Dulcis in fundo; il monolite 1, il più grande, aveva anche un secondo piano adibito a palestra e centro benessere.
Quando rincasammo, a sera, eravamo, praticamente, senza parole per tutto quello che avevamo visto.
Ormai cercare di convincere gli altri ad andare via di lì, era, pressochè, inutile.
Passai la notte, come quella prima, in uno stato di dormiveglia sul divano.
Pensai a quel posto.
A quanto fosse strano e singolare.
A quanto fosse, completamente, autonomo dal mondo esterno.
A quanto fosse nascosto.
Lontano da tutto.
A circa 1200 metri di quota.
Perso in una boscaglia fitta e sconfinata.
Non visibile dall’alto, in quanto pienamente mimetizzato e conforme con l’ambiente circostante; fatto caratterizzato da alberi e da quegli ammassi rocciosi.
Fort Apache non aveva entrata od uscita alcuna.
Eppure sembrava fatto apposta per accogliere chi si trovasse a transitare da quelle parti.
Le porte blindate si aprivano da sole.
Il sistema gestionale era intonso e pronto all’uso per il primo arrivato.
In quel luogo era, tutto, una palese contraddizione.
Fort Apache era chiuso ed aperto allo stesso tempo.
Celato e manifesto in maniera speculare.
Chiuso al mondo, ma completamente aperto per chi vi giungeva.
Pareva che quel luogo svolgesse, solo, una selezione naturale della specie.
Dovevi essere abbastanza avveduto per scovarlo.
Quindi dovevi avere il coraggio di entrare in un perimetro murato che non aveva porte o entrate.
Ancora, poi, dovevi interpretare la natura e la conformazione dei luoghi al suo interno.
Quindi dovevi saper utilizzare il sistema gestionale.
Sembravano, tutte, delle prove selettive in serie.
Superate le quali, era come se avessi conseguito il tuo diritto a poter abitare quel luogo.
Era tutto così strano.
Mi addormentai.
Dei rumori all’esterno!!!
Mi svegliai di soprassalto.
Non riuscì, a primo impatto, ad orientarmi.
Eccoli sono arrivati!!!
Sono venuti a prenderci!!!!
Avevo visto giusto!!!
È una trappola!!!
È come la casa di marzapane di Hansel e Gretel!!!.
Ci hanno chiusi in gabbia come dei topi soddisfatti del formaggio trovato.
Aprii la finestra in pvc e la sua protezione di metallo.
Puntai il mio fucile pronto a sparare a raffica!!!
Le prime luci dell’alba mi avrebbero indicato il bersaglio da colpire.
Imprecai contro il mondo intero, quando vidi…i robottini discoidali in azione a tagliare il prato…!!!
Mi misi a ridere.
I giorni che seguirono furono i più belli insieme.
Ognuno di noi sembrava aver trovato la sua dimensione privata e personale all’interno del Forte.
Tanto che, oramai, i nostri incontri, come gruppo, si limitavano, unicamente, agli orari di pranzo e cena.
Poi, per il resto, ciascuno si dedicava alle proprie attività.
Alcuni erano in officina.
Andrea Rozzi costruendo oggetti metallici di uso comune e Albert Prunier cercando di capire a chi appartenessero l’Aviocoptero ed il Blindogommato.
Caroline ed i suoi “segretari” Dario e Iwona Putski, prendevano confidenza con le apparecchiature in infermeria.
La personal trainer Anna Weck si dilettava tra l’attrezzata palestra e le sue strane posizioni corporee orientali, di meditazione, che eseguiva in giardino.
Valeria si studiava, una ad una, le armi dell’arsenale.
Ed io giravo.
Giravo e riflettevo.
Sul fatto che, probabilmente, quel posto non avesse ancora esaurito le sue prove selettive in serie e che vi fossero, ancora, altre cose da dover, prima, conoscere e scoprire; per poterne, poi, usufruire.
Mi convinsi che il perimetro murario fosse costellato da entrate segrete a scomparsa che, presumibilmente, si attivavano, mediante un visore ottico, come le porte.
Però non ne trovai.
Realmente Fort Apache non aveva né entrate né uscite.
Però c’era un Blindogommato in officina.
Ed, allora, vada pure per l’Aviocoptero che era entrato in volo, ed, allo stesso modo, se ne sarebbe, eventualmente, uscito.
Però il Blindogommato doveva essere transitato da qualche parte!
