Comunque sia, avevamo bisogno di quelle persone e perciò decidemmo di seguirle.
Compimmo un aggiramento largo del tragitto che stava percorrendo il nostro gruppo, non molto dissimile da quello che, forse, stavano attuando gli Androguerrieri.
Ci tenemmo a distanza, ben consapevoli che, in tale nostra manovra, avremmo potuto incontrare qualche sentinella nemica.
Ci spostavamo silenti, armi in pugno, attenti ad ogni rumore o punto scoperto.
Ad un certo punto, infatti, perdemmo il contatto visivo con il nostro gruppo.
Però intravedemmo, in lontananza, il paese abbandonato.
Grunes Feld vecchia.
Era il punto dove stava andando a finire la nostra comitiva.
Non incontrammo nessuno e questo ci fece dubitare della nostra eccessiva preoccupazione riguardo la scomparsa dell’intera popolazione della Grunes Feld attuale.
Avemmo, altresì, la certezza che nessuno stava seguendo il nostro gruppo, perché, altrimenti, dal posto in cui eravamo saliti e con la circospezione con la quale ci eravamo mossi; avremmo, certamente, visto chi ci stava pedinando.
Quando, però, ci trovammo in prossimità dell’antico insediamento di Grunes Feld, ci ghiacciammo…
Io per primo guardai col binocolo, impostandolo sulla visione a spettro calorico, poi, lo passai a Valeria.
Li vedemmo dall’alto.
Erano lì.
Erano tutti lì.
Fucili e mitragliatori puntati!
Sui tetti, dietro i muri delle case, sugli alberi e tra i cespugli!!
Era tutto il paese.
Donne, vecchi e ragazzi compresi.
Tutti pronti in agguato a sferrare il loro attacco!
Il nostro gruppo era in trappola!
Caroline e gli altri, stavano andando a grandi passi verso la loro fine.
Gli Androguerrieri avrebbero giocato a tiro al bersaglio.
Non c’era modo di avvisare i nostri compagni.
Non saremmo, mai, riusciti a scendere, in tempo, per bloccare l’entrata del nostro gruppo nella Grunes Feld vecchia.
Pensammo di urlare, però, da quella distanza si sarebbe udita solo la nostra voce e non sarebbero state distinguibili, invece, le nostre parole.
Così facendo avremmo finito per ottenere, probabilmente, l’effetto contrario; perché il nostro gruppo, attirato da urla indistinte, avrebbe potuto, addirittura, accelerare la propria entrata nel paese abbandonato.
Eravamo disperati.
La scena sotto di noi si palesava, già anticipatamente, nel suo funesto e terrificante esito.
Eravamo impotenti dinanzi al volgere di eventi ineluttabili.
Avremmo visto la fine dei nostri compagni di viaggio come in un film.
Da spettatori.
Valeria disse di provare a correre giù per avvisare la nostra comitiva.
Le risposi che era un’azione avventata, perché spostarci rapidamente senza controllare il territorio, ci avrebbe reso dei facili bersagli.
“ Allora spariamo noi!!” disse Valeria.
Rimasi fermo un secondo a riflettere.
“ Lupo non c’è più tempo!!! Stanno per entrare!! Apriamo il fuoco sugli Androguerrieri!! Forse diamo il tempo, ai nostri, di scappare via!!!”.
Accettai.
Puntammo le nostre armi verso il paese abbandonato.
I nostri mirini a campo ultravioletto ci proiettarono le sagome dei cecchini appostati.
Però non riuscimmo a sparare.
La prima immagine che intravidi nel mirino, fu una ragazza coricata a pancia in giù sulla tettoia di una stalla.
Lei aveva il suo fucile puntato contro la strada principale.
Avrei dovuto colpirla alle spalle.
Non me la sentii.
Spostai il mirino da un’altra parte.
Ingaggiai un altro bersaglio.
Era un tizio con la barba bianca.
L’avevo visto la sera prima alla birreria, fare il barbagianni con la barista prosperosa.
Adesso avrei potuto seccarlo, in un solo secondo, con un colpo dietro la nuca.
Ma non ce la feci.
