanevo io con lei, e quel mattone sulla bocca dello stomaco evaporava in un attimo. Non era mai banale. Ricordo bene una sera, la quale rimase a dormire da me; la mattina io dovevo andare a scuola, lei, invece, pur avendola già finita, prendeva egualmente il bus insieme a me, con meta   la stessa direzione, cioè il centro. Io andavo a scuola lì vicino, lei abitava lì, poco distante. Da casa mia al centro in bus sarà una mezz’oretta abbondante, forse anche di più. Ci prendemmo un po’ in giro sul fatto del biglietto, dato che io salivo sempre rigorosamente privo di ciò, ed essa al contrario sempre munita. Le piaceva rispettare le regole, diceva. A me piaceva infrangerle, come tanti. La rassicurai sul fatto che il controllore non si fosse mai visto, e la convinsi a non perdere tempo per andare al tabaccaio, piccola sosta che probabilmente ci avrebbe fatto perdere anche il bus. Eravamo di buon umore, poi aveva voluto fare due tiri anche lei, di prima mattina alle 7, cosicché l’euforia si trovasse alle stelle. Arrivati in centro, magicamente, salì il controllore due fermati prima della nostra discesa. Cambiai viso, seppur mi scappasse da ridere. Non avevo i soldi né per pagare la mia multa né la sua, e mi sentii quasi congelato, intrappolato in una sensazione di angoscia assai intensa. Di me ne sarebbe importato il giusto, non l’avrei pagata quella multa, o avrei trovato i soldi per andarla a pagare direttamente in comune. Mi dispiaceva per lei, l’avevo convinta io, lei non voleva e le ho fatto anche prendere la multa.  Come Aprii bocca per chiederle scusa, mi baciò a stampo e tirò fuori il portafoglio. Pagò prima la mia multa e poi la sua. Ad essere sincero, non mi era mai capitato prima, e non ricapitò dopo. E non parlo di lei, ma delle altre persone. Non che fosse ordinaria come situazione, ma mentirei se dicessi che vi sono stati occasioni simili in cui ciò accadde. Non rimasi colpito, direi pietrificato. Mi spiazzò, e quando scendemmo mi sorrise. Mi sciolsi come di consueto ma rimasi razionale, volevo ascoltarla. Disse che la scena le aveva fatto ridere e che anzi, era quasi dispiaciuta di averla pagata al colpo mio, non voleva mettermi a disagio, sapeva che non avevo entrate fisse e che i soldi in quel momento non erano una costante, in casa mia. A me scappò quasi da piangere, e l’abbracciai con tutta la forza che avevo in corpo, tanto che dopo 5 secondi sentii berciare:” Piano così mi fai male”. Mi fece commuovere pensare quanto fu naturale quel gesto per lei, senza pensarci mezzo secondo. Tale azione rimase impressa nel mio cuore, e non solo. Volle dire tante anche al mio cervello. Realizzai del bene che mi voleva quella figliola, ma anche che forse non ero in grado di riceverlo. Quel giorno decisi di rimanere con lei, i suoi lavoravano tutto il giorno e mi diceva spesso che da sola si sentiva triste. Non lo feci per ricambiare, lo feci perché mi andava di stare con lei veramente. Della scuola me ne fregava anche il giusto e l’onesto, per un giorno non sarebbe morto nessuno. Rimanemmo insieme tutto il giorno, a guardare film, a mangiare a fumare e a fare l’amore. Ogni volta era bello come la prima, perché lo facevamo insieme. Era come condividere qualcosa, due corpi che si intrecciavano alla perfezione. Io l’ho amata con tutto l’amore che ho avuto in corpo, che forse non era abbastanza. Sono tanti i rimpianti, inesistenti i rimorsi. È tutto ció che non ho potuto fare che mi rimane appigliato in gola, come un amo. Di quanto non ho voluto insistere quando se n’è andata, di quanto la mia concentrazione sul lavoro fosse diventata a tratti subumana, di quanto manca anche ad Elvira.

Si conobbero poco dopo che la presi, e legarono subito. Emma adorava Elvira e viceversa, tant’è che quando eravamo insieme, facevo tenere il guinzaglio a lei. Con me era sempre molto agitata, tranne la sera in cui percepiva la mia stanchezza ed evitava di tirare. Con Emma invece al contrario, non tirava mai in nessuna circostanza. Essendo un cane molto affine all’addestramento, seguiva al mettere tutto ciò che io, ma soltanto io, le dicevo. Con Emma stessa identica cosa, ma solo con essa. Non so cosa sentisse il cane, non so quale sorta di percezione arrivasse ad Elvira. Forse il legame che ci univa, o forse sentiva di potersi fidare. Quando la portavamo al circolo Rikka e Paolino saltavano come grilli, era diventata una sorta di mascotte per il quartiere. E spesso e volentieri i miei amici mi facevano notare quanto il cane fosse in sintonia anche con Emma, una cosa troppo palese per non essere notata. Dicevo sempre loro che era meglio così, l’avrebbe difesa da tutto. Difatti bastava avvicinarsi più del dovuto ad Emma che Elvira iniziava ad abbaiare seduta e composta, a mo di sfinge. Bastava un fischio per farla calmare, ma qualora non avesse sentito il fischio, in caso di necessità Elvira ti sarebbe balzata al collo con una stretta formidabile. Emma non c’è più, o meglio non la vediamo più. Io come già detto penso sempre a lei, ed Elvira forse nel profondo, seppur non riesco a leggerlo, anch’essa sente delle mancanze. Di quando io dormivo fino a tardi e c’era Emma a badare a lei. Di quando tornavo tardi da lavoro e lei passava per portarla fuori e stare con lei. Dispiacque anche agli amici, quando finì. Le volevano bene, erano entrati in confidenza. Rikka per alcune questioni le chiedeva anche dei consigli. Per questo mi piace pensare che quando Elvira è di buon umore è perché lo è anche Emma. Fortuna è che la vita va avanti, Elvira cresce, io anche. Di irrisolvibile c’è solo l’aldilà, e finché non sono solo posso continuare a correre. I ricordi rimangono ben incisi sottopelle, e la speranza pure. Mi manca, ma passerà. Io non so chi sono, ma mi vedo sotto di me. Ora posso osare, posso rinascere. Il futuro non è limpido ma so di poterlo colorare in qualche modo. La strada è tutta in salita ma so di poterla attraversare in qualche modo. Sono io che mi do la forza, io che guardo il fondo e risalgo. E più mi vogliono trascinare di nuovo in basso più rimango saldo verso la salita. Una volta arrivati ritoccheremo il fondo e risaliremo, come ogni volta.

Mi piacerebbe farle vedere che resisto, che non mollo un centimetro. Che le difficoltà si moltiplicano e il mio essere perpetuo, persevera nel dimostrarsi un abile quoziente. Ed anche se ti vedo in centomila volti, vedo chiaro e limpido dinnanzi a me. Tu non ci sei ma ti sento. Dentro di me, che mi guidi. Che mi porti a rimirar le stelle, col tuo respiro che ansima su di me. Sento le tue mani, i tuoi capelli ed il tuo odore. E qualora mi trovassi perso, sperduto, di nuovo sull’orlo del lastrico, di nuovo sul filo del rasoio, non temerei alcun male, perché tu sei con me.

𝑀𝑖𝑟𝑐𝑜 𝐵𝑜𝑛𝑐𝑖, 𝐹𝑖𝑟𝑒𝑛𝑧𝑒.

La mia Near Death Experience, o per usare mia lingua, l’esperienza ai confini della morte, non ha previsto la “comparsa” o la “presenza” di alcun dio, non è stato altro che l’intero corso della mia vita fino a quel momento.

Non so quante “aggiunte” e quante “rimozioni” ci fossero in quello che ho vissuto per la seconda volta, ma sembrava tutto molto reale e non ho mai ricevuto testimonianze troppo discordanti con le esperienze ripercorse, il mio coma ha avuto come esperienza ai confini della morte un racconto in accordo con ciò che è stata effettivamente la mia vita, per quanto naturalmente pensieri o riflessioni possono variare nel tempo, la considerazione di alcuni eventi o persone, con l’entrata in gioco di nuovi e diversi punti di vista, anche banalmente una maggiore riflessione e una raggiunta maturità per interpretare al meglio le vicende,

Sta di fatto che la mia near death experience si può riassumere così, entrando più nello specifico:

tutta la storia con la mia prima ragazza l’ho ripercorsa per filo e per segno, “tagliando” le peggiori litigate, poi recuperate sia per ricordi che tramite i miei dispositivi; la storia con la seconda ragazza l’ho rivissuta invece in modo più confuso, ero perfettamente consapevole della nostra separazione, non bene delle dinamiche, ricordavo alcuni momenti, in particolare ricordavo il cinema come luogo protagonista delle nostre uscite, ma temporalmente collocavo tutto sul finire dei miei 17 anni, avevo rimosso dunque non tanto i ricordi veri e proprio, ma più che altro la consapevolezza che tutto ciò che c’era stato dopo era avvenuto nella seconda metà del 2018.

Per quanto riguarda una terza ragazza invece, al mio risveglio subito mi son chiesto dove fosse, prima ancora di domandarmi perché fossi in un ospedale e perché non potessi muovermi, inconsciamente lo sapevo forse. Di lei ricordavo bene o male tutto, anche il nostro primo bacio, più che altro era come se sentissi ancora i suoi denti contro i miei, perché era stato un bacio scadente a livello tecnico, ma un bellissimo momento. Non sapevo assolutamente del nostro primo allontanamento e della nostra separazione finale. Sapevo solo di amarla alla follia, non conoscevo la parte conclusiva di questo racconto perché i miei ricordi effettivi prima del risveglio si interrompono a inizio dicembre 2018, lei era sull’autobus, noi eravamo sull’autobus. Lei diceva canticchiando “le cuffiette”, poi mi sono direttamente risvegliato.

Finisce lì questa esperienza ai confini della morte, perché io volevo tornare da lei, volevo tornare a vivere quel momento, era quella la mia vita. Avevo rimosso i litigi sia con lei che con le altre perché quella non era la mia vita, l’avevo uccisa quella parte di me, volevo solo ritornare dalla mia piccola Ari. Non l’ho mai idealizzata, non ho mai visto in lei qualcosa di “più grande”, lei ERA qualcosa di più grande. Non per sua volontà e forse per puro caso, le tradizioni cristiane della mia famiglia mi portano a pensare non tanto che fosse per me una sorta di angelo, ma che potesse in un certo senso aver contenuto almeno in quella esperienza pre-morte il “ruolo” della Madonna, sì. Proprio di Maria. Dio mi ha dato il dono della scrittura, mi ha reso una persona molto introspettiva, probabilmente anche per questo, per parlare della mia esperienza pre morte, che è più un’esperienza pre vita. Perché mi ha dato la forza di potermi fermare, di poter tornare indietro, avrei potuto continuare a ripercorrere la mia vita e ad arrivare all’inevitabile giorno della mia morte, quel brutto 24 Gennaio 2019. Non lo avrei mai saputo di esser sopravvissuto per del tempo, o quanto meno la mia mente non lo avrebbe saputo in maniera lucida, per me sarebbe finito tutto quel giorno, a prescindere. Invece no, ho deciso di fermarmi a quel giorno, di tornare da Arianna, di tornare PER Arianna, perché aveva bisogno di me, lei era tutto per me, quindi in un certo senso sono tornato perché sentivo che tutti avessero bisogno di me, il mondo intero, cioè il mio mondo. Dio quindi mi ha dato la forza per poter scegliere dove fermarmi, a che punto del racconto.

Tutto questo può avere anche la sua base scientifica o forse meglio psicologica, la depressione ha provocato in me un problema che è poi la base di tutti i miei problemi anche attuali, non tanto l’ansia anticipatoria o una vera e propria mania di controllo, ma un possibile mix diciamo che si traduce in un flusso di pensieri continuo e ingarbugliato, ciò ha causato dei sovraccarichi, che si sono trasformati prima in un episodio dissociativo di personalità e poi in una dissociazione vera e propria durata anche più giorni con conseguente suicidio. Ma il primo episodio dissociativo è stato forse il vero inizio che ha cambiato tutto quanto, perché da lì potrebbe essere nata l’insicurezza o l’ansia che in ogni caso tutto si sarebbe concluso con il mio suicidio, come effettivamente è successo. Presumibilmente in qualche modo la mia mente e il mio spirito hanno cercato un meccanismo di difesa, Demetra pensavo, sbagliando, perché sì la relazione vera è iniziata dopo l’episodio, ma di fatto era una persona che già conoscevo e con cui già mi frequentavo, quindi non è stata lei la mia difesa, ma è stata bensì Arianna, conosciuta davvero dopo l’episodio e i primi veri pensieri e consapevolezza di morte. Passati mesi poi la storia si è ripetuta, di nuovo Serena, con il nostro “patto di sangue” di non rivederci mai più per il bene di tutti, di nuovo Demetra perché già la sentivo e già stavo per tornarci indietro e ancora una volta Arianna che torna nella mia vita, come una fenice che accorre nel momento di estremo bisogno. Quindi per usare termini fantasy Arianna è questa fenice, venuta per salvarmi la vita, come ho di fatto spiegato nella prima parte del racconto. Ha dunque un ruolo quasi angelico.

Con lei i problemi dopo il mio ricovero sono nati per un semplice motivo: la vita che io stavo vivendo era probabilmente la vita che ho vissuto nel coma, la vita che ha vissuto Arianna era quella che possiamo definire la “vita vera”, per questo le incomprensioni, per questo l’impossibilità di proseguire i nostri percorsi insieme, semplicemente perché dopo quanto successo il nostro viaggio è continuato su binari diversi.

Lo so perfettamente quindi che la vita che ho vissuto e che sto continuando a vivere è solo frutto di un qualcosa che è accaduto nella mia mente, vuol dire forse che non è reale?

Quindi sì, Arianna è frutto delle mie scelte, ho scelto io anche inconsapevolmente di farmi salvare da lei, avevo bisogno di lei. Poteva capitare chiunque magari, non lo so, ma in quel momento evidentemente poteva essere solo lei e l’ho scelta io. Ho scelto io di vivere perché ho scelto lei, il mio scudo contro la morte.

Damiano Lollobrigida, Roma

Non so a cosa stessi pensando.

Probabilmente a niente.

Forse alla figa.

O alla caduta del governo B., costantemente in onda alla televisione.

Oppure è molto più plausibile che fossi scoglionato perché quel giorno un altro dei miei racconti o romanzi

era stato rifiutato da un’editrice di 22 anni che non aveva mai realizzato nulla in vita sua.

Succedeva in continuazione. Spedivo i miei lavori dappertutto, ma non riuscivo a capire che cosa volessero.

Se scrivevo a modo mio, non piacevo. Se scrivevo come una gentildonna-cosa che mi riusciva molto bene-

non lo apprezzavano. Forse dovevo mandarli in un altro Paese-o in un altro continente, in Europa.

Magari laggiù mi avrebbero capito. Ma non conoscevo il francese, non sapevo una parola di tedesco o di

svedese, quindi come avremmo fatto a comunicare?

A rendermi ancora più perplesso era come riuscisse uno scrittore a crearsi anche solo un piccolo

pubblico. Ogni volta che prendevo tra le mani qualcosa che il Corriere della sera esaltava, restavo lì impalato

a grattarmi la testa. Pretenzioso….prolisso…monotono…noioso.