A meno che non lo avessero trasportato in volo.
Però, comunque, in tal caso, tale macchinario, sarebbe stato quasi inutile ed inutilizzabile; in quanto non sarebbe, comunque, potuto uscire da quel perimetro, se non in volo.
L’Aviocoptero, presente al Forte, poi, non era, certamente, in grado di prelevare e trasportare un Blindogommato.
Per tale azione, sarebbe servito, perlomeno, un Naviplano.
Ero convinto, ormai, che conoscessimo, davvero, molto poco di quel luogo.
Col passare dei giorni il nostro mondo divenne Fort Apache.
Il resto era fuori e non ci riguardava più.
Non pensavamo, più, nemmeno, a Belaya Gora, in Yakuzia, sul fiume Indigirka.
Sembrava non fossimo, più, interessati ad andare in Siberia.
Era come se ogni nostra volontà, ogni nostro desiderio ed ogni aspirazione si fossero sopiti; insieme alle nostre ansie ed inquietudini.
Stavamo divenendo parte di Fort Apache.
Ci sentivamo al sicuro tra le sue mura.
Io, però, mi sentivo in gabbia, e, perciò, non smisi di cercare un’uscita.
Fino a che non la trovai.
Ero nel deposito sotterraneo del monolite 2, il secondo in termini di grandezza del Forte.
Anch’esso munito di ogni dotazione necessaria per la persona e la casa.
Fu per mero caso che trovai una semisfera vitrea di colore rossastro posta alla parete.
Mi sembrò strano che in uno sconfinato deposito, nel quale le cose erano ordinate e catalogate in maniera quasi maniacale, c’era qualcosa che era stata messa alla rinfusa.
Come al solito, in quel luogo, bastava riflettere ed avere l’intuizione di cercare qualcosa che, alla fine, la trovavi.
Ero nel reparto prodotti per la casa del sotterraneo, infatti, allorquando notai che le scope ed i bastoni per la pulizia del pavimento, erano appoggiati alla parete in maniera disordinata.
Ne dovetti spostare un bel pò, però, alla fine, trovai quello che stavo cercando.
Era uno strano oggetto di colore rosso, dalla forma semisferica e che pareva, a tutti gli effetti, essere un interruttore.
Stetti un pò a pensare ai pro e ai contro della mia azione.
Dopo di che, d’impulso, lo premetti.
Ci fu uno scatto ed uno scorrimento metallico che aprirono una porta.
Il luogo oscuro all’interno si illuminò ed una rampa di scale si palesò dinanzi ai miei occhi.
Armi in pugno la discesi.
Giunsi ad una porta che sembrava la cassaforte di Fort Knox.
Girai la manopola rotante ed aprì il pesante portale.
Si accesero le luci.
L’interno era areato e, quasi sicuramente, rifornito dalla stessa fonte energetica geotermica del Forte.
Era un ambiente vasto, suddiviso in stanze.
Era un rifugio!!!
Con le medesime stanze del monolite superiore.
Atto ad ospitare, all’occorrenza, le stesse otto persone che dovevano abitare il blocco superiore.
Vi erano camere da letto, cucina, infermeria, sala giochi, etc.
Quel posto avrebbe potuto ospitare i suoi otto occupanti per un tempo notevolmente lungo.
Vi erano depositi di generi di prima necessità, anche laggiù.
Ero sconcertato da tanta straordinaria organizzazione.
Però non ero ancora soddisfatto, perché ci doveva essere dell’altro.
Dovevo solo ragionare e riflettere con attenzione.
Effettuai una attenta ricerca.
Fino a che, nel pannello comandi della cucina, qualcosa attirò la mia attenzione.
Era un pulsante simile a quello del deposito superiore, seppur fosse più piccolo e sistemato in mezzo a pulsanti di forma simile, però, tutti di colore diverso.
Lo premetti pieno di trepidazione.
La parete si aprì.
Luci nella roccia illuminarono quell’antro oscuro.
Era una galleria!!!
Trovai una porta similare a quella incontrata prima.
La aprì e continuai il cammino.
Nella galleria incontrai altre porte, poste sui lati.
Quel cunicolo aveva altre entrate, presumibilmente, riconducibili agli altri blocchi presenti in superficie.
Ormai ne ero certo, quella galleria era raggiungibile da tutti i monoliti di Fort Apache.
Era la galleria principale!!!!