Spostai ancora il mirino.
Puntai un ragazzo dietro l’angolo di un casolare.
Una donna su di un balcone.
E cosi via.
Mollai il visore del mio fucile e mi girai verso Valeria.
Anche lei mi fissava avvilita.
Nemmeno lei, che un tempo era anche stata una di loro, riusciva ad eseguire il suo compito.
Uccidere esseri umani in questo modo, a sangue freddo, era qualcosa che non ci apparteneva e che non eravamo in grado di fare.
Se avessimo avuto la certezza che si trattasse di Crudeliani non avremmo avuto, forse, alcuna remora a fare fuoco.
Però trattandosi di Androguerrieri, nonostante il loro fanatismo parossistico, comunque stavamo parlando di gente che liberava e salvava i propri simili dagli Econazisti e dai Mangiateste.
Intanto, però, i nostri erano, quasi, giunti al punto dell’agguato.
Non potevamo assistere inermi ad una carneficina folle ed insensata.
Valeria, quasi piangendo, mi chiese cosa dovevamo fare per salvare i nostri compagni.
Risposi la prima cosa che mi venne in mente.
Le dissi di non guardare nel mirino.
Di non puntare nessun bersaglio.
Di fare semplicemente fuoco verso il paese.
Lo facemmo!
Prendemmo a sparare all’impazzata verso il basso.
In direzione di quella che un tempo era stata Grunes Feld.
Senza mirare o puntare alcun bersaglio.
Era il solo modo che avevamo di avvisare i nostri compagni dell’agguato imminente.
E lo facemmo.
Da quel momento, quella valle, divenne un luogo di selezione naturale della nostra specie.
Chi era pronto, infatti, chi si era trovato, fortuitamente, ben al riparo o chi era ben armato, lottò per la sua vita.
Chi non aveva eretto difese, chi non si era preparato e chi non si era armato; cadde giù.
Le reazioni furono molteplici ed immediate.
Per qualche secondo gli unici a sparare fummo io e Valeria.
Quindi, pur non comprendendo appieno da dove provenissero gli spari, gli Androguerrieri posero in esecuzione la loro imboscata.
La nostra comitiva aveva reagito, già, alla nostra prima scarica di colpi.
Taluni di loro, grazie alla nostra intuizione, erano corsi indietro nei boschi.
Talaltri si erano nascosti, dove potevano, all’ingresso del paese.
Altri, ancora, erano rimasti accovacciati a centro strada, urlando di non avere intenzioni bellicose o colpa alcuna.
Purtroppo, però, questo non era bastato.
Costoro furono i primi ad essere abbattuti.
Io e Valeria assistemmo alla scena e fummo avvinti da bramosia di vendetta.
Puntammo i nostri nemici nel visore dei nostri mirini e facemmo fuoco.
Gli Androguerrieri, seppur non riuscissero ad individuare la nostra postazione, delimitarono la porzione di bosco dalla quale giungevano gli spari e scaricarono il loro potenziale di fuoco su di noi.
Ma noi non potevamo, purtroppo, abbandonare la nostra posizione.
Perlomeno non in quel momento.
Dovevamo ingaggiare duello e tenere impegnate le Brigate Umane nel conflitto a fuoco, per dare, così, il tempo ai sopravvissuti del nostro gruppo di fuggire via.
Tenemmo fino a che potemmo.
Fino a quando non furono chiare due cose.
La prima fu che a salvarsi, forse, erano stati solo coloro i quali erano fuggiti, dal primo momento nel bosco; mentre nulla potevamo fare, ormai, per quelli, dei nostri, che erano rimasti a terra e, nemmeno per quelli nascosti in paese.
La seconda era che gli Androguerrieri avevano mandato alcuni di loro a stanarci.
Ce ne accorgemmo dagli spari contro di noi che sembravano essere sempre più vicini.
Stavano risalendo il fianco della montagna dove eravamo assiepati.
Non potevamo fare null’altro.
Eravamo per numero e per armamento, troppo inferiori ai nostri aguzzini.
Convinsi Valeria ad abbandonare la posizione ed a fuggire.