Ma quelli erano gli scrittori di cui si sapeva tutto: le lauree che avevano conseguito, l’infanzia trascorsa

a viaggiare per il mondo, i premi vinti e le borse di studio ricevute, i genitori insegnanti oppure artisti

rinomati. Ogni giorno al mio risveglio mi dicevo di lasciar perdere la scrittura, di farla finita con questa

situazione, poi tornavo sui miei passi alla ricerca di nuove umiliazioni…

Ma lasciamo stare…

Stavo per andare al supermarket. Trovo che andare a fare la spesa sia un’attività meravigliosa perché libera

la mente da questioni più importanti come: la scrittura, le bollette e il futuro. Una volta tanto si

rimugina se sia migliore il branzino o la platessa, o se sia meglio comprare il provolone o il formaggio

svizzero, piuttosto che su l’ultima sconfitta, su cosa non funziona in te e il motivo per cui sei sempre

così rabbiosamente insoddisfatto della tua vita.

Ero impaziente di spingere il carrello della spesa per una mezz’ora….

A quel tempo vivevamo in un appartamento ai piani alti vicino al fiume, direttamente dall’altra parte delle

luci baluginanti del cuore di M…

Mio figlio era molto piccolo, aveva solo qualche mese, e dato che l’appartamento era stretto e angusto, mia

moglie era costretta a fargli il bagno nel lavello della cucina. Il posto auto che avevamo affittato nel

seminterrato del palazzo ci costava 250 euro al mese, ma non potevamo rinunciare alla macchina perché di

tanto in tanto sentivamo il bisogno di evadere.

Era una Saab verde-foresta che mia moglie aveva finito di pagare pochi anni prima. Tutto quello che

avevamo, tranne il computer e la chitarra, era in realtà suo. Quando sei un artista-un aspirante

artista, come direbbe qualcuno-che non guadagna, devi scendere a compromessi. Sotto certi aspetti è un

modo di vivere tremendo, ma se vuoi essere disturbato il meno possibile per poter scrivere, o dipingere, o

fare qualsiasi altra cosa, devi imparare ad adeguarti alle circostanze.

Dal momento che non ero né King né Grisham, tentavo sempre di adeguarmi alle circostanze…

Comunque, come ho detto, ero perso nei miei pensieri.

Avviai il motore, accesi la radio, feci retromarcia…e andai a schiantarmi in pieno contro il primo pilone di

cemento. Quando sentii il fracasso del metallo e il vetro che si sbriciolava, mi resi subito conto che si trattava di qualcosa di grave.

E non avevo nemmeno bevuto.

“E questo da dove cazzo spunta fuori?” imprecai.

“Merda!”

Aprii la portiera, timoroso di guardare e, come volevasi dimostrare , c’era un orribile squarcio delle dimensioni di una palla da basket nella parte posteriore della carrozzeria sul lato passeggero.

Bestemmiai nuovamente. E ancora e ancora. Laura stava avendo ogni sorta di problemi al lavoro, le cose erano instabili, i miei guadagni insignificanti, quindi anche un piccolo incidente come questo poteva risultare in una catastrofe.

La vita mi lasciava sempre ben poco margine di errore.

Ero sul punto di sbroccare. Risalii in macchina, rimasi seduto e provai a rifletterci sopra.

Dopo averle distrutto la macchina, non avevo voglia di affrontare mia moglie.

Già Il bimbo la teneva sveglia a tutte le ore, e l’ultima cosa che desideravo era procurarle ulteriori pensieri che le togliessero il sonno.

Beh…dal momento che il motore non era stato toccato, sarei andato a fare la spesa.

Spingere un carrello su e giù per le corsie mi avrebbe dato la possibilità di rilassarmi.

Chissà, forse mi sarebbe venuto in mente qualcosa. Il supermercato si trovava a pochi isolati di distanza.

Era una splendida serata di inizio maggio, il periodo in cui la grande metropoli e i suoi dintorni tornano a essere abitabili dopo un inverno interminabile e deprimente.

Afferrai un carrello, entrai, andai avanti e indietro acchiappando roba un po’ qui e un po’ là, ma il divertimento era sparito.

Riuscivo a malapena a concentrarmi sulla lista che Laura mi aveva dato prima che lasciassi l’appartamento.

Aveva in programma di preparare scaloppine ai funghi e la sua speciale zuppa di salsiccia e porri, ma non riuscivo a pensare ad altro che ai soldi che avrei dovuto sborsare-soldi che non avevo – quando avessi portato a far riparare la macchina in officina.

Iniziai a caricare la mia roba nel bagagliaio sfondato quando notai che avevo compagnia.

Una Mercedes vecchio modello, lunga e zeppa di ammaccature si era infilata nello spazio accanto al mio.

Dentro c’erano un paio di tizi. Quello seduto al volante mi fece un cenno da dietro il finestrino.

E adesso cosa cazzo c’era?

Forse stavo per essere aggredito o arrestato.

Balzarono fuori dalla macchina.

Il guidatore indossava una felpa senza maniche. I suoi bicipiti luccicavano di sudore o vaselina.

Era calvo, ma aveva un urgente bisogno di radersi.

“Oggi non è giornata”disse ridendo sotto i baffi con accento caraibico e indicando con un cenno della testa il retro distrutto dell’auto.

“Puoi dirlo forte”.

“Possiamo darti una mano noi, amico”.

“Davvero?”

Era sorprendente come questi tizi si fossero materializzati dal nulla.

Sembrava che mi stessero leggendo nel pensiero.

“Siamo in grado di riparare la tua macchina, amico. Sai, è il nostro lavoro.

Tua moglie non saprà mai nulla di quello che è successo.”

Lanciò un occhiolino al suo socio, un tizio smilzo con un pizzetto nero e i capelli legati in una crocchia.

Come diavolo faceva a sapere che la macchina era di mia moglie? Questi due erano veramente fuori dal comune.

Sapevano che ero imbarazzato e mortificato, che ero nei guai e avevo bisogno di aiuto.

Un miracolo.

Prima ancora che potessi chiedere il prezzo dei loro servizi, Pizzetto aveva già aperto il baule del loro catorcio e stava tirando fuori attrezzi e bombolette spray.

“Grazie, amico”, dissi. Era come trovarsi in un sogno.”Quanto….?

“Non tanto quanto se dovessi portarla in una officina”, disse sorridendo Mastro Lindo.

“Soldi ne hai, giusto? Ce l’hai il bancomat, no?”

In quel momento, vederli mettersi a lavorare alla Saab distrutta, osservarli mentre eliminavano la mia angoscia provocata dall’incidente, tutta la mia esperienza di vita di strada mi abbandonò.

All’improvviso ero diventato come un bambino a cui un viene offerta una caramella da un pedofilo.

In vita mia non mi era mai capitata una cosa del genere, nemmeno una volta.

Caso mai, di solito capitava il contrario.

“Si…”

“Bene”, grugnì Mastro Lindo. Mitragliò qualcosa in spagnolo al suo amico. Pizzetto intanto stava già carteggiando la parte danneggiata. Si muoveva come un impasticcato, come se non ci fosse un attimo da perdere e avesse un appuntamento più importante da qualche altra parte. Oppure temeva che avrei cambiato idea.

“E quella voragine lì come la sistemiamo?”, chiesi indicando il punto in cui il pilone di cemento aveva sfondato la lamiera, lasciandola contorta e deforme. Mastro Lindo andò al baule del suo trabiccolo e ritornò con un piede di porco.

Infilò il gancio dentro il buco e fece leva. Si udì un cigolio e un tonfo mentre la lamiera cedeva.

Malgrado restasse ancora un piccolo buco nella carrozzeria, il risultato non sembrava niente affatto male.

Mastro Lindo si girò verso di me e sorrise. “Bello, no?”

Il compare smilzo cominciò a insaponare la zona danneggiata con una schiumosa sostanza bianca.

Poi cominciò ad agitare una bomboletta di vernice.

“La lasciamo agire per qualche secondo, poi applicheremo la vernice”, spiegò Mastro Lindo.

“E poi abbiamo finito. Allora, dov’è la tua banca? Qual è il bancomat più vicino?”

Tutto ad un tratto cominciò a manifestare un grande interesse per tutto ciò che riguardava i miei soldi.

Pizzetto intanto spruzzava vernice su tutta la lamiera.

Il problema era che il verde-mare non combaciava esattamente col colore naturale della Saab.

Quando feci notare questa cosa, Mastro Lindo scosse la testa.

“Non preoccuparti, amico. Una volta che si è asciugata, questa merda si mimetizzerà.”

Cominciavo ad essere dubbioso su tutta quanta la faccenda.

Era come se stessi riacquistando i sensi dopo essere svenuto.

“Sali”, disse Mastro Lindo indicando la sua macchina.”Adesso ci dai i nostri soldi, intesi?”

“Quali possibilità avevo? Ero stato io ad accettare i loro servizi, giusto?

Sapevo che se avessi provato a smollare questi babbuini, ci sarebbero state delle conseguenze; conseguenze del tipo: una botta alla tempia con una chiave di ferro per pneumatici.

Nutrivo il sospetto che Mastro Lindo non ci avrebbe pensato due volte ad usarla.

Nei paraggi non c’erano testimoni che potessero vedere cosa stava succedendo.

Come un sonnambulo mi posai sul sedile posteriore. Mentre uscivamo dal parcheggio, Mastro Lindo si voltò verso di me. “Devi prelevare il massimo possibile. Abbiamo una famiglia da mantenere “.

Da gentile, l’individuo si era fatto pressante. La sue parole rabbiose mi fecero venire la nausea.

Adesso capivo come venivano fottuti i deboli; come le ragazze confuse e ribelli venivano tramutate in prostitute dai papponi, e come l’omicida seriale puntava le sue vittime. È una formula davvero elementare.

Quando si è abbattuti, vulnerabili e feriti si diventa preda. Ci si lascia impressionare da ogni imbroglione di strada da quattro soldi. Ci si mette addosso un cartellone pubblicitario con la scritta:SFIGATO.

E il predatore sa riconoscere il tuo odore come lo squalo riconosce il sangue, rileva le tue tracce a chilometri di distanza.

Mi misi a pensare alle sporte della spesa nel bagagliaio della Saab parcheggiata al supermercato, al cibo deperibile che sarebbe andato a male e al fatto che mi sarebbe toccato spendere altro denaro. Sempre che fossi riuscito a tornare a casa vivo, perché la conversazione in macchina aveva preso una brutta piega. Sembrava come sei quei due imbecilli mi avessero fatto un grosso favore, e se non sganciavo la somma che volevano, mi avrebbero arrostito il culo. Una congenita inerzia si impossesò di me, come sempre succedeva davanti a un’emergenza. Quello che facevo era restarmene seduto e lasciare che il destino facesse il proprio corso. Potevo saltare fuori dal veicolo in corsa, ma così facendo avrei forse finito per morire ancora prima.

“Abbiamo bisogno di 800 euro”, annunciò Mastro Lindo quando accostammo davanti a una banca con l’insegna del bancomat.

“800 euro?”

“Sì, 800.E ricorda che hai fatto un cazzo di grande affare, amico. In officina quell’ammaccatura ti sarebbe costata mille, millecinquecento euro. Ti abbiamo fatto risparmiare un fottio di soldi, amico!”

“Non sono sicuro che ci siano tutti quei soldi sul mio conto”.

Gli occhi di Mastro Lindo lampeggiarono.

“Hey! Sei stato tu a volere che riparassimo quella tua dannata macchina!Il prezzo è di 800 euro, chiaro? Abbiamo una famiglia da mantenere!”

Sì, certo, come no, le loro adorate famiglie del cazzo. Della mia famiglia non importava un accidente a nessuno. Io ero soltanto un bianco in una Saab che non era nemmeno sua. Io, Daniele Fanti , non contavo nulla.

Guidavo una macchina da sborone, quindi era logico che avessi abbastanza soldi da poterli buttare.

E poi, non ero stato io a permettere loro di riparare la macchina?

Era un quartiere pericoloso della periferia nord della città, deserto, salvo per alcuni membri di bande giovanili con il durag in testa sparsi qua e là. Adesso ero convinto che non ce l’avrei fatta e mi avrebbero fatto fuori. Sono cose che a volte capitano nella vita. Una sera esci di casa per andare a fare la spesa e non torni più. Lo potete leggere sui giornali. Adesso era venuto il mio turno. Un bel giorno mi avrebbero trovato a galleggiare a faccia in giù nel fiume, con la nuca sfondata, il mio cadavere dilatato in modo irriconoscibile, e il caso sarebbe rimasto irrisolto. E la colpa era stata tutta mia, perché avevo tenuto la testa infilata nel culo…

Mi seguirono dentro la cabina di vetro. Infilai la carta nel lettore e composi il pin.

Non stavo scherzando: c’erano meno di cinquecento euro sul mio conto, l’intero ammontare dei risparmi di una vita. A Mastro Lindo e al suo collega, che mi stavano col fiato sul collo, la cosa non piacque, ma presero comunque le banconote.

Poi ci fu un’animata conversazione in spagnolo.

“Senti, tu hai la carta di credito, giusto? Non mentire, l’ho vista quando hai aperto il portafogli!”

“Sì, ma…”

“Adesso vieni con noi al centro commerciale e ci compri dei buoni regalo.

Abbiamo una famiglia da mantenere!”.

Tentai di spiegare che avevo raggiunto la disponibilità massima della mia linea di credito, ma a loro non importava un accidente. Volevano quello che volevano.

“Ascolta, coglione! O ci dai quello che vogliamo, o ti faremo sprizzare sangue dal buco del culo.”

Va bene.

Se gli avessi dato quello che volevano, forse mi avrebbero lasciato andare.

Se così non fosse stato, sarei dovuto scappare. In quel momento sarebbe stato veramente bello avere una pistola o un coltello.

Andammo al centro commerciale Metropoli e salimmo con l’ascensore al reparto bambini. Tirai fuori la mia carta di credito e comprai ai miei amiconi qualsiasi cosa richiedessero.

Erano soltanto soldi. Mentre la cassiera batteva lo scontrino, pensavo a tutto il lavoro che mi sarei dovuto sobbarcare per trarmi fuori dalla fossa che in qualche modo avevo scavato con le mie stesse mani. Quando uscimmo dal supermercato era buio pesto:il momento perfetto per morire. Invece mi lasciarono alla mia macchina.

Forse Mastro Lindo e Pizzetto erano stanchi. Forse erano soddisfatti di essersi portati via fino all’ultimo centesimo. Qualunque ne sia stato il motivo era un sollievo ritrovarsi tra i vivi.

Il pensiero di prendere il numero della loro targa non mi passò nemmeno per l’ anticamera del cervello.

Dopo tutto, quale reato avevano commesso? Non mi avevano toccato con un dito. Non mi ero visto puntare una pistola in testa. La loro unica colpa era stata aver scovato il babbeo perfetto…

Spostai la Saab sotto un lampione, smontai e controllai il costoso lavoro di riparazione.

Era un orrore, un aborto. Le due sfumature di verde erano così diverse che la macchina aveva un aspetto peggiore adesso di quando l’avevo schiantata. Mi avevano fregato. Fregato alla grande.

 

 

Erano trascorse ore da quando avevo lasciato l’appartamento. Quando trascinai le sporte dentro casa, Laura uscì di corsa dalla stanza da letto.”Dove sei stato, Dan? Cominciavo davvero a essere in pensiero.”

“Se te lo dicessi, non ci crederesti”. A proposito, tutto questo cibo è pronto per finire nel bidone dell’immondizia. Non so neanche perché diavolo lo abbia portato a casa.”