Era la porta segreta del Forte!!
Camminai per circa tre chilometri.
Una scala mi riportò su.
La porta era aperta.
Questa cosa non mi piacque per niente.
Riemersi nel bosco a circa trecento metri dalla cinta muraria!!
Fuoriuscii da una caverna che si apriva in un grosso monolite di roccia ricoperto di alberi e vegetazione.
Mi guardai intorno.
Ero fuori dal Forte!!!
Avevo visto giusto!!
Avevo trovato il punto di entrata e di uscita da Fort Apache!!
Però l’ultima porta, per analogia con tutte le porte incontrate fino a quale momento, non sarebbe dovuta essere aperta…
Chi aveva lasciato tutte le porte chiuse, avrebbe dovuto richiudere anche quella…
A meno che…
Un urlo!!
Uno sparo nel bosco!!
Mi lanciai nei cespugli.
Feci rumore.
Intravidi una figura che correva tra gli alberi.
Corsi nel punto da dove era provenuto lo sparo.
Temevo di sapere…
Trovai una persona a terra.
Era riversa a pancia in giù.
Era stata colpita da dietro, all’altezza della nuca.
Era Dario!!!!
Morto!!!!
Dannazione, cosa ci faceva lì?
E chi era il suo assassino?
Mi misi al coperto, temendo di essere un facile bersaglio.
Il sicario, però, si era dileguato.
Si, ma dove?
Era risalito per il muro ed era andato dentro, o si era nascosto nel bosco?
Era uno di noi, o qualcuno dall’esterno?
Continuai a studiare il luogo, per cercare di risalire alla dinamica.
Realizzai, così, che lì c’erano state due persone.
Dario che correva in avanti ed il suo sicario che lo rincorreva alle spalle.
Imprecai per non aver controllato le altre porte che avevo incontrato nella galleria.
Perché, seppur uno dei due, o entrambi, erano riemersi dallo stesso punto che avevo utilizzato io; la loro porta di ingresso alla galleria non era stata la stessa che avevo aperto io.
Sempre che essi avessero usato la medesima galleria, utilizzata da me, e non ve ne fossero delle altre.
Comunque fosse, ormai, era tardi.
Se l’assassino era uno di noi, di sicuro era, già, tornato dentro e si era precipitato a richiudere il varco di accesso alla galleria sotterranea, aperto in precedenza da lui o da Dario.
Pensavo a “lui” , ben sapendo, però, che il killer poteva essere anche una “lei”.
Tornai indietro e raccontai agli altri, i quali avevano udito e si erano allarmati per lo sparo, della galleria sotterranea
Insieme, facemmo lo stesso percorso che avevo intrapreso, poco prima, e seppellimmo Dario, nel punto dove l’avevamo trovato.
Alcuni piansero, mentre altri rimasero sgomenti senza, quasi, proferire parola.
Quella sera cenammo in silenzio.
Inutile dire che io divenni il principale indiziato.
Seppur, in tal caso, certo non sarei corso a svelare l’esistenza del rifugio e della galleria sotterranei, a tutti gli altri….
Cominciammo, da quel momento, a pensare al Forte ed a quei luoghi in maniera differente.
La possibilità che Fort Apache fosse, tutta, un esca per attirare i viaggiatori, ci inquietava.
Però ci destabilizzava, ancor di più, il pensare che, tra di noi, ci potesse essere l’assassino di Dario.
Da quel momento, ci richiudemmo in piccoli gruppi.
Si parlava sottovoce e si frequentavano, poco, le altre persone.
Ispezionammo il Forte per scovare il covo di un ipotetico assassino che si fosse nascosto nell’ombra, per poi colpirci furtivamente; però non trovammo nulla.
Anche perché, ormai, tutti avevamo realizzato che quel luogo celasse cunicoli e passaggi segreti, dei quali, molti, ci erano ancora ignoti.
Fort Apache non era più, per noi, quel rifugio nascosto, sicuro e protetto, che avevamo pensato che fosse, solo fino a pochi giorni prima.
Ormai giravamo tutti armati e nessuno aveva piacere di stare da solo o in coppia.
Una coltre di sospetti e di dubbi era calata sulla nostra compagnia.
Caroline Ramier stava, ancor di più, con il suo “vice segretario” Iwona Putski e con il suo “amico” Simon Polster.
Andrea Rozzi, Anna Weck ed Albert Prunier sembravano aver allestito un altro sodalizio.