Lei non voleva lasciare al loro destino quelli che si erano rifugiati nel paese abbandonato.
C’erano quattro dei nostri a terra in strada, i quali non davano più segni di vita.
Avevamo visto poi, circa sei di noi, cercare riparo tra le case della vecchia Grunes Feld.
Il fatto che si udissero, ancora, spari in paese stava a significare che quelli del nostro gruppo avevano ingaggiato un conflitto a fuoco con gli Androguerrieri.
Valeria non voleva abbandonare quelle persone al loro destino.
Mi gridò contro con veemenza che non se ne sarebbe mai andata di lì e che avrebbe continuato ad aiutare quelli del nostro gruppo, con un fuoco di copertura dall’alto.
Le dissi che c’erano circa otto persone che si erano rifugiate nella boscaglia, e che dovevamo aiutare loro.
Se facevamo in fretta e se ci salvavamo, almeno, avremmo potuto aiutare questi otto.
Ormai il destino di quelli in paese era segnato e se non ci muovevamo, subito, avremmo fatto la loro stessa fine.
Valeria gridò che non se ne sarebbe mai andata da lì.
Però, anche lei, sapeva che non avremmo, mai, potuto salvare quelle persone.
La sua reazione era solo frutto della frustrazione e della disperazione per la sorte di alcuni dei suoi compagni.
Io insistetti ancora che il tempo stava per scadere.
Stavano arrivando.
Avremmo solo finito per farci ammazzare anche noi.
La convinsi, perlomeno, a cambiare posizione; dato che, ormai, i proiettili ci volavano in testa!
Ci muovemmo bassi e veloci tra i cespugli.
Ci accorgemmo ben presto di essere braccati.
Probabilmente, i nostri inseguitori si muovevano in formazione a tenaglia.
Volevano chiudere il cerchio su di noi.
Se ci fossero riusciti saremmo stati circondati.
Ed una volta circondati, gli inseguitori avrebbero chiuso il loro accerchiamento su di noi, fino a stanarci.
Dovevamo essere veloci per sfuggire al tentativo di accerchiamento.
Soprattutto dovevamo percorre una direttrice evasiva rispetto alla loro manovra.
Muoverci, semplicemente in avanti, avrebbe, difatti, significato essere, prima o poi raggiunti, dalle ali dello schieramento nemico.
Dovevamo superare una delle due ali e rompere, così, il tentativo di accerchiamento.
Ci spostammo verso est.
Ormai non si sparava più.
Loro cercavano, solo, di raggiungerci, noi cercavamo, solo, di sfuggire.
Ci lasciammo indietro gli spari che giungevano, ormai lontani, dalla vecchia Grunes Feld.
E con essi il destino di quelle persone, lì assiepate.
Questo ci lacerò l’anima.
Però ora eravamo attanagliati dalla paura di essere catturati e fucilati.
Cominciammo a correre in posizione eretta.
Non fummo presi di mira da nessuno.
Questo voleva dire che, probabilmente, avevamo eluso l’accerchiamento.
Forse avevamo distanziato i nostri inseguitori.
Continuammo a correre a perdifiato.
Era mezzogiorno, quando ci fermammo e ci nascondemmo.
Eravamo, letteralmente, sfiniti.
Eravamo affranti e furenti per l’esito tragico di quella situazione assurda.
Rimuginavamo sulla stupidità dei nostri compagni.
Sul fatto che non riuscissero a comprendere come ci si dovesse comportare in un mondo che, per come la vedevamo noi, era in guerra
Rimanemmo, dunque, circa un ora a vedere se venivamo raggiunti dai nostri inseguitori.
Non giunse nessuno.
Eravamo salvi.
Ma soli.
Bevemmo, mangiammo qualcosa, ci togliemmo gli indumenti sudici di sudore; li avremmo lavati, in seguito, in qualche corso d’acqua.
Li riponemmo, chiusi, in borsa.
Ci lavammo ed asciugammo.
Ci rivestimmo con indumenti puliti.
E ripartimmo verso le quattro, camminando piano.
Tutto era silenzio.
Eravamo arrabbiati.