Il bimbo in camera da letto lanciava strilli. Fuori, la festa di strada notturna cominciava a mettersi in moto.

Fragore di clacson, urla, bottiglie che vanno in frantumi, tutto risaliva fino al decimo piano.

Dall’altra parte del fiume, M. luccicava in maestoso silenzio. Stappai una birra e aggiornai mia moglie sui dettagli.”Così adesso ho perso tutti i miei risparmi e la tua macchina è ancora un merdoso rottame”.

Laura scosse la testa.”Avrebbero potuto ucciderti, Dan!”

“Ne so qualcosa. Ma non finisce qui. Prima o poi prenderò quei bastardi truffatori!”

Mia moglie mi diede un’occhiata.”Non essere ridicolo. Perché non sei tornato qui dopo l’incidente?

Lo sai che abbiamo l’assicurazione. Che ti prende, Dan?”

Mi ribolliva il sangue. Non avevo niente da dire. La verità è che non so perché ho fatto quello che ho fatto.

Non era da me, per niente. A volte non ci sono proprio spiegazioni. Come la vita, totalmente irrazionale.

Infilai la mano in una sporta e cominciai a gettare il cibo andato a male.

Domani mi sarebbe toccato uscire di nuovo e rifare tutto daccapo.

Daniele Fanti, Modena

Era una bellissima mattina di settembre e la piccola Anna già era sveglia da un bel pò; la mamma già l’aveva pettinata raccogliendole i capelli in due bellissimi codini che lei adorava tantissimo.
“Oggi è un giorno speciale” le dice la mamma
“Perché? Mica è il mio compleanno, è solo il primo giorno di scuola” rispose la piccola
“Dai, non fare la sciocchina, andrà tutto bene”
La mamma prende le chiavi della macchina per accompagnare la piccola a scuola ed Anna senza esitare salta giù dalla sedia e corre verso la porta di ingresso pronta ad uscire.

Durante il tragitto in auto Anna parlò veramente poco perchè pensava e ripensava alle parole che le aveva detto la mamma con la paura che avesse dimenticato qualche cosa importante che doveva svolgere a scuola, ma i suoi pensieri vennero interrotti nel momento in cui aveva notato che la mamma aveva preso una strada diversa.
“Mamma perché hai preso una strada diversa? Rischiamo di fare tardi così”.
“Tranquilla, inizi alle 9”.
“No mamma, faremo sicuramente tardi”.
Anna inizia a piangere e ad urlare perché non aveva per niente voglia di fare ritardo “Calmati, siamo arrivate”.
“Ma mamma questa non è la scuola”.
“Amore ma non hai bisogno della scuola, ormai sei responsabile, sei il sindaco della città”.
“Cosa sono io? Quando è successo”.
“Amore smettila di essere così sbadata, su vai che hai tanto lavoro da fare”.

Anna non capiva, che significa essere sindaco? E può una bambina di solo 8 anni gestire una città intera?
La città della piccola Anna era molto grande e quasi le faceva paura questa cosa, lei sapeva scrivere, sapeva leggere, sapeva le tabelline, ma non sapeva come gestire una città ma nonostante ciò si fa coraggio ed entra in quel grande edificio che le sembra quasi un castello
“È proprio grande qui, chissà dove devo andare”.

Passeggiò a lungo nei corridoi guardando tutte le foto che erano appese al muro, le guardò ad una ad una concentrandosi a capire cosa rappresentassero.

“Signorina”.

Anna si girò di scatto e vide che molto distante da lei c’era un bambino, più o meno aveva la sua stessa età.
Confusa si avvicina mentre il bambino continua a parlare. “Signorina, sono qui, sono il vostro assistente, mi chiamo Valerio e sono a vostra disposizione per qualsiasi dubbio lei abbia”.

“Ciao Valerio, io sono Anna, anche i tuoi genitori ti hanno portato qui per sbaglio? Pensa, mamma doveva portarmi a scuola ma ha detto che io sono il sindaco e devo lavorare qui, la mamma sarà stanchissima e probabilmente ha dato di matto”

“No signora, vostra madre non ha dato di matto, ha ragione, lei è il sindaco, e per non scoraggiarla ma c’è tantissimo lavoro da svolgere oggi”.
“Ma come può essere! Ho solo 8 anni, non posso portare avanti una città, ci sarà stato un errore”.
“Nessun errore glielo assicuro”
Anna lo guarda con una faccia confusa e non capisce come un bambino di 8 anni possa parlare in modo così da grande; lei le uniche parole che la fanno sentire grande sono “evidentemente” e “privacy”, la prima la mamma la dice spesso, la seconda l’ha ascoltata in tv e le sembrava complicata solo perchè finiva con una lettera diversa da quelle che lei ha studiato a scuola.

“Mi segua, il vostro ufficio si trova da questa parte”.
Valerio interruppe i pensieri della piccola Anna.
“Va bene, ma cos’è un ufficio?”.
“L’ufficio è una stanza allestita con vari comfort che fanno si che il vostro lavoro non vi risulti pesante”.
“Tipo una stanza dei giochi con la casa di Barbie e il castello delle principesse?”.
“No signorina mi dispiace ma qui non si trova nessuna casa di Barbie ne tantomeno un castello delle principesse, siamo arrivati”.

Alla vista di quella stanza ad Anna vennero quasi i brividi, era dipinta di due colori, bianco e grigio scuro, sembrava quasi un carcere di quelli delle serie tv che guardava suo padre. Al centro c’era una grandissima scrivania con vari articoli di cancelleria orribili.

“Signorina Anna se ha qualche richiesta mi dica pure”.
“Una richiesta c’è l’avrei: voglio le penne colorate e anche i miei pastelli”.
“Signorina ma non può mica firmare i documenti con le penne colorate!”.
“Non mi interessa, voglio le mie penne colorate!”. Scoppiò in un pianto capriccioso che subito fece stancare Valerio.

“Va bene signorina, non pianga, ogni vostro desiderio è un ordine”.
In me che non si dica ciò che aveva chiesto Anna era già sulla sua scrivania.
“Perfetto Valerio, grazie mille”.

Anna iniziò ad ambientarsi molto bene, chiese di ridipingere il suo ufficio di rosa e di sostituire tutti i vecchi libri che c’erano nella libreria con i libri delle sue favole preferite, addirittura venne installata un’aria gioco nel comune per lei e tutti i suoi amici. Ma prima o poi dovevano pur arrivare gli incarichi da sindaco.

“Buongiorno signorina, so che non è l’ideale iniziare la giornata così, ma abbiamo un problema con le strade, sono completamente tutte rotte, piene di buche e rischiamo di causare diversi incidenti, tutti i cittadini si stanno lamentando.”
“Buongiorno a te Valerio, quanti problemi oggi. La soluzione è molto semplice: sostituiamo l’asfalto con gomme da masticare rosa”.
“Signorina, ma come facciamo?”.
“Non mi interessa, avete detto che ogni mio desiderio è un ordine, io la soluzione ve l’ho trovata”.
“Giusto signorina, faremo il possibile”.

Stesso quel pomeriggio, l’asfalto grigio e bucato venne sostituito con un’immensa cascata di gomme da masticare rosa.
“Signorina, gli automobilisti stanno facendo diverse domande su come faranno a guidare su del chewing gum, poiché le ruote delle automobili non sono adatte e rischiano di bloccarsi”.
“Sostituite le gomme delle auto con delle rotelle di liquirizia, è semplice come soluzione”.
Anche questo accadde stesso quel pomeriggio e i cittadini iniziarono a provare un senso di ammirazione per questo nuovo sindaco misterioso che stava stravolgendo la città.

Arrivò l’autunno, e con l’arrivo dell’autunno gli alberi iniziarono a perdere foglie che si appiccicavano ovunque sulla strada di chewing gum.
“Signor sindaco”.
“Dimmi Valerio”.
“Stamattina c’è stata una rivolta dai cittadini che non riescono più a camminare per strada a causa di tutte le foglie che si appiccicano ovunque, vorrebbero abbattere gli alberi”.
“Ma Valerio cosa dici, sono impazziti, gli alberi ci donano l’ossigeno che respiriamo tutti i giorni, come hanno potuto pensare questo?”.
“Allora dovete trovare una soluzione”.
Ad Anna questa volta la soluzione non venne facile come per la strada, ci rifletté per una giornata intera, ma non riusciva a trovare soluzioni adeguate fin quando…

“Valerioo”.
“VALERIOOO”.
“Signorina, mi dia il tempo di arrivare da voi”.
“Valerio, ho trovato la soluzione, gli alberi il trasformiamo”.
“E come li trasformiamo?”.
“Semplice, i tronchi li facciamo di cioccolata, qualcuno al latte e qualcuno fondente, mentre per la chioma usiamo lo zucchero filato”.
“Signorina rischiamo che i cittadini mangiano gli alberi in questo modo, non credo sia fattibile”.
“Per me è fattibile, quindi cosa state aspettando?”.

E così anche gli alberi subirono la trasformazione del piccolo sindaco e ai cittadini sembrava gradire molto. Qualcuno tentava di mordere degli alberi ma, per chiunque veniva scoperto, c’era una sanzione amministrativa che consisteva nel non mangiare zuccheri per 24 ore e così non appena il primo cittadino venne punito con ciò, gli altri non ci provarono neanche ad addentare un albero.

Venne l’inverno, il freddo iniziò a farsi sentire e nella testa della piccola Anna l’idea di fare qualcosa per i suoi cittadini bolliva da un paio di settimane.
“Valerio, cosa possiamo fare?”
“Beh signorina, potete far installare delle stufe in tutta la città”.
“Valerio, non essere sciocco, come faccio ad installare delle stufe in tutta la città”.
“Avete fatto diventare degli alberi di cioccolata, non vedo come non potiate installare delle stufe in giro”.
“No Valerio serve qualcosa di più originale”.
Anna non si sarebbe fermata di certo ad una cosa così banale e l’idea gli venne a casa mentre sua madre gli stava preparando una cioccolata calda.
“Ci sono!”
“Cosa hai pensato questa volta piccoletta?”, rispose la madre.
“Farò installare delle fontane di cioccolata calda in modo che i cittadini quando hanno troppo freddo possono prendersene una gustosa tazza”.
“Ottima idea”.
“E farò costruire case di marshmallow in modo che possano staccarne un pezzo e inzupparlo nella cioccolata”.

Il giorno seguente tutte le idee vennero comunicate al suo assistente Valerio che in me che non si dica fece diventare le idee di Anna realtà.
“Grazie Valerio, sei sempre unico”.
“Questo ed altro per il sindaco migliore che questa città potesse avere”.

Le idee di Anna continuavano ad aumentare: i pali della luce diventarono enormi bastoncini di zucchero natalizi, le case iniziarono ad essere tutte colorate come gli involucri delle caramelle, le panchine vennero costruite con i wafer e tutte le giostrine del parco diventarono delle caramelle gommose. Passato il freddo anche le fontane che erogavano cioccolata calda si trasformarono in fontane di succo di frutta fresco per affrontare il caldo.

“Signorina, in vista dell’estate bisogna portare delle novità per le spiagge”.
“Questa la sto pensando da molto, trasformiamo il mare in cioccolato fuso”.
“Le persone secondo lei farebbero il bagno nel cioccolato fuso?”.
“Tu non lo faresti?”.
“In realtà pensandoci si”.
“Perfetto, allora il mare sarà di cioccolato fuso mentre la spiaggia sarà zucchero”.
“Zucchero?”.
“Si, così non ci saranno più quei tremendi granelli di sabbia e la mamma non urlerà più quando li trova in giro per casa”.

Anche questa richiesta fu accolta e i cittadini passarono un’estate veramente molto dolce. Nessuno si era lamentato del nuovo sindaco, anzi volevano che durasse per sempre, così per ringraziarlo organizzarono una grande festa.

Anna si preparò al meglio per questa grande evento. Allestirono un palco, ovviamente fatto di cioccolata, proprio sotto al comune e lei scelse un vestito di zuccherini rosa fantastico. L’ora di presentarsi ai cittadini era giunta e non appena salì sul palco venne accolta con un grande applauso che andò subito a spegnersi e venne sostituito con lo stupore dei cittadini nello scoprire che l’artefice di tutto il cambiamento che aveva subito la città , fosse una bambina di soli 8 anni.

“Salve a tutti, io sono Anna; lo so forse sono un pò piccola per gestire una città ma mi piace molto. Mi è piaciuto molto trasportare voi adulti nella fantasia di noi bambini, ed è per questo che ho fatto tutte queste richieste strane; mi piace vedere la vostra faccia stupita come la faccia stupita di un bambino che ha appena ricevuto da Babbo Natale il regalo che desiderava. Voi adulti siete sempre di fretta, correte di qua e di là tra lavoro e famiglia e non vi soffermate mai ad immaginare cose irreali che potrebbero rendervi felici. Avete ancora la fantasia di quando eravate bambini ma non avete più il tempo di metterla in atto, ed è per questo che vi ho regalato un pò della mia fantasia e spero di poterlo fare anche in futuro”

In quell’istante partì un applauso che sciolse il cuore della piccola Anna, che si trovava su quel palco ad abbracciare il suo assistente Valerio per averla assecondata in tutto, mentre tutti i cittadini iniziarono quella grande festa con musica e buon cibo, ma proprio quando tutto sembrava andare per il meglio,Valerio gli disse: “Svegliati devi andare a scuola altrimenti fai tardi”.

“Cosa?”.

Neanche il tempo di pronunciare le ultime parole che tutto ciò che aveva intorno svanì nel nulla.

“Anna dai svegliati facciamo tardi”.

La voce di sua madre le fece aprire gli occhi, e solo lì si rese conto che non c’era nessun mare di cioccolata e nessuna strada fatta di chewing gum e che tutto ciò che aveva vissuto era solo un sogno.

“Mamma ho fatto un sogno bellissimo, la spiaggia era di zucchero, le fontane di cioccolata calda d’inverno e di succo alla frutta d’estate, c’erano le panchine di…”
“Anna dai me lo racconti in macchina sono di fretta”

La piccola Anna sbuffò e disse :
“Ecco cosa intendo quando dico che gli adulti sono sempre di fretta.

“Come vorrei vivere a ChocoLand ora!”

Anna Romito, Torre del Greco

La ferita, però, fu comunque, larga oltre che abbastanza lunga, ed il latitante gridò selvaggiamente, inginocchiandosi.
Fernando, seppur corpulento, agì velocemente, si frappose come scudo a Gallucci inginocchiato e fece fuoco.
L’arciere, sul tetto, fece in tempo solo a gridare ed a spiaccicarsi a faccia in giù sul pavimento del terrazzo.
Gallucci gridava, Fernando perdeva sangue dall’avambraccio sinistro.
Fu allora che Rino lo vide.
Un indigeno che era salito dalla scala che sarebbe dovuta essere sbarrata con una porta in cartongesso.
L’arciere sopraggiunto puntò sul bersaglio grosso di Gallucci e Fernando, posti vicini l’uno all’altro.
Rino sapeva che questa volta non poteva esitare e si lanciò contro il nemico che era pronto a scagliare il colpo.
L’indigeno se ne accorse e puntò la freccia contro il suo aggressore.
Fu un attimo.
Anche Rino si accorse di essere sotto tiro e caricò ad occhi chiusi.
La parte di ringhiera non tenne ed i due precipitarono giù in giardino.
Gallucci gridò, allora, di tornare dentro, in quanto sarebbero, presto, arrivati degli altri.
Fernando voleva, invece, andare a sporgersi per vedere cosa fosse successo.
Il latitante gli disse che, in quel luogo, erano, entrambi, sotto tiro e che erano gli unici ad avere una pistola.
Rientrarono.
Sotto, intanto, era il terrore.
Gli spari e le urla che provenivano da sopra avevano ghiacciato tutti.
Fino a quando non si udirono le voci di Fernando e di Gallucci che discendevano le scale; di sotto era stato il panico.
Fernando disse di andare a controllare fuori dove fosse caduto Rino con l’indigeno.
Ma non vi fu tempo di farlo.
Improvvisamente si udì un boato.
Come un uragano.
Qualcosa entrò frantumando il grande portone centrale.
L’impatto fu spaventoso e colossale.
La polvere ed il frastuono furono insopportabili.
Qualcuno riconobbe il camioncino bianco dei proprietari della villa, ora fracassato nell’anticamera della grande sala.
Dietro di esso entrarono gli indigeni.
La grande porta finestra di ingresso era l’unico punto del piano terra che non fosse protetto dalle grate di ferro; ciò in quanto, all’occorrenza, vi era una saracinesca che scendeva a coprire le porte vetrate in pvc di colore bianco.
Tale chiusura non era stata fatta scendere poiché sarebbe stato, per gli occupanti, come chiudersi in una sorta di trappola.
Fu una scelta sbagliata.
Perché gli indigeni avevano escogitato una strategia per entrare.
Dapprima mandare un’esca a distrarre il nemico, quindi far salire un commando di infiltrazione nella dimora, per poi sfondare lo sbarramento, utilizzando il camioncino.
Gli invitati, però, avevano adottato una specie di contromisura per arginare un assalto, dalla sola parte dello stabile che non fosse difesa.
La prima consisteva nell’aver eretto una seconda linea di sbarramento, con le panche e con i tavoli, all’ingresso della grande sala del ricevimento.
Il camioncino si andò a scontrare, infatti, contro i pesanti mobili della “reception” posti dinanzi ad un muro portante che divideva la sala della festa dall’altra sala un po’ più piccola, che era rimasta chiusa.
Quando il veicolo arrestò la sua corsa contro il grande e pesante bancone di legno e marmo, gli indigeni presero a fluire all’interno dello stabile.
La tribù, però, si scontrò contro lo sbarramento di difesa, costituito dal mobilio, e nell’oscurità di chi non conosceva la conformazione dell’ambiente interno della villa; questa barriera fu, in un primo momento, un argine efficace.
Diede modo, così, agli invitati di attuare la seconda forma di difesa: il repentino arroccamento, cioè, nei locali della cucina, protetti da una grande ed antica porta di legno a due battenti, rimodernata.
Nel buio e nel più cupo ed insano dei terrori, però, porre in esecuzione, correttamente, il piano di evacuazione stabilito, fu comunque arduo e complicato.
Qualcuno cadde, qualcuno non riuscì a muoversi ed a raggiungere la cucina, qualcuno provò a parlare o a chiedere pietà agli aguzzini indigeni.
Tutti costoro ricevettero solo le frecce, pugnalate e la folle bramosia di uccidere dei membri della tribù.
I quali agivano come dei leoni affamati che si erano fatti strada in una mandria, sconfinata, di antilopi.
Gli indigeni colpivano e davano morte con insano appagamento.
Tra gli invitati qualcuno cercò di coprire la fuga delle donne e degli altri ed affrontò l’orda brandendo le proprie armi.
Jonathan vide Valeria scortata da Domenico verso la cucina, furono raggiunti da un indigeno che si lanciò contro di loro.
Jonathan provò ad intervenire ma tutto accadde in un attimo.
L’aggressore colpì Domenico con la lancia nell’addome e poi ritrasse l’arnese.
Mente il ragazzo si piegava in ginocchio, Valeria urlò disperata, non riuscendo più a muovere, neanche un dito.
Jonathan, con una padella per castagne con il manico in legno e l’asta in ferro battuto, presa dal grande camino centrale, riuscì a colpire il capo dell’indigeno da dietro.
Costui crollò tramortito.
Il giovane terrorizzato prese Valeria, di peso, essendo la ragazza, ormai, resa immobile ed inerme dal terrore e dalla disperazione e la condusse in cucina.
Jonathan ebbe, quasi, l’impressione, mentre la trasportava, che la ragazza fosse svenuta in piedi.
Mirko Gallucci scaricò il caricatore della sua Beretta contro i nemici, i quali gli venivano incontro come se fossero i personaggi di un videogame.
Il latitante sparava, ed ogni colpo si portava con sé una vita.
Eppure gli indigeni non si fermavano.
Due colpi erano stati esplosi dal sicario della ndrangheta di sopra.
Gli altri tredici furono usati per abbattere otto giovani indigeni.
Esaurito il caricatore, Gallucci non fece in tempo a sostituirlo che venne affrontato da un altro aguzzino con la lancia.
Il latitante non si scompose, afferrò la lancia del suo aggressore, con un calcio lo allontanò e si impossessò della sua asta appuntita.
A nulla valse un improvviso barlume di umanità del giovane indigeno che si accorse di quanto stava succedendo e sembrò, quasi, chiedere pietà.
Gallucci lo infilzò con entusiasmo e sadica soddisfazione.
Il latitante riprese, allora, la pistola, a terra, per ricominciare il suo tiro al bersaglio, ma venne, in quell’istante, raggiunto da una freccia sulla spalla destra e da un’altra alla gamba sinistra.
Due indigeni, allora, lo accerchiarono, entrambi armati di lance.
Gallucci si avvicinò al tavolo alle sue spalle, prese una delle bottiglie ed uno degli accendini, ivi predisposti, e si girò verso i suoi aguzzini, proprio mentre questi lo infilzavano con le aste.
In quello stesso istante, il latitante, gridando, accese l’accendino, e diede fuoco allo straccio imbevuto intorno alla bottiglia piena di gasolio, proferendo, con la bocca colma di sangue, le sue ultime parole: “ Crepate bastardi! Tuttiii!!!”.
Il sicario della ndrangheta fracassò la bottiglia incendiaria, accesa, sull’asta di una delle due lance.
Rotto il vetro, il carburante si sparse ed incontrò la fiamma dello straccio acceso da Gallucci.
Fu come l’accensione di una stella.
Il fuoco divorò tutto.
Fu una esplosione di fiamme e di luce.
Gli indigeni arretrarono e fuggirono verso l’uscita, gli invitati chiusero la grande porta della cucina; mentre alcuni, di entrambi gli schieramenti rimasero bloccati nella sala.
Fernando era stato circondato, senza più proiettili e senza la possibilità di sostituire il suo caricatore.
La deflagrazione lo salvò dalle armi degli indigeni che preferirono darsi alla fuga, tra le fiamme, per guadagnare l’uscita.
Il poliziotto non aveva altra via di uscita che tra le scale rimaste aperte.
Fernando, allora, richiuse la porta segreta dietro di sé, anche nel tentativo di bloccare le fiamme.
Gli invitati erano nei locali della cucina.
Gli indigeni se n’erano andati, ma la sala stava bruciando e presto le fiamme avrebbero raggiunto tutti.
I locali cucina avevano solo finestre alte, con delle grate di ferro fisse.
Gli invitati erano in trappola.
Eccezion fatta per la porta che dava sulla sala da ricevimento, più piccola, rimasta chiusa e non utilizzata per la festa.
Non vi era scelta.
O uscire ed andare incontro agli indigeni o restare e morire carbonizzati.
Il frastuono delle fiamme dall’altra parte della porta era assordante.
Il fumo e l’odore acre cominciava a penetrare nei locali della cucina.
Gli invitati erano afflitti da un dolore insostenibile per la perdita di amici e parenti e per il terrore di subire, anche loro, ben presto, una fine altrettanto tragica e cruenta.
Jonathan si accorse di tenere ancora, stretta a sé, Valeria; la quale, però, era in uno stato di shock e non dava più segni di essere presente.
“Piero dobbiamo uscire!” proruppe Jonathan.
Piero Monte, il festeggiato, aveva i nervi lacerati, teneva sua sorella, Daria, ancora appoggiata sulle spalle: “Per cosa? Per farci ammazzare!!?!”.
“Piero, ascolta – disse Jonathan cercando di mantenere la calma – ci sono altre molotov sul tavolo, appena il vetro comincerà a cedere per la temperatura dell’incendio, esploderanno tutte…crollerà tutto qui!!!!”.
Pino Nassa che camminava zoppo, avendo ancora la freccia conficcata nella gamba: “Usciamo, meglio morire lottando che bruciati vivi qua!”.
Dopo una rapida consultazione con coloro i quali erano ancora capaci di intendere e di volere, gli invitati aprirono la porta della sala, che non era stata utilizzata per la festa e, come, una masnada di lebbrosi afflitti dalle piaghe, iniziarono lentamente ad uscire trasportando, di peso, feriti ed inermi.
Fernando, nel frattempo, salì al piano superiore, seppur conscio che le fiamme lo avrebbero, presto, raggiunto.
Il poliziotto sapeva che, da un momento all’altro, le altre molotov si sarebbero incendiate e la Villa Claudia sarebbe diventata un immenso falò.
In quel momento Fernando agì d’istinto, e dopo aver percorso, con circospezione, ogni metro della dimora di Gallucci e del balcone, cominciò a scendere dalla scala esterna; favorito dal fatto che la porta di cartongesso era stata divelta dall’indigeno che era precipitato con Rino.
Fernando scorse in giù prima di scendere e non vide tracce né dell’amico né, tantomeno, dell’arciere.
Erano spariti.
Il poliziotto, però, non incontrò nessuno ad attenderlo ed ebbe gioco facile a raggiungere il giardino ed a nascondersi dietro delle giostre.
Giusto in tempo, perché il fuggitivo assistesse ad una scena agghiacciante.
La tribù era schierata, a semicerchio, ad una trentina di metri dalla entrata principale della villa.
Delle torce erano state accese e la donna, che sembrava più grande di età rispetto agli indigeni più giovani, capeggiava sulla tribù schierata.
Gli invitati, con i feriti trasportati, iniziarono ad uscire e si fermarono dinanzi al loro plotone di esecuzione.
Le donne piangevano e chiedevano spiegazione di tanta barbarie e ferocia inumana.
Gli uomini si preparavano ad una flebile resistenza, votata ad un esito tanto tragico quanto scontato.
La tribù non parlava, non rispondeva, pregustava solo il suo banchetto di sangue e di vite umane.
La capo tribù, allora, parlò, con la stessa identica voce stridula ed atona dei suoi indigeni: “Offre l’homme blanc en sacrifice à la nature!
Justice pour peuples anciens!”
Elvira scoppiò a piangere, ed anche chi non comprendeva il francese intese che era stata pronunciata una condanna definitiva su tutti loro.
Fernando aveva una Beretta con il caricatore pieno.
Erano 15 colpi, però gli indigeni, rimasti, erano almeno una trentina.
Iniziare a sparare avrebbe, allora, decretato la sua fine certa.
Il poliziotto sapeva che, in quelle condizioni avrebbe, forse, abbattuto sei o sette degli assassini.
Sapeva, però, al contempo, che gli altri assassini non sarebbero fuggiti via; lo aveva già constatato in precedenza.
Gli altri della tribù lo avrebbero massacrato, ed ora lui aveva paura.
Fernando sentiva di non riuscire più a compiere il benché minimo movimento ed ad articolare alcun pensiero che fosse coerente.
Il poliziotto sentiva solo un incessante tremolio in tutti i suoi arti, la vista gli si stava annebbiando… sentiva che stava per cedere.
La capo tribù riprese a parlare: “L’homme blanc va s’èteindre.
Le monde retour…”.
La donna si bloccò.
Era comparsa un’ombra alle sue spalle.
Dal buio qualcosa si era materializzato dietro di lei e l’aveva afferrata.
Una freccia penetrò il collo della capo tribù, mentre costei, alzando gli occhi al cielo diede un urlo spaventoso.
Quando l’ombra, ebbe compiuto lo sgozzamento, lasciò cadere, esanime, il corpo della capo tribù; qualcuno degli invitati riconobbe la figura di Rino Morselli!
Il giovane, seppur vistosamente ferito e sanguinante, lasciò cadere anche la freccia, sputò con sdegno e disgusto sul cadavere della indigena e, dopo aver barcollato, crollò anch’egli a terra.
“Madame!!!Madaaamme!!Madaaaaammmmeee!!!!!!!!!”
Le grida di terrore e di sgomento degli indigeni furono isteriche e schizofreniche; pareva quasi che fosse stata recisa una parte del corpo ad ognuno di essi.
Le torce e gli archi caddero a terra.
Gli aguzzini parevano in preda al panico più insano e terrificante.
Fernando trovò, allora, il coraggio e cominciò a fare fuoco.
Due indigeni, un ragazzo ed una ragazza, dopo circa sei colpi esplosi, caddero a terra feriti.
Gli altri, quasi, non se ne accorsero.
Gli indigeni continuavano a fissare il corpo senza vita della Madame.
Cominciarono, incredibilmente, gli aguzzini, a piangere disperati ed a urlare come forsennati.
Fino a quando, gli ulteriori spari di Fernando non li fecero fuggire via.
Tutti gli indigeni uscirono di corsa dal perimetro della villa, continuando a guardare ed a gridare verso il cadavere della loro capo tribù.
Fernando raggiunse gli altri invitati.
Jonathan, tenendo ancora stretta a sé Valeria, chiese a tutti di allontanarsi dalla villa, prima che le molotov, all’interno, esplodessero.
Dopo tre quarti d’ora, giunsero i vigili del fuoco, chiamati dai proprietari della struttura, a loro volta allertati, a distanza, dal sistema di allarme della villa.
Quando giunse l’alba, l’incendio di Villa Claudia era domato, ma quei luoghi brulicavano di forze dell’ordine e di operatori sanitari.
Le indagini che seguirono, dopo quella che venne definita, da giornali e tv, come la “Strage della Villa”; portarono all’arresto dei proprietari della struttura per aver favorito la latitanza di Mirko Gallucci.
La Madame venne individuata essere come la professoressa Assira Calcati, docente di storia al Liceo Artistico “Salvador Dalì” del vicino Comune di Pignone.
Gli indigeni erano tutti suoi studenti.
Quelli, di loro, rimasti in vita furono internati in strutture sanitarie per la cura delle malattie mentali.
Erano stati tutti plagiati, condizionati e soggiogati, in maniera irreversibile dalle convinzioni antropologiche della loro professoressa.
Secondo la quale, tutti i popoli non europei, vivevano rispettando e tutelando l’ecosistema che li ospitava.
Tale equilibrio antropologico ed ecologico, sempre secondo la docente, era stato violato dalle invasioni dell’uomo bianco.
Il quale aveva, talvolta, quasi sterminato, come nel caso degli Indiani d’America o degli indigeni della Savana ed a volte estinto, come nel caso di Maya, Incas ed Aztechi; tali popolazioni.
Dopo questi immani scempi, poi, gli europei, sempre secondo le tesi della professoressa, erano passati allo sfruttamento ed al depauperamento irreversibile delle risorse naturali di tali paradisi incontaminati.
Per Assira Calcati, l’uomo bianco doveva risarcire quei popoli e ripristinare i loro habitat.
Per tale ragione, l’insegnante, aveva plasmato le menti dei suoi studenti e li aveva forgiati come uomini e donne dei popoli antichi.
Coloro i quali si riebbero dal sortilegio della loro incantatrice, narrarono, nei giorni a venire, di esperienze bellissime vissute tra la natura, quasi, come un gioco ed una scoperta.
Correre nei boschi, accendere il fuoco, cantare le antiche nenie dei popoli perduti e dimenticati, abbigliarsi e dipingersi come loro; tutto riportava l’animo degli studenti ad una dimensione arcaica e primigenia.
Era la nascita di una nuova innocenza.
Tutto in quella esperienza era puro e sincero, era come una catarsi.
Far riaffiorare, dal più recondito dei propri cromosomi, le reminiscenze sopite trasmesse dalle vite e dai ricordi degli antichi avi; era plasmante ed avvolgente.
Rivivere le immagini e ricordi, remoti e lontani, vissuti da genti che erano tutt’uno con la natura e con le sue leggi; era, al contempo, destrutturante e ricostituente.
Tali pratiche ridestarono e fecero riemergere l’anima più vera e sincera di quei giovani, riportandoli ad un passato di libertà assoluta.
Tutto fu bellissimo e coinvolgente, e nulla pareva sbagliato.
Anche il successivo uccidere, per doversi nutrire, era una forma di rispetto per la natura stessa.
Non sopprimere animali per un insano piacere o per una vacua vanità; si prendeva dalla natura solo ciò che era giusto e necessario.
Giusto e necessario divennero, col tempo, i soli numi tutelari e le uniche divinità che accompagnavano quei giovani, nelle lunghe gite di ricerca e di studio tra i boschi.
La Madame sapeva ciò che era giusto, lei conosceva ciò che era necessario.
Lei disse cosa andava fatto, perché giusto e perché necessario.
I ragazzi lo fecero.
La scelta delle prede, da offrire in sacrificio sull’altare della loro causa ecologista; poi, era stata compiuta osservando i continui spostamenti a Villa Claudia.
Luogo, questo, limitrofo alle cavità, agli anfratti ed ai campi dove la tribù, sovente, si addestrava e soggiornava per il compimento dei propri riti e delle proprie celebrazioni ancestrali ed ataviche.