Con noi, con gli altri, con quel mondo maledetto.
Eravamo frustrati e devastati per la fine dei nostri compagni.
Eravamo spaventati, perché, ormai, soli.
Scambiammo le prime parole, forse solo due ore dopo la nostra partenza.
Valeria mi chiese cosa avremmo fatto adesso?
Purtroppo non avevo una risposta.
Non sapevamo chi di noi era ancora vivo.
Di certo non quelli che avevamo visto a terra per strada e, probabilmente, nemmeno quelli che si erano nascosti nella Grunes Feld vecchia.
Se non erano stati inseguiti, c’era, però, il gruppetto che si era rifugiato nella boscaglia che, forse, si era salvato.
Forse.
Caroline Ramier in quale gruppo si trovava?
Solo lei conosceva un tragitto sicuro per fuggire via da questa Umanità infame.
Anche se, ormai, in questo mondo, il concetto di sicuro era alquanto aleatorio.
Solo chi si sottometteva al razionamento alimentare ed idrico degli EcoNazisti, poteva dirsi al sicuro.
Solo chi accettava le regole della PolVerde sul controllo delle nascite o sull’autorizzazione agli acquisti, poteva, forse, dirsi al sicuro.
Però quella non era vita.
Dover chiedere il permesso per comprare qualcosa in più, per spostarsi, o per fare un figlio; non era la vita che volevo per me e per i miei figli.
Io indietro non potevo più tornare, ormai.
E nemmeno Valeria.
Andammo avanti.
Ricordavo il percorso tracciato da Caroline, soprattutto le fermate per il riposo ed il rifornimento nei piccoli centri.
Ci fermammo in altri due paesini.
Fortunatamente senza altri intoppi.
Chiedemmo se fossero giunti altri trekkers, prima di noi.
Però non avemmo più notizie del nostro gruppo.
Valicammo il confine tra Austria ed Ungheria.
Non trovavamo nessuno dei nostri, da nessuna parte.
In nessun paese o rifugio.
Ci convincemmo che i nostri compagni avevano, solo, deciso di non fermarsi in altri paesi, per evitare attacchi o retate.
Però sapevamo che, comunque, una doccia ed un letto erano necessari, al massimo ogni cinque giorni; ed ormai eravamo a circa dodici giorni dalla battaglia di Grunes Feld.
Nessuno poteva restare tanto tempo a vivere e dormire nei boschi, senza rifornimenti.
Soprattutto nel caso in cui ci fosse qualcuno che si era ferito nello scontro al paese abbandonato…….
Ecco!!!
In quel momento trovammo un barlume di speranza!!
Forse c’era qualche ferito tra i sopravvissuti!
Ed allora avevano evitato i paesini piccoli e si erano diretti ad un centro più grande dove ci fosse un ospedale!
Questo pensiero ci rivitalizzò.
Ora il problema era capire dove?
Un ospedale in Austria o uno in Ungheria?
La preoccupazione che i nostri compagni avessero desistito dal loro intento ed avessero intrapreso la strada del ritorno, ci devastava.
Al solo pensare a questa possibilità, ci sentivamo soli ed abbandonati.
Solo una cosa ci faceva sperare ancora, ed era il fatto che tutti avessimo un PIR molto alto.
Tutti noi del gruppo avevamo un Tasso di Impatto Inquinante elevato e questo ci aveva resi dei Fattori Inquinanti Umani da debellare.
Eravamo degli HPF da Confinamento Giudiziario nei Campi di Rieducazione.
Perciò non potevamo credere che i nostri compagni fossero tornati indietro.
Tutti loro avrebbero trovato la PolVerde ad aspettarli.
Avevano certamente proseguito, erano andati avanti; io e Valeria ci credevamo.
Proprio per questo raggiungemmo la prima città che incontrammo dopo il confine ungherese
Sopron.
Sembrava una città austriaca, con le strade bianche ed i tetti di mattoni rossi.
Era abbastanza grande, ma non caotica.
Cercammo un albergo fuori mano.
D’altronde eravamo turisti che viaggiavano a piedi, di quelli che spendono poco.