Leggi il capitolo 1

Leggi il capitolo 2

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

Qualcuno temette e percepì che un’altra tragedia stesse per capitare.
Soprattutto chi riconobbe il timbro della voce di chi chiedeva aiuto, in preda ad una disperazione senza eguali.
Tutti si precipitarono all’ingresso della villa che dava sul grande cancello.
Chi vide quella scena non la dimenticò mai più.
Antonio Dattore era legato al cancello, con le mani in alto.
Dietro di lui dei giovani, ragazzi e ragazze, abbigliati e dipinti, come aveva narrato Rino Morselli, sulla stregua dei peggiori cannibali della più cupa savana del Continente Nero.
Insieme ad essi, una figura femminile che pareva appartenere ad una donna matura.
Tutti erano armati, di arco o di una lunga lancia appuntita; alcuni avevano in mano delle torce infuocate accese.
Una ragazza con il corpo dipinto di nero, tranne che per il volto e la parte frontale, dipinti di bianco, su di uno sfondo scuro; teneva, invece, una lancia puntata alle spalle di Antonio.
Il ragazzo era ferito, piangeva e chiedeva aiuto.
Era qualcosa di inaccettabile.
Nessuno ha diritto ridurre un altro essere umano in tali condizioni.
La ferocia con la quale la tribù stava torturando il proprio prigioniero, poteva essere concepita e compiuta solo da parte di una comunità che non avesse, mai, acquisito alcun barlume o rudimento di civiltà e carità umane.
La furia si impadronì degli invitati.
Alcuni dalla villa volevano uscire, erano presi da una rabbia furente.
Non appena, venne messo in pratica tale intendimento, ed alcuni degli invitati furono all’esterno, però, furono, subito, bersagliati da frecce e dovettero riparare, di nuovo, dentro; chiudendo le porte di pvc e nascondendosi dietro le finestre con le protezioni metalliche.
L’esecuzione doveva avvenire senza intoppi.
Le urla e le minacce degli invitati, colmi di riabbia, furono zittite dalla ragazza che teneva la lancia contro Antonio, la quale iniziò a ripetere, diverse volte, ad alta voce:
“L’humanitè est africane!
L’Homme blanc est criminel!
L’Homme blanc tue la planate!”.
Detto questo, la ragazza infilzò con la lancia la schiena di Antonio Dettore il quale urlò disperato.
Gli invitati trasalirono, la rabbia se li prese tutti, non seppero cosa fare, decisero di uscire e di lanciarsi contro gli indigeni.
Nessuno di loro accettava di assistere, inerme, ad un tale abominevole sacrificio umano.
Pino Nassa era amico di Antonio Dettore, nonché compagno di mille e mille bevute, e non seppe trattenere l’impeto d’ira.
Il ragazzo impugnò un’asta di metallo, della quale, nel frattempo, si era armato; e si lanciò ad impedire la barbara uccisione.
Gli altri gli dissero di fermarsi, ma il chitarrista, ormai, non ascoltava più nessuno, era, soltanto, corroso dalla furia.
Pino Nassa venne, però, immediatamente, centrato da una freccia alla gamba destra, quando ancora non aveva superato il cortile in sampietrini, e cadde a terra rotolando.
Il chitarrista urlò di un dolore atroce.
Rimase a terra, mentre degli arcieri nascosti cercarono di centrarlo.
In preda ad uno spasmo di dolore, allora, e richiamando ogni barlume della propria forza della disperazione, Pino Nassa si rimise in piedi e zoppicando, cercò di guadagnare di nuovo l’interno della villa; sorvolato, però, da ben tre dardi che, fortunatamente per lui, non andarono a segno.
Pietro Rummo marito di Mariarita, e Domenico Nelli, fidanzato di Valeria, aiutarono Pino Nassa a rientrare al coperto.
Non c’era nulla più da fare per salvare Antonio Dattore.
Jonathan e Rino risolsero di aggirare gli arcieri, uscendo dal retro per, poi, aggredire la “tribù” alle spalle.
Era una soluzione folle e pericolosa, oltre che, quasi certamente, votata al fallimento; però i due decisero di provarci lo stesso.
Non ci fu tempo.
La ragazza indigena, infatti, caricò un altro colpo, ripetè la stessa cantilena e si preparò ad affondare.
Uno sparo all’improvviso!
Un tubolare metallico del cancello, all’altezza del viso della giovane, scintillò.
La struttura del cancello aveva salvato la folle.
Qualcuno aveva cercato di fermarla, ma il proiettile era rimbalzato.
L’indigena non se lo aspettava, rimase quasi inebetita, e si girò verso la donna più grande; la quale dovette farle uno sguardo di assenso.
La donna più matura, allora, e gli altri indigeni, subito dopo, si dileguarono prontamente; probabilmente non si aspettavano che, dall’interno, qualcuno avesse un’arma di fuoco.
Loro, infatti, avevano inseguito Antonio, quindi non sapevano della fine del loro sodale e del ferimento dell’altro.
La ragazza, però, rimase lì.
Ella sembrò, in quel momento, dover compiere, meccanicamente, la sua missione.
L’indigena si girò con una espressione vuota e continuò la sua opera.
Conficcò la sua lancia nella gola di Antonio Dattore, nello stesso istante in cui un proiettile la centrò in mezzo agli occhi.
Entrambi morirono in quello stesso momento!
Tutti, nella villa, rimasero immobili, senza più fiato, avvinti da un orrore senza fine e non comprendendo, appieno, perché sembrassero essere tutti piombati nel peggiore dei gironi infernali.
Osvaldo Guglielmi si impose la calma e compì le medesime operazioni di medicazione, che aveva prima condotte su Daria, anche su Pino Nassa.
Tanti, ormai, erano in preda a crisi isteriche ed a cedimenti emotivi.
Riuscire a mantenere l’ordine ed a riflettere con lucidità, in quel momento, era quasi impossibile.
C’erano tre morti e due feriti tra gli invitati e due morti e, probabilmente, un ferito tra quelli della “Tribù”.
Cinque cadaveri erano fuori in giardino.
Tre dei quali, erano stati parte importante della vita di tutti gli invitati alla festa a sorpresa.
Darni era un piccolo centro di ottomila anime.
Silvio Tremendi ed Antonio Dattore erano stati parte integrante della fanciullezza, dell’adolescenza e della giovinezza di tutti.
Quando se ne va qualcuno che hai visto o frequentato, spesso, nel corso della tua vita, è come se andasse via una parte di te.
Ed era questa la sensazione che gli amici di Silvio ed Antonio provavano.
Una incredulità ed una non accettazione di una realtà che pareva impossibile fosse, ora, presente e contingente.
Chi mai lo avrebbe detto alle famiglie?
Michele Corto, invece, faceva parte di un’altra generazione, di altre comitive di persone, ed era lì, tra di loro, solo in quanto fidanzato con Anita che, invece, aveva la stessa età, pressappoco, di tutti gli invitati.
Però, comunque, anche Michele Corto era sempre stato parte del “paesaggio” di Darni, come Silvio ed Antonio.
Ed ora saperli morti, là fuori, era straziante ed alienante per chiunque.
Anche per l’assurdità di tutta la vicenda, anche per il modo inenarrabile ed ingiustificabile nel quale erano deceduti tutti; anche per l’evidenza insopportabile di vivere qualcosa che pareva non avesse senso, era per tutto ciò, che tutti erano, realmente, prostrati dal dolore e dallo sconforto.
Tutti si chiedevano perché?
Chi erano costoro?
Chi erano questi pazzi dipinti e vestiti da indigeni?
Perché stavano compiendo questo massacro?
Ed ancora, poi, chi era quello che sparava dal piano superiore?
Da che parte stava costui?
E, infine, si poteva sfuggire da quest’inferno?
Come si poteva evitare di fare tutti la fine dei tre amici caduti?
Come si poteva portare in salvo i due feriti?
“Cosa hanno detto questa volta, Elvira?” chiese Jonathan.
La ragazza dopo essersi asciugata le lacrime, prese a ricordare ed a tradurre: “Hanno detto: l’umanità è africana.
L’uomo bianco è criminale.
L’uomo bianco uccide il pianeta”.
Nessuno comprese il senso di queste frasi.
Questa incertezza circa le motivazioni dell’insensato attacco e della carneficina in atto, resero ancor più destabilizzante l’intera situazione.
Si udirono, però, proprio in quel frangente, dei colpi da dentro una parete.
Si cercò di imporre il silenzio.
Di nuovo.
“Sono io, state calmi, sono io…”.
Una voce provenne dalla parete.
Rino riconobbe quella inflessione calabrese nel modo di parlare.
La parete, posta sulla destra rispetto all’ingresso dei bagni, e che, probabilmente, anticamente doveva essere una scala interna, successivamente murata; si aprì, come fosse comparsa una porta dal nulla.
Ne uscì una figura, snella, di quasi due metri.
Il volto era smunto, lungo e rabbioso.
Aveva i capelli rivolti all’indietro con la gelatina, una camicia stropicciata con le maniche arrotolate ed un pantalone estivo bianco.
Tutti gli guardarono la Beretta che aveva in mano e l’altra che aveva nella cinghia del pantalone.
Era lui quello che aveva sparato ed ammazzato due indigeni, salvando Rino, fuori in giardino, e cercando di impedire, poi, poco prima, la barbara e cruenta esecuzione di Antonio Dattore.
Tutti rimasero ammutoliti, nessuno ebbe il coraggio di domandare qualcosa.
Fu, infatti, lui, con un italiano stentato dalla chiara inflessione calabrese, ad esordire dicendo: “Ho provato a fermarla quella scrofa, ma ho preso quel cazzo di cancello!
Mi dispiace, veramente, lo volevo salvare il vostro amico”.
Tutti abbassarono lo sguardo e molte ragazze piansero.
“Chi sono quei pazzi pittati come i cannibali? – chiese ancora l’uomo del piano di sopra – perché ce l’hanno con voi?”.
“Tu abiti di sopra?” chiese Jonathan riuscendo ad uscire dall’empasse di non avere nessuna risposta a quanto stesse accadendo.
“Si…di sopra” rispose l’uomo, sembrando, però, volesse evadere la domanda e tornare alla questione di prima.
“Perché non prendete le macchine e ve la filate?” chiese ancora l’inquilino.
“Hanno bucato le ruote” rispose Jonathan.
“Caspita! – disse il tizio armato – questi vi vogliono, proprio, fare la pelle”.
“Ci…vogliono fare la pelle – disse Fernando – non penso che vogliano darti un premio per aver atterrato due dei loro”.
La corretta osservazione di Fernando fece riflettere i presenti e li rese tutti sodali del medesimo destino e della stessa sorte.
“Hai qualche modo di contattare i carabinieri ed il 118?” chiese Piero Monte.
“No!” rispose l’uomo sembrando nuovamente irritato.
“Comunque ce ne dobbiamo andare di qua, dobbiamo avvisare la gente in paese e dobbiamo farlo in fretta perché ci sono dei feriti” disse Rino.
“Andiamo via a piedi – disse Rosangela – lui ha le pistole, possiamo arrivare a piedi sulla strada nazionale e, poi, in paese”.
“No – disse l’uomo – E’ un bosco, si metteranno dietro gli alberi e ci faranno secchi a frecciate, se la caveranno soltanto in pochi”.
“Se non possiamo comunicare con l’esterno – disse Piero Monte – dobbiamo aspettare che faccia giorno e che ci vengano a cercare”.
Anche stavolta l’uomo armato parve rabbuiarsi; sembrava, infatti, sentirsi, quasi, intrappolato ogni qualvolta qualcuno asserisse che sarebbero sopraggiunti aiuti dall’esterno.
“Non mi piace questa storia – disse Fernando a Jonathan e Rino – mi sembra strano che questo viva qui, recluso al piano di sopra, con due Beretta e chissà cos’altro”.
“Me ne fotte uno stracazzo! – rispose Rino – mi ha salvato la pelle là fuori, ed ha cercato di fare lo stesso con Antonio Dattore; per me è ok”.
“Ha ragione – disse Jontahan – se questo ci voleva fare del male, eravamo già tutti morti adesso”.
“Lo so – disse Fernando – però ha un viso conosciuto, l’ho visto, già, da qualche parte”.
Intanto la discussione continuava.
“Ora che sanno che c’è uno armato, forse ci lasceranno stare – intervenne Mariarita – così domani ci verranno a salvare”.
“Gli altri sono scappati, ma quella troia è rimasta ferma lì a finire il suo lavoro, non ha avuto paura di morire – disse il tizio armato con gli occhi sgranati, mostrando quasi un sadico piacere nell’averle sparato – quelli lo sanno che domani arriverà gente.
Vogliono finire il lavoro con noi, questa stessa notte!”.
“Cosa possiamo fare?” chiese Piero Monte, interpretando il sentimento di tutti, nell’aver, immediatamente, intitolato a capo e condottiero l’inquilino armato.
“Intanto spegnete ste cazzo di luci – sbottò il tizio – siamo un bersaglio troppo facile così, sembra Natale; tanto le luci di fuori illuminano pure qua dentro.
Poi controllate che le protezioni metalliche delle finestre sono chiuse e che le loro chiavi sono tutte a posto.
Chiudiamo bene la porta principale, le altre che danno sul giardino e quella di sicurezza.
E cercate di armarvi con qualcosa, come hanno fatto loro tre con i coltelli…questi tra poco tornano!
Che fregatura questa storia!”.
L’ultima frase fu detta dall’inquilino quasi sottovoce, però Fernando la udì e, forse, ne comprese appieno il senso.

L’idea che presto la tribù sarebbe tornata, era come una spada di Damocle sulle anime di tutti.
Le disposizioni dell’inquilino, armato, del piano di sopra vennero eseguite alla lettera.
Gli invitati si armarono ed eressero difese.
Seppur Fernando disse di non barricare troppo le porte, in quanto, con le grate metalliche alle finestre da dover aprire con le chiavi, le porte erano le uniche vie di uscita, più facili da utilizzare, nel caso gli indigeni fossero riusciti ad entrare.
La penombra aveva avvolto le sale della villa.
Una luce fioca penetrava dall’esterno del giardino.
Tutti erano al riparo dal tiro degli archi nemici.
I minuti passarono lunghi come ore.
Era l’una del mattino ed il buio sarebbe stato padrone per tanto tempo ancora.
Dalla serra non si scorgevano movimenti, però la sensazione generale di tutti, era che la tribù fosse nascosta lì.
Avendo provveduto a spegnere lo sfavillio di luminarie che circondava la lussuosa villa, l’inquilino armato del piano di sopra, chiese ai proprietari di alcune auto di tentare una sortita all’esterno.
Svuotate, allora, delle bottiglie di prosecco, si procedette alla estrazione di benzina verde e di gasolio dai serbatoi delle auto.
Solo e soprattutto di quelle più datate, però, che non avessero retini o condotti di protezione atti proprio ad evitare il travaso di carburante.
L’intuizione dell’inquilino era corretta, con il favore delle tenebre scese sul parcheggio e con la tribù che si trovava lontana tra le serre; gli imbottigliatori potettero operare indisturbati e non individuati.
Vennero, così, prodotte, con degli stracci imbevuti ed attorcigliati, 12 bottiglie incendiarie; delle vere e proprie molotov, le quali, secondo le intenzioni dell’uomo armato, sarebbero servite da deterrente per il prossimo attacco, che costui riteneva imminente.
Tutti, ormai, guardavano fuori dalle finestre, acquattati e nascosti.
Si fissava il vuoto buio del giardino nel tentativo di scorgere il più minimo e furtivo movimento dei portatori di morte.
“Ecco chi è – proruppe Fernando, stando, però attento a non farsi udire da altri, oltre che da Rino e Jonathan – me lo sono ricordato, quella faccia lunga e quegli occhi da pazzo.
È Mirko Gallucci, è un latitante della ndrangheta, è uno dei 30 ricercati più pericolosi d’Italia!”.
“Smettila di fare il poliziotto – disse Rino, anche lui parlando piano per non farsi sentire – ci sono i nostri amici morti la fuori!
Non è detto che vedremo l’alba di domattina!
Allora, per quanto mi riguarda, non me ne fregherebbe nemmeno se fosse il bandito Giuliano, se ci può dare una mano a tornare a casa!”.
“Ha ragione – intervenne Jonathan – adesso l’unica cosa che conta è uscire vivi di qua”.
Detto questo, il ragazzo si girò a guardare Valeria, che era seduta con le spalle al muro, sotto la finestra, e teneva le gambe tra le braccia, con la testa appoggiata sulle ginocchia.
Incurante la ragazza, ovviamente, data la situazione e lo stato d’animo, che tale posa lasciasse nuda, praticamente, tutta la gamba nel punto in cui il vestito aveva lo spacco.
Jonathan non riusciva a non osservarla ed a non morire per lei.
Lui si sentiva, quasi, in imbarazzo, perché nemmeno in quel momento, tanto assurdamente e profondamente tragico, riuscisse a staccare gli occhi da lei, e stesse, lì, a pensare che Valeria sapeva essere sensuale e magnifica anche nello sconforto di una situazione incredibile e pericolosa.
D’improvviso, però, al latitante, sicario della ndrangheta, Mirko Gallucci si illuminarono gli occhi: “Eccoli, arrivano…”.
Un indigeno corse zigzagando verso la villa.
Si fermò in prossimità di alcune giostre ed urlò: “L’homme blanc il a tuè peuples anciens!.
Peuples anciens vècu en paix avec la nature!
L’homme blanc payer!
Ce soyor!!”.
Il giovane ripeteva ritmicamente la sua folle cantilena.
Elvira venne osservata da tutti, e, mentre era in ginocchio, con la sola fronte a superare il davanzale della sua finestra, procedette con la traduzione: “L’uomo bianco ha ucciso i popoli antichi.
I popoli antichi vivevano in pace con la natura.
L’uomo bianco pagherà.
Stanotte!”.
“Che significa – chiese Domenico, il fidanzato di Valeria, interpretando il sentimento, prima, e le domande, poi, di tutti – che vogliono da noi? cosa abbiamo fatto contro i popoli antichi?”.
Elvira, quasi, in lacrime, disse che aveva tradotto la frase ma che non ne comprendeva il senso.
“Mi ha rotto le palle!” Mirko Gallucci scoppiò di rabbia, fece fuoco.
La giostra deviò il colpo.
Gli altri fermarono Gallucci, perchè poteva essere utile capire cosa volessero gli indigeni da loro.
L’indigeno tremò per lo sparo, ma, incredibilmente, non si mosse e continuò il suo sermone.
Il latitante era assetato di sangue e di rabbia, si divincolò dalla presa degli altri, ed, attraverso la finestra e le grate, centrò il colpo.
L’indigeno urlò, si tenne la spalla sinistra con la mano destra e si diede alla fuga.
Jonathan si accorse che tutti gli invitati erano accorsi, su quel versante, per vedere cosa succedeva.
“Nando – disse il ragazzo a Fernando – quello è il punto più illuminato del giardino, lo sanno che abbiamo una pistola; perché facilitarci tanto il compito di centrare il bersaglio?!?”.
Fernando trasalì
“Tornate alle vostre finestre!!!! Ci vogliono distrarre!!!”
Molti ascoltarono e tornarono alle loro postazioni di vedetta.
Pietro Rummo corse alla sua grossa porta-finestra, con le grate di protezione in ferro, e lanciò un’occhiata nella parte più buia del parco.
L’entrata era alta circa due metri, incavata nella parete, con dei bordi di marmo bianco.
La finestra era in pvc di colore bianco, mentre la pesante grata di ferro, a protezione, a circa un metro dalla finestra, era interamente costituita da rombi collegati alle estremità degli angoli
Pino Nassa era seduto, all’interno, spalle al muro, con la gamba destra fasciata e la freccia ancora conficcata nel lato della coscia: “ Pietro abbassati!” disse.
Pietro Rummo non vide nulla dinanzi a lui, nello spazio aperto, e si girò per tranquillizzare Pino.
Ebbe solo il tempo di percepire uno spostamento ed una variazione nell’intensità della penombra.
Pietro non scorse, appieno, la sagoma nera che si era materializzata dall’altra parte del vetro; lui scorse solo la punta della freccia.
Il dardo fu scoccato, frantumò il vetro e la vita di Pietro Rummo.
Il giovane ingegnere fu trapassato dalla freccia all’altezza del petto e cadde a terra senza nemmeno poter gridare.
Pino Nassa gridò.
Gallucci corse e provò a sparare nel buio.
L’ombra assassina si era dileguata nell’oscurità.
Mariarita urlò tanto forte che, quasi, fece cadere la villa; prima di crollare, lei stessa, a terra.
Osvaldo Guglielmi cercò di rianimarla, dopo aver constatato che per il marito della ragazza non vi fosse più nulla da fare.
Le grida di terrore si mischiarono agli ammonimenti di stare giù e di non offrire bersaglio agli arcieri nemici.
Vedere il corpo di Pietro Rummo a terra, per gli altri, equivalse a vedere la propria morte.
Tutti sentirono la pesantezza di un destino che pareva, ormai, inesorabile.
Purtroppo, seppur fossero protette dalle grate, le finestre e porte-finestre, infatti, erano tante e stare al riparo era veramente difficile.
Anche l’indigeno di prima che aveva attirato l’attenzione, adesso, era sparito.
Si udirono dei rumori provenire dal piano di sopra.
Si zittirono tutti.
“C’è qualcuno lassù con te?” chiese Rino a Gallucci.
Il latitante fissando il soffitto, mentre cercava di ascoltare, rispose di no, nominando, però, il suo fucile che era lì.
Mirko Gallucci ringhiava come un cane, aveva desiderio di uccidere.
Fece segno agli altri di restare dove erano; dopo di che lo ndranghetista si diresse verso l’apertura a scomparsa dalla quale era entrato.
“Dammi una delle pistole” disse Fernando parandosi innanzi a lui.
“Cosa?” rispose Gallucci.
“Se ti ammazzano e prendono entrambe le pistole, siamo fottuti”, replicò Fernando.
Gallucci stette a riflettere: “Perché la sai usare?”
“Sono Beretta 98 FS, penso con matricola abrasa” rispose secco Fernando.
“Sei uno sbirro!” disse Gallucci ritraendosi
Fernando rimase fermo: “Ho perso già troppi amici stanotte, non conta più chi siamo, dobbiamo andarcene da qui, da vivi…poi ognuno per la propria strada…”.
Gallucci si rasserenò: “Non fare scherzi, sbirro..” e porse l’altra pistola, con un caricatore di riserva, a Fernando, il quale annuì.
Rino si aggregò alla spedizione.
Jonathan si rammaricò di non avere il coraggio di farlo, seppur si sentisse, parzialmente, rinfrancato dal fatto che anche Domenico, il fidanzato di Valeria, non si facesse avanti come volontario.
Seppur i rumori fossero cessati, intanto, la sensazione di avvertire una presenza nello stabile, era tangibile.
Qualcuno era dentro.
Di sopra.
I tre salirono le scale, non si sentiva nulla.
Mirko Gallucci, Rino e Fernando furono sopra.
C’era un corridoio, subito dopo le scale, con tre porte ed altrettante stanze per lato.
Cucina, bagno, ripostiglio, studio, locale lavatrice ed asciugatrice e dispensa; le stanze aperte e spaziose furono superate, senza incontrare nessuno.
Nel buio e nel silenzio, i tre avanzarono ed entrarono nello sconfinato salotto con un mastodontico divano in alcantara, il bancone bar ed un televisore talmente grande da sembrare lo schermo di un cinema.
Quindi il muro, la porta scorrevole aperta, ed i tre furono nella camera da letto.
Laddove v’era un letto a due piazze, due armadi, uno contenente vestiti maschili, mentre l’altro adibito a contenere vestiti ed oggettistica per signora.
Guardando il secondo armadio, Gallucci sospirò: “ Meno male che c’eravate voi della festa e non l’ho fatta venire” riferendosi, forse, alla moglie.
Un altro sconfinato televisore, poi, era attaccato alla parete.
Null’altro.
Si doveva uscire nei terrazzi, adesso, e, poi, sul tetto; i luoghi da dove, prima, Gallucci aveva fatto tiro al bersaglio con i due indigeni abbattuti.
I tre, lentamente, in silenzio e con circospezione si portarono ad una porta-finestra che dava sui terrazzi.
Entrambi gli armadi della camera da letto erano stati acquistati da una fabbrica del luogo.
Non erano di fattura dozzinale, come quelli dei grandi magazzini, fatti di compensato o in cartongesso; questi manufatti, seppur di disegno e foggia moderni, erano solidi e resistenti.
Il punto di giuntura dei due mobili, poi, era certamente la parte più forte e capace di sopportare il peso, di entrambi gli armadi.
Gallucci non si domandò per quale motivo le ante dell’armadio che, alternativamente, sua moglie prima e la sua “amichetta”, poi, utilizzavano quando gli facevano visita; fossero entrambe aperte.
Le ante di entrambi gli armadi, quelle di destra dell’armadio delle signore e quelle sinistre del mobile di Gallucci, infatti, si toccavano.
Da tale punto, in cui i due manufatti si toccavano e dalle ante aderenti, discese, silenziosa, una figura esile.
Gallucci, Fernando e Rino erano fuori, procedevano in fila indiana, però si mantennero aderenti alla parete esterna, senza andare fino alle ringhiere del terrazzo; perlomeno, non fino a quando non si sarebbe verificato che anche sul tetto non vi fosse nessuno.
Rino era il terzo della fila, aveva il grosso coltello in mano e, stranamente, non provava nessuna remora e nessun timore al pensiero di dover sopprimere o fare del male ad un altro essere umano.
L’aver visto la tragica fine di molti suoi amici aveva generato, in lui, solo odio e rancore verso quegli strani e silenti assassini che elargivano morte a persone inermi ed innocenti.
Non era solo lotta per la sopravvivenza, non era solo mors tua, vita mea; era vendetta, desiderio di farla pagare a quei maledetti.
Mentre seguiva questi pensieri, Rino sentì uno spostamento d’aria alle sue spalle, si girò e fece solo in tempo a gridare ed abbassarsi.
Dalla stessa porta-finestra dalla quale erano usciti loro, si era materializzata una figura nera e silente che si scagliò contro i tre brandendo un lungo pugnale.
Abbassandosi, Rino eluse il fendente dell’indigeno che, però, colpì Fernando sull’avambraccio sinistro, proprio nel momento nel quale, quest’ultimo, lo aveva eretto, in orizzontale ad improvvisata difesa.
Fernando urlò, provando a liberare il campo alla sua pistola, tenuta nella mano destra.
Rino accovacciato, però, senza riflettere caricò l’aggressore con indistinta furia cieca.
I due caddero a terra.
L’indigeno perse il suo pugnale nella caduta, si rialzò e si diede alla fuga verso le scale, esterne, coperte e sbarrate dalla porta di cartongesso.
Rino avrebbe potuto affondare il suo pugnale nella schiena del nemico, ma esitò perché, nonostante quanto avesse pensato prima, non trovò il coraggio di sopprimere, così selvaggiamente, un altro essere umano.
Mirko Gallucci no.
Lui non ebbe alcuna esitazione, anzi con un’espressione sadica e soddisfatta si staccò dal muro e fece fuoco alla schiena del fuggitivo, il quale urlando si irrigidì e cadde a terra prima di raggiungere le scale.
Il latitante aveva abbattuto l’intruso, però, per farlo, era uscito allo scoperto.
Aveva dimenticato che sul tetto ci poteva essere qualcuno: e c’era.
Gallucci fu centrato da una freccia proveniente dall’alto, alle sue spalle.
La fortuna del latitante, in quel momento, fu che era girato di lato per eliminare il fuggitivo di prima.
Il dardo, allora, gli sfilò dietro il collo, senza penetrare nella spalla.
Nonostante il tiratore ed il suo bersaglio si trovassero a pochi metri di distanza in linea d’aria, infatti, riuscire a conficcare la freccia in una figura magra e smilza come Mirko Gallucci, girato di profilo e con un buio quasi totale; sarebbe stata un’impresa impossibile anche per il migliore degli arcieri.