Poi questi posti fuori mano, nelle piccole città, accettano, a volte, anche moneta contante e questo era fondamentale per non essere individuato nei propri spostamenti.
Ci lavammo ed uscimmo come due turisti in villeggiatura.
Valeria cercò, invano, anche di farmi tagliare la barba.
La spuntai solo leggermente, perché, effettivamente, era lunga; però lasciai intatto il pizzetto.
La tarda serata di fine giugno era gradevole.
La città pullulava di vita e di gente al passeggio.
Ci sembrò tutto normale.
Nulla in confronto ai luoghi remoti, sperduti e dominati dalla violenza che avevamo, finora, percorso.
Ci sedemmo ai tavolini di un bar ed ordinammo dei frullati di frutta e verdura.
Il cameriere ci fece intendere che, seppur vietate, ci avrebbero potuto servire anche delle bibite gassate.
Rifiutammo per non dare nell’occhio.
Anche se, subito dopo, accettammo delle birre a basso contenuto alcolico; moderatamente consentite.
Ci guardammo intorno scrutando ogni volto ed ogni figura.
Cercavamo i lineamenti conosciuti di qualcuno dei nostri compagni.
Quello che vedemmo, di lì a poco, però, non ci piacque per niente.
Dapprima ci accorgemmo che qualcuno affrettava il passo e si guardava intorno con trepidazione.
Quindi, subito dopo, le persone cominciarono a parlarsi in maniera concitata e molti si alzarono dai tavolini.
Tutti quelli che stavano passeggiando serenamente, presero a camminare spediti ed a dileguarsi.
Non comprendemmo il perché, però, istintivamente ci alzammo anche noi e guadagnammo, subito, una stradina laterale che conduceva al nostro albergo.
Facemmo appena in tempo.
Arrivarono, infatti, in gran numero, con le loro divise verdi ed il simbolo della Terra con un albero incastonato in essa.
Alcuni applaudirono ed inneggiarono ai Guardiani della Natura.
La Polizia Ambientale stavano compiendo un prelevamento.
Non era un rastrellamento, perché la gente che fuggiva via non veniva bloccata dagli Econazisti.
Stavano cercando qualcuno in particolare.
Sentimmo le sirene.
Degli spari.
Percepimmo, pressappoco, la zona dove stava agendo la PolVerde e si stava svolgendo lo scontro.
Poi ci fu il silenzio.
Io e Valeria ricordammo, in quel momento, dopo che per qualche ora l’avevamo dimenticato; il motivo per il quale ci eravamo allontanati dall’Umanità.
Tornammo, fortunatamente, in camera
A luci spente guardammo le strade.
La gente fuggiva impaurita.
Il mondo che, per qualche momento, ci era sembrato bello e normale, era nuovamente, in un attimo, ripiombato nel buio della sua cieca follia.
Passai quella notte, armi in pugno, alla finestra.
Si sentirono, ancora, rumori, spari e sirene; di tanto in tanto.
Il mattino seguente tutto sembrava tornato normale.
Chiesi al personale dell’albergo, tra un po’ di inglese ed italiano, cosa fosse successo la notte prima.
Ricevetti delle informazioni che mi rallegrarono e raggelarono al tempo stesso.
Venimmo a sapere, infatti, che lì a Sopron, c’era un Campo di Rieducazione.
Che erano stati presi dei turisti, solo, qualche giorno prima.
Gente strana che era stata subito messa sotto osservazione non appena entrata in città.
Nelle perquisizioni, poi, erano state trovate delle armi.
I fermati, quindi, erano stati arrestati e condotti al Campo.
Da quel momento, la Polizia Ambientale, ritenendo che il gruppo fosse venuto in città per incontrare altri elementi, destabilizzanti, loro sodali; aveva dato inizio a dei prelevamenti mirati.
Gente del posto con il PIR elevato e che era, già, attenzionata, da tempo, dalle autorità.
Insomma era cominciata la solita “Caccia alle Streghe”.
Il personale dell’albergo era, però, sorpreso dalla anomala e solerte velocità con la quale erano stati puntati e prelevati dei turisti.

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo” La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

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