Leggi il capitolo 1

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

“7 euro al chilo!!”.
Rosangela in quel momento si sentì più alta di dieci centimetri.
La ragazza volle ripetere questa frase, a voce alta, come una rivelazione miracolosa.
Era il modo di dimostrare a Mariarita, Doris e Daria che erano state delle infedeli a non prestarle credito, per le sue informazioni in materia di organizzazione di feste.
D’altronde, tutte le offerte di preparazione del buffet che fino ad allora erano state vagliate ed illustrate, alle tre ragazze, erano ricompresse tra i 13 ed i 15 euro a chilo per un assortimento di rustici, panini napoletani, tramezzini, arancini, crocchè e supplì di riso.
Rosangela, però, aveva sentito di questa pasticceria che vendeva, lo stesso assortimento, a 7 euro al chilo, ed allora aveva subito voluto diffondere la sua riuscita attività di intelligence gastronomico-festaiola, alle sue amiche.
Certo, la ragazza, non aveva prestato particolare attenzione alle notizie di molteplici chiusure che erano state inflitte a quel locale per aver usato, tra le altre cose, burro scaduto, farina di provenienza ignota, manodopera immigrata irregolare, ed altre piccole amenità che per Rosangela sembravano, infondo, non avere eccessivo rilievo.
Anche perché “ogni 50 euro di spesa, c’era un vassoio di pasticcini in regalo…!!”.
Ed allora, l’affare venne concluso senza troppi ripensamenti.
La missione da dover portare a compimento era organizzare la festa a sorpresa per il fratello di Daria, Piero che compiva 30 anni.
Egli aveva, da poco, perso la sua giovane moglie.
Una tragedia, questa, che aveva gettato nello sconforto tutti gli amici dei due giovani.
Soprattutto per l’affetto che ognuno di essi aveva per Eliana, la cui straripante vitalità, l’innata simpatia ed il coinvolgente entusiasmo che la caratterizzavano; ora mancavano tanto ed avevano lasciato un vuoto in tutti quelli che l’avevano conosciuta.
La festa di compleanno, allora, serviva anche a questo, a risollevare un po’ il morale di tutti dopo la tristezza del subitaneo distacco.
Anche per questo motivo, oltre alle cibarie, era stato organizzato tutto alla perfezione.
Le ragazze avevano, infatti, trovato una vecchia masseria, da poco ristrutturata, adibita ad ospitare cerimonie, persa in una sperduta campagna e raggiungibile solo da un’unica strada, peraltro non completamente asfaltata.
“Villa Claudia” era un posto davvero isolato, ma insolitamente, elegante.
L’ennesimo tentativo di realizzare un finto agriturismo a spese dei contribuenti, per poi ottenere il finanziamento statale, trasformarlo in un ristorante-albergo e scansare, così, le tasse che pagano, invece, le altre attività di ricezione e di ristorazione regolari.
Ad onor del vero, poco oltre il prato all’inglese che circondava tutto lo stabile, si trovava, davvero, una sorta di coltivazione sotto le serre.
Retaggio, probabilmente, della vera ed antica destinazione del sito, quella cioè del lavoro agricolo.
Lavoro divenuto, poi, poco remunerativo a causa dell’incontrastata invasione delle merci di importazione a basso prezzo, ed accantonato in favore della trasformazione in struttura recettiva, pagata dallo Stato.
L’accordo con i proprietari era chiaro, l’affitto comprendeva anche l’utilizzo della cucina.
Salvo, poi, dover rimettere tutto a posto come prima, entro la serata del giorno dopo.
C’era, soltanto, un piccolo inconveniente dovuto al fatto che la zona fosse assolutamente non coperta dal segnale di cellulari, tablet ed altre apparecchiature ad onde elettromagnetiche.
Questo stava a significare “silenzio radio”, per tutti, e nessun aggiornamento, costante, sui social network per narrare di quante volte si era stati al gabinetto o dei pasti che ci si accingeva a consumare.
Tale inconveniente, però, non sembrò un gran problema, visto che, anzi, tale mancanza, semmai, dava a tutta la vicenda, ancor di più, un alone di segretezza e riservatezza.
Ed infatti, Piero non doveva sapere nulla fino a quando non si sarebbe trovato nella sperduta dimora, con tutti i commensali ben piazzati a tavola.
Era stato ideato anche il modo di condurlo in quel luogo ameno.
Gli invitati dovevano radunarsi in un punto preciso ad un ora stabilita, quindi, tutti insieme, dovevano raggiungere Villa Claudia.
Da lì attraverso il solo telefono fisso della tenuta, sarebbe, poi, partita la telefonata sul cellulare di Piero da parte di Rosangela.
La quale avrebbe inscenato un guasto alla macchina ed un accorata richiesta di aiuto all’amico, quest’ultimo, allora, si sarebbe subito precipitato a soccorrere l’amica in difficoltà, peraltro invogliato da un gruppetto di altri amici, che in quel momento si dovevano trovare, proprio, a casa di Piero.
Tutto preparato a puntino, quindi, salvo il fatto che in un eccesso di zelo e di foga organizzativa, Daria aveva fissato il punto di incontro, quasi, sotto casa di suo fratello Piero.
Il quale, alle 18 e 30 di quella domenica di Maggio vide, praticamente, sull’altro versante della strada, giungere una ventina di auto, “conosciute”, sotto il condominio dove abitava.
Dapprima, il giovane, non prestò troppa attenzione a quell’assembramento, considerato il fatto che lì sotto si trova una famosa cicchetteria.
Ma quando riconobbe buona parte delle auto in sosta e vide, poi, scendere dalle vetture una cinquantina di suoi amici, Piero dovette subito realizzare e rendersi conto di quanto stesse accadendo.
Il festeggiato, allora, stette al gioco e fece finta di niente con i complici che aveva in casa, anzi, apprezzando sia l’intenzione che la faciloneria con cui tale intendimento era stato realizzato, si lasciò trasportare dagli eventi.

Jonathan Forlini ricevette l’invito alla festa a sorpresa di Piero Monte, non senza considerare che fosse stato chiamato per “fare numero”.
Questo non perché Rino e Fernando, che lo avevano materialmente avvisato, non fossero suoi amici; anzi si conoscevano e frequentavano da una vita.
Ma perché era stata Rosangela a invitarlo, sincerandosi circa il mantenimento del più stretto riserbo riguardo alla notizia.
Jonathan si chiedeva quando mai si fosse scambiato più di un ciao con Rosangela?
Comunque c’erano tutti, proprio tutti, ed allora…
Quando si trovò nel giardino di Villa Claudia, venti minuti prima delle otto di sera, Jonathan notò l’assoluta lontananza di quel luogo da ogni parvenza di urbanizzazione.
Ogni indizio, immagine o dettaglio di quel posto rimandavano ad un passato contadino.
Il giardino era ampio, il prato curato, le giostre, gli alberi di ulivo posti in fila, davano un senso di serena quotidianità e travalicavano il significato stesso di tempo e del susseguirsi di cicli e generazioni.
Ai confini di quel quadro di civiltà contadina si stagliavano, poi, a perdita di occhio, i boschi, tranne che verso ovest dove invece si trovava una sterminata fila di vivai agricoli e di serre.
La casa era grande, come quelle di una volta, con il tetto in legno, ed era composta di due piani, dei quali, si accedeva al più alto attraverso una scala esterna che era stata coperta con dei pannelli di vetro plastificato dai bordi bianchi di plastica e sbarrata con una porta in cartongesso.
Al piano terra c’erano la reception, la sala principale, più una sala più piccola, una cucina ed i bagni rimodernati.
Mentre non vi era modo, a parte la scala, esterna, di giungere al piano superiore.
Quando Jonathan entrò nella sala principale con Rino e Fernando, notò che le ragazze si davano un gran da fare.
Con quella innata e naturale capacità che hanno le donne di ordinare ed accomodare l’ambiente che le circonda, infatti, le organizzatrici, tutte insieme, sembravano un formicaio in fase di allestimento.
Si poteva solo ammirare, in silenzio, tanta solerte risolutezza nell’allestire il proscenio della festa che si approssimava.
Ma i tre malcapitati ragazzi furono, comunque, quasi subito travolti dall’onda impetuosa costituita dalla premura delle ragazze di dover finire, per tempo, la preparazione.
E con quella, altrettanta, connaturata capacità che hanno le donne di saper comandare gli uomini, i tre ragazzi vennero, prontamente, adibiti a compiere delle specifiche mansioni nelle quali non avrebbero potuto fare molti danni.
La tenuta in campagna, in quel momento, dava la sensazione di essere un alveare in piena attività, governato da uno stuolo di api regine che dirigevano l’allestimento dei locali.
Alcune erano già arrivate in giornata e si erano prodigate in cucina con le preparazioni delle pietanze calde.
Il menù prevedeva un aperitivo di ingresso, costituito da piccoli rustici, olive, patatine e tramezzini; oltre alle leccornie scovate ed ordinate da Rosangela.
Per poi passare alla occupazione dei posti a sedere, con tutti ai tavoli rotondi presenti nella sala grande.
Ove sarebbe stato servito, dapprima, un composè di mare, con pesce spada, baccalà, pannocchie, salmone, vongole e polpo.
Quindi si sarebbe passati al risotto alla pescatora ed alle fettuccine al prosecco ed alle capesante.
A questo punto, poi, si sarebbe virato su un secondo di carne, voluto da Mariarita e da Rosangela che avevano prevalso e messo in minoranza Daria e Doris.
Tale secondo di carne consisteva in una scaloppina al limone.
Una bella insalata caprese come contorno, quindi fragole con la panna per preparare il palato, degli astanti, al “faraonico” buffet di dolci.
Anche questo preso a 7 euro al chilo…
Jonathan, intanto, si ritrovò ad entrare spesso, con una scusa o l’altra, in cucina.
Voleva vederla…
Lei era lì.
Valeria la sorella minore di Mariarita.
Era stata lei, il principale motivo, per il quale Jonathan aveva accettato di eseguire le disposizioni di Rino e Fernando, e di prendere parte alla festa a “sorpresa”.
Il ragazzo, difatti, era a conoscenza delle motivazioni che spingevano, entrambi, i suoi sodali: Rino Morselli stava, infatti, “tacchinando” Rosangela, cercando di circuirla con false dichiarazioni amorose e propositi simulati; al solo fine di poter copulare con lei.
Mentre Fernando Villario era, a tutti gli effetti, il guru della comitiva, prodigo sempre di consigli ed alte massime di saggezza per tutti.
Anche se al contempo, quest’ultimo, nutriva una passione celata, a tutti, così come forse anche a sé stesso, per Doris Rizzo; una delle componenti del gineceo organizzatore.
Jonathan sentiva battere il cuore forte ogni qual volta vedeva Valeria Camuso.
Lei era il motivo per il quale Jonathan era, spesso, presente nelle iniziative di quella combriccola, della quale, lui, non si sentiva, affatto, un componente.
Valeria Camuso sembrava una polinesiana, con la sua pelle color smeraldo, i suoi lunghi capelli di un nero corvino ed il fisico sodo, dalle forme molto pronunciate.
Lei era una bomba che esplodeva, ad ogni suo avvistamento, nella testa e negli occhi di Jonathan.
Valeria, però, era fidanzata con Dino Minelli.
Per ora, ovviamente…secondo Jonathan…
I preparativi giunsero a compimento, proprio, mentre calava l’oscurità.
Anche grazie al fatto che, il giorno precedente, Daria, Mariarita, Rosangela e Doris Rizzo erano state nella villa a depositare la spesa ed a effettuare le prime preparazioni di base.
Piero arrivò come da copione, e, seguendo appieno i canoni del canovaccio, si mostrò sorpreso da quanto stava accadendo.
Seppur qualcuno notò che il neo trentenne si fosse già vestito, di tutto punto, ed abbigliato con una mise elegante; alquanto poco consona con il semplice giro con gli amici, al quale era stato, invece, invitato dai suoi “adescatori”.
L’effetto musicale, all’ingresso di Piero, costellato dalla colonna sonora di “Jump” dei Van Halen, con tanto di tappeto rosso, parve eccessivo a molti.
Così come gli strani aggeggi, distribuiti agli invitati, dalle organizzatrici, che proiettavano un flash, a comando, simile alle macchine fotografiche; parve pomposo ed, a tratti parossistico, a molti.
Intanto uno stuolo di smartphone suggellava la scena dell’ingresso del festeggiato, rendendo il tutto ancora più kitsch e pacchiano.
Anche se, tali filmati non sarebbero stati divulgati fino al ritorno nel “mondo civile”.
Jonathan era tra coloro che giudicavano troppo sfarzose ed appariscenti le manifestazioni allestite per una semplice festa di 30 anni.
Anche se il giovane, più che prestare attenzione a Rino che pontificava sulla stupidità di Daria e sulle forme prorompenti di Rosangela o a Fernando che, come suo solito, aveva calato, in quel marasma, il suo “carico da 90”, esibendo e suonando una trombetta da stadio di calcio; guardava Valeria.
Era bellissima con un abito estivo lungo, con le spalle scoperte ed uno spacco alla gamba sinistra.
Jonathan era senza fiato, la fissava inebetito.
Lei se ne accorse, come già era successo altre volte, e degnò il ragazzo solo di un veloce sguardo di rimprovero.
Quasi come a voler dire: “Non ti vergogni a sbavare in quel modo, davanti a tutti? Non lo vedi che c’è il mio fidanzato!?”.
Era tutto inutile, per Jonathan, lei era il Sole e la Luna.
Il sontuoso buffet orchestrato da Rosangela, intanto, ebbe inizio.
Effettivamente il prezzo modico e dozzinale della fornitura di piccoli artefatti rustici, come frittatine di pasta, arancini di riso, olive ascolane, panini napoletani, mozzarelline in carrozza quadrate, frittelle di fiori di zucca e panzarotti, ne permise una acquisizione in quantità industriale.
La vista d’occhio dei tavoli, imbanditi ed abbondanti, fu faraonica.
Anche se l’assaggio, poi, non fu sempre impeccabile, denotando qualche pecca nella qualità delle materie prime.
Qualche mormorio soffuso e trattenuto, allora, si levò in protesta, facendo il paio con qualche viso storto e qualche smorfia, e Rosangela venne, seppur in maniera silente, additata dalle amiche come responsabile della naufragata sortita.
La ragazza sentendosi ghettizzata dalle altre organizzatrici, si irritò e, cercando di mantenersi in equilibrio sui vertiginosi tacchi, data la sua statura non proprio slanciata, così come i capelli corti che non le facevano certo guadagnare centimetri; si lanciò alla ricerca di Rino per trovare spalla e manforte alla sua “ sfogata” contro le amiche.
Rino, una volta scovato da Rosangela, accettò di buon grado di fungere da interlocutore di costei, e non perché fosse d’accordo o prestasse attenzione a quanto lei dicesse; ma perché, con il suo piatto di plastica colmo di rustici di infima qualità, il giovane si perdeva con lo sguardo nell’abbondante decoltè della ragazza.
Fortunatamente, i bocconcini di mozzarella scelti da Marta Tremendi, altra organizzatrice, e l’insalata di pasta preparata da Doris Rizzo erano di qualità sopraffina, ed ottennero il plauso e l’approvazione di tutti.
Frattanto, Silvio Tremendi, fratello di Marta, nonchè proprietario di una famosa pizzeria in paese, uscì, in quel momento, in giardino ed iniziò a rullare il suo tabacco, preparando la cartina con la quale lo avrebbe avvolto.
L’enorme giardino curato ed equilibrato, con le giostrine sparse qua e là, era illuminato da lampade incavate nel terreno e da qualche piccolo lampione sollevato a poco più di due metri.
Era scesa la sera, anche se l’aria non si era rinfrescata per niente.
Certo era meglio stare dentro con la musica e l’aria condizionata.
Però Silvio doveva fumare.
Lo stesso pensiero che aveva avuto Pino Nassa, il chitarrista del gruppo rock contattato per allietare la serata, il quale che aveva accettato l’ingaggio, così come gli altri componenti della band, solo per l’entusiasmo indotto dal “board” organizzatore dell’evento ma soprattutto, in cambio dei barili di Peroni ghiacciata.
Silvio vide Pino Nassa e comprese che il suo momento di quiete era sfumato.
L’iperattività e la frenetica logorrea del chitarrista, infatti, fracassarono la quiete silente di quella serata boschiva, e non solo…
Silvio dovette sorbirsi elucubrazioni ed ardite teorie di filosofia universale su temi molteplici e diversificati, quali: musica, calcio, conformismo sociale e vacuità del pensiero femminile.
Mentre Pino Nassa, letteralmente, trasbordava di concetti illuminanti ed elevati postulati sociologici, Silvio sentì un bruciore alla parte bassa dello stomaco.
Il ragazzo pensò di aver esagerato con gli antipasti e con il vino di infima qualità e, abbassando gli occhi, si mise la mano sullo stomaco, sentendo qualcosa di freddo.
Fu allora che silvio la vide.
Una freccia conficcata nel suo addome!!
Il giovane si girò, con gli occhi sgranati, verso Pino Nassa, che, invece, non si era accorto di nulla e continuava a parlare ed a saltellare ritmicamente.
Silvio provò a dire qualcosa ma il sangue gli riempì la bocca, prima di cadere all’indietro, e stramazzare a terra.
Pino Nassa, già saturo di alcool, non comprese appieno quanto stesse accadendo e si abbassò per capire cosa fosse capitato al suo amico.
Questo gesto spontaneo del chitarrista gli salvò la vita.
Una freccia sibilò nel buio e si conficcò nel palo ligneo della altalena, lì vicino.
Pino sentì sfilare e vide il dardo entrato nel palo dell’altalena, poi ne vide un altro conficcato nel corpo esanime di Silvio.
Il chitarrista, guardò verso destra, verso il giardino con le giostrine, la serra ed il buio; quindi cominciò ad urlare, correndo come un forsennato verso l’ingresso.
Pino Nassa, quasi, divelse la porta laterale di ingresso quando piombò dentro la sala, letteralmente, rotolando.
Il ragazzo cercò di articolare una frase sensata ma senza riuscirci.
La sua concitazione ed il suo volto paonazzo attirarono l’attenzione di tutti.
Alcuni si portarono all’esterno e quando videro il corpo di Silvio a terra, furono avvinti dal terrore più insano.
Solo dopo qualche secondo, le persone, accorse, notarono la freccia mortale e collegarono questa scena con le grida disperate di Pino Nassa che, intanto, giungevano inascoltate dall’interno della struttura.
Il musicista, infatti, urlava a tutti, di rientrare immediatamente.
Fu tardi.
Michele Corto, un idraulico di 46 anni, separato e compagno di Anita, una giovane ragazza polacca di 27 anni, venne centrato alla testa da un dardo fulmineo.
Cadde a terra stecchito, non riuscendo nemmeno a gridare.
Il terrore si impadronì di quei luoghi.
Alcuni rientrarono, altri corsero alle auto, compiendo, però, la scelta sbagliata.
I pneumatici di tutte le macchine erano, infatti, completamente, sgonfi, forse perchè forati con qualche oggetto appuntito.
Vennero scagliati altri tre dardi che, fortunatamente, causa la sagoma delle auto ed i bersagli in movimento, non andarono a segno.
La paura annebbiò la ragione.
Antonio Dattore, in preda al panico ed all’alcool, si portò al grande cancello e lo scavalcò, lanciandosi in una galoppata inarrestabile sulla strada sterrata e scomparendo nel buio della notte.
Gli altri rientrarono.
Ma era il caos.
Le donne urlavano di paura con un pianto fragoroso ed incessante.
Doris che si era lasciata da qualche mese con Silvio Tremendi, ma che provava, ancora, come immutati, i sentimenti nei suoi confronti, svenne.
Lo stesso mancamento lo ebbe Anita.
Chi riusciva a mantenere un barlume di autocontrollo gridava agli altri di stare giù e lontano dalle finestre.
Qualcuno provò ad utilizzare il telefono della struttura, temendo, però, pur senza una ragione apparente e definita, l’esito sinistro di tale iniziativa.
Il telefono, infatti, non era più funzionante, pareva fosse stato scollegato.
Ora c’era veramente di che aver paura.
Qualcuno aveva, forse, voluto chiudere tutti loro in una trappola mortale.
Il pensiero e l’immagine di due persone là fuori, morte ammazzate, era lacerante.
Sia per i loro semplici conoscenti che per coloro che vi erano più legati.
Non si poteva fare nulla, però.
La situazione era, parimenti, assurda quanto terrificante.
I dispositivi di telecomunicazione mobili erano inattivi in quel luogo a causa della assenza di segnale elettromagnetico.
Il telefono fisso era silente, forse, perché staccato a causa di un sabotaggio.
Le ruote di tutte le auto erano a terra, forse, perché forate.
Due persone giacevano morte in giardino, trafitte da frecce provenienti da un punto non individuato.
I partecipanti della festa non credettero, subito, che quanto stesse loro accadendo fosse reale.
Tutti ebbero l’impressione di trovarsi in un brutto sogno, in una specie di film dell’orrore e che le cose stavano succedendo troppo in fretta per essere vere.
Però era tutto vero.
Anche la morte.
I corpi esanimi coricati in giardino, venivano fissati con lacrime e sgomento dagli invitati, tutti messisi al riparo, nel frattempo, nascosti dietro pareti e colonne.
Le urla delle ragazze, col passare dei minuti, cessarono.
Tutti cercarono e trovarono un riparo lontano dalle finestre e dalle porte di entrata.
Le persone iniziarono a parlare tra di loro, ad analizzare la situazione.
Ci si accorse di essere tutti in trappola.
Erano, infatti, in un posto isolato e le comunicazioni con l’esterno erano impossibili, in qualsiasi maniera.
Le auto erano inutilizzabili.
La sola strada era quella di fuggire a piedi, nella campagna, di notte, come aveva fatto Antonio Dattore.
Ma con quale esito?
Un solo fuggitivo era, effettivamente, sfuggito al tiro dell’ignoto arciere, in quanto questi era impegnato a centrare tanti altri bersagli nel parcheggio.
Se avessero, invece, tutti optato per una tale sortita, di certo l’arciere li avrebbe seguiti e, nascosto tra gli alberi, al buio, avrebbe fatto una carneficina.
Ma poi chi era questo arciere?
Era solo? O erano più aggressori?
Perché aveva attaccato i partecipanti alla festa?
Cosa voleva?
Sterminare tutti?
Perché?
Erano queste alcune delle domande che frullavano nella testa dei partecipanti alla festa, oltre alla disperazione per le due persone morte ed alla paura per la propria sorte.
Istintivamente, allora, tutti cominciarono a chiudere e sbarrare porte e finestre, con le grate di ferro, chiudendole a chiave dall’interno.
Si guardava fuori, in giardino, nell’oscurità, rotta solo dalle luci delle giostre e dai lampioni; aspettandosi, da un momento all’altro, un attacco.
Nella grande cucina, vi erano solo finestre alte, poste alla base del soffitto.
Era un luogo in cui si era al sicuro da attacchi.
“Vaffanculo!!! Te la porti sempre appresso quella cazzo di pistola! In quel marsupio da turista svedese di 70 anni! E adesso, la prima volta nella tua vita che quella pistola sarebbe servita, non ce l’hai!! Certo che veramente sei un genio!!!” Rino Morselli sbraitava, come suo solito, contro Fernando Villario; mentre recuperava un coltello per tagliare il pane, grande come un machete.
Fernando imprecava di rabbia, ben conscio, in quel momento, che la sua pistola di ordinanza della Polizia di Stato, sarebbe stata vitale in quel momento.
Jonathan diceva ai due litiganti di stare zitti, per sentire cosa accadeva dalla sala del ricevimento.
I tre giovani erano, subito, corsi nella cucina ad armarsi.
Grossi coltelli e tridenti per infilzare la carne, difatti, non mancavano.
“Se ha armi da fuoco, ed entra nella Villa, questi coltelli sono inutili, farà un massacro” disse Jonathan rivolgendosi a Fernando.
“Se avesse avuto armi da fuoco, le avrebbe già usate – rispose Fernando – ha solo arco e frecce”.
” Se è uno solo!” Disse Rino.
“Come facciamo a sapere se è uno o più assassini? – chiese Jonathan -dannazione! Non è possibile…Silvio! E l’idraulico! Non può essere…sono morti!!!”.
“Se escono allo scoperto, lo sapremo – disse Rino – se sono in tanti, ci verranno a prendere qua.
Solo che qui ci sono quasi tutte donne, siamo fottuti!”.
“Non sono tanti – disse Fernando – se lo fossero, già sarebbero venuti, adesso, invece se ne stanno nascosti, e forse è uno solo”.
“Perché?” chiese Jonathan.
Rino e Fernando non seppero rispondere.
I tre ragazzi videro passare Daria nel corridoio, di fretta.
Le andarono dietro.
Daria si era ricordata della uscita di sicurezza, posta alla fine del corridoio, quella con la maniglia tubolare a scatto.
La ragazza voleva verificare se tale porta di pvc e vetro plastificato, fosse chiusa e sbarrata per chi cercasse di entrare dall’esterno.
Daria si accorse dei tre ragazzi che la seguivano e si sentì più sicura.
Giunta alla fine del corridoio, alla uscita di sicurezza, Daria Monte si girò nuovamente verso la porta di vetro plastificato.
La ragazza la aprì per verificare se fosse stata chiusa.
La porta si aprì per un attimo sul cortile in sampietrini, prima del giardino verde e delle giostre.
Daria diede una veloce occhiata all’esterno, volendo richiudere prontamente.
Ma non ci riuscì.
Daria Monte non comprese appieno cosa vide.
La figura dinanzi agli occhi della ragazza, non doveva trovarsi lì, in quel luogo, in quel tempo.
Era nudo.
Scalzo.
Indossava solo un qualche indumento, forse, di paglia per coprire la pudenda.
Era dipinto di una qualche vernice nera su tutto il corpo, salvo un ulteriore strato di una qualche vernice bianca sul petto, sull’addome e sul volto.
Riproduceva, in toto, la sagoma e la figura di un indigeno di una tribù africana.
Daria rimase basita da quella immagine.
L’indigeno scoccò la freccia.
Daria emise un rantolo strozzato e cadde all’indietro strabuzzando gli occhi.
L’indigeno estrasse un’altra freccia dalla faretra.
Rino Morselli non sopportava per niente Daria Monte, ce l’aveva sullo stomaco da sempre, ma il modo in cui era stata abbattuta era inumano.
Il giovane perse la testa.
Urlando si lanciò con due grossi coltelli contro l’indigeno.
L’arciere si rese conto dell’assalto e caricò velocemente la freccia, puntandola in avanti.
In quell’istante, però, all’aggressore, gli arrivò addosso il meno grosso dei coltelli lanciato da Rino.
L’indigeno, allora, gridò per il dolore e fece cadere la freccia.
Rino gli era addosso.
L’indigeno tentò una fuga.
Rino scagliò un fendente contro l’arciere che, però, non andò a segno.
L’indigeno era smilzo e veloce, si diede prontamente alla fuga.
Rino era furibondo, lanciò il coltello grande contro le spalle dell’arciere e quando lo sentì, colpito, urlare di un dolore folle, ne fu compiaciuto.
Il ragazzo corse a riprendere il coltello grande per inseguire l’arciere e farlo a fette.
Quando, però, riprese il coltello, Rino vide una scena che gli ghiacciò il sangue nelle vene.
Ce n’era un altro.
Un altro indigeno dietro uno scivolo.
Era sulla destra, pronto a lanciare il suo dardo.
“Vengeance pour les frères!!” gridò l’arciere.
Rino non comprese, però non riusciva nemmeno più a muoversi, chiuse gli occhi.
Ci fu uno scoppio improvviso!
Le cervella dell’indigeno schizzarono via verso la sua sinistra.
Rino gridò e si abbassò di scatto, lo scoppio gli fece fischiare le orecchie.
Dopo un attimo, però, il ragazzo si accorse che qualcuno, da lontano, gli stava gridando qualcosa.
Rino si girò verso la Villa.
Sulla balconata posta al piano superiore, quella dalla quale si accedeva attraverso la scala esterna coperta e che era sbarrata; vi era una figura filiforme ed altissima che stava gridando qualcosa, ripetendolo in continuazione.
“Entra dentro cugliùneee!!! Moooo!!!! Ce ne stanno nu saccu!!!!! Nu saccu!!!!”.
Rino comprese, allora, che quell’uomo aveva sparato all’indigeno, per salvargli la vita e rientrò di corsa.
Fernando e Jonathan chiusero e sbarrarono la porta.
Intanto, dall’interno della sala, corsero tutti all’uscita di sicurezza e vedendo Daria, a terra, con una freccia conficcata nella spalla destra che perdeva sangue; furono, tutti, presi dal panico.
Daria urlava e piangeva, stessa cosa che facevano anche le ragazze accorse, tranne poche eccezioni di alcune dedite a prestare soccorso alla ferita.
Osvaldo Guglielmi, fratello di Nerina, che si era da poco laureato in medicina generale e stava svolgendo la specializzazione in chirurgia, disse di non estrarre la freccia.
Non in quel luogo e non in quel momento, perché la ferita avrebbe necessitato di medicazioni, disinfettanti ed antibiotici che non c’erano nella villa.
Oltre al fatto, poi, che sarebbe stata necessaria una radiografia prima di procedere alla estrazione dell’oggetto appuntito.
Osvaldo fece imbevere dei panni con l’amaro e la grappa e procedette ad una pulitura marginale della ferita, intorno al punto di entrata della freccia.
“Chi è che ha sparato?! – chiese Pietro Rummo, marito di Mariarita Camuso – sono armati!?!”
Rino gli indicò di guardare fuori il cadavere dell’indigeno, raccontando, poi, a tutti della dinamica del ferimento di Daria, della sua aggressione ed inseguimento dell’indigeno e della uccisione dell’altro arciere da parte di qualcuno sulla balconata di sopra.
“Sta al piano di sopra – disse Rino – E’ magro e molto alto e parla… credo…calabrese!?!
Credo, comunque, mi abbia salvato la vita…era finita…il secondo di questi zozzi, ormai, mi aveva sotto tiro”.
“Che ci fa qui? Che vuole da noi?” chiese Rosangela
“Ti ho detto che mi ha salvato, ha sparato a quello schifoso e mi ha detto di correre dentro!”.
“Come si sale sopra Rosangela?” chiese Fernando.
“Non si sale – rispose la ragazza – il proprietario mi ha detto che sopra ci sono, solo, mobili vecchi e basta e che non ci sta niente da vedere lì.
La scala per salire è sbarrata da quel cartongesso”.
“Rino che ti ha detto quello che è stato sparato?” domandò Jonathan, il quale aveva sentito qualcosa durante lo svolgimento dell’azione.
Rino parve riaversi del ricordo e si rivolse a Elvira Nona, la quale lavorava e viveva, con le sue due bambine, a Nizza, in Francia.
“Elvira che significa vengeance pour les frères?” chiese Rino alla ragazza.
“Vendetta per i fratelli” rispose Elvira non comprendendo il senso della domanda.
Frattanto, giunsero, all’improvviso, delle grida dal cancello principale.
Ancora.
Forti e disperate.

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo”, “La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

LeggoScrivo
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.