Mentre io e Valeria facevamo squadra insieme, come sempre.
L’aria era divenuta pesante.
L’ipotesi che l’assassino fosse un “esterno” perse consistenza, man mano che ricostruivano la dinamica degli eventi e degli ultimi spostamenti di Dario; allo stesso modo di come, di pari passo ed in maniera direttamente proporzionale, cresceva la nostra insofferenza a dover vivere, tutti insieme, in quello spazio chiuso.
Non riuscivamo a capire perché Dario era stato inseguito ed ucciso.
Quale ne fosse la motivazione.
Però qualcosa doveva aver scatenato la mano omicida dell’assassino.
Non passò molto tempo, ancora, che dividemmo le nostre abitazioni.
Io e Valeria restammo nel monolite 4.
Il gruppo di Caroline si spostò nel Blocco 2, mentre quello di Anna nel monolite 3.
Questa risoluzione ebbe, almeno nel breve periodo, l’effetto di allentare la tensione tra di noi, che ormai era divenuta insostenibile.
Però, comportò un sostanziale isolamento dei tre diversi gruppi, i cui componenti si incontravano, ormai, solo negli spazi aperti e nei monoliti “lavorativi”.
Per il resto ogni gruppo pensava per sé.
Utilizzavamo, insieme, solo gli spazi comuni, ma solo nei momenti in cui ciò era necessario.
Questa suddivisione, comunque, un pò, ci rasserenò.
Soprattutto perché credo che ognuno di noi avesse una propria opinione circa l’identità dell’assassino.
Ed ovviamente, tutti noi, collocavamo il “nemico” tra le fila di un altro gruppo.
Tutto ciò ci faceva sentire al sicuro tra le mura della nostra dimora ed in compagnia dei nostri coabitatori.
Temo che questo fu un grave errore.
Ce ne accorgemmo, amaramente, la notte in cui Caroline giunse urlando terrorizzata, dapprima, al monolite 3 del gruppo di Anna Weck e, quindi, tutti loro al nostro Blocco 4.
Simon ed Iwona non erano rientrati, come al solito, per la cena.
La dottoressa aveva controllato ed i loro bagagli erano nelle loro camere.
Non avevano, quindi, perlomeno autonomamente, deciso di lasciare il Forte.
Molto probabilmente, a questo punto, ci sovvenne che uno dei due doveva essere, per forza, la vittima mentre l’altro il carnefice.
Cominciammo a cercare a tappeto.
Forse eravamo ancora in tempo per salvare la vittima che, giocoforza, individuavamo in Iwona; facile preda del gigante austriaco.
Purtroppo non fu così.
Perché trovammo Simon Polster esanime, riverso al suolo e con la testa fracassata, presumibilmente, da un pesante oggetto contundente.
Lo strazio di Caroline fu irrefrenabile.
In quel momento capimmo che, forse, tra loro due era sorto un qualche sentimento affettivo.
La dottoressa, una volta appurato che il capellone austriaco fosse deceduto, e dopo aver urlato il suo nome con evidente disperazione, crollò in ginocchio dinanzi al suo cadavere.
Anna e Valeria cercarono di sostenerla e di rincuorarla.
Io, Albert ed Andrea ci guardammo in volto e ci comprendemmo subito.
Dovevamo trovare Iwona.
E fargliela pagare.
Non la trovammo.
La corda che avevamo utilizzato per entrare al Forte, la prima volta, però, era stata usata per uscire.
Iwona era fuori.
Anche se c’era la galleria sotterranea per rientrare od uscire a piacimento; quindi non potevamo essere sicuri di dove fosse l’assassina.
Comunque c’era solo lei là fuori ed, in quel momento, pensammo che non era sicuro addentrarsi, là, nei sotterranei o fuori nel bosco.
Quella notte, stemmo tutti insieme a Caroline, al Blocco 2.
Come gli antichi cacciatori nelle caverne, però, tutti noi, a parte Caroline, ci preparammo a dare la caccia a Iwona.
Venne il mattino.
Partimmo.
Uscimmo dall’albero, utilizzando la fune.
Scendere di sotto ci avrebbe esposti ad un potenziale agguato o ad una trappola.
Iwona Putski era una donna di circa 35 anni, con i capelli biondi a caschetto, più rotonda che atletica; era difficile pensare che lei avesse eliminato un gigante di quasi due metri come Polster.
Però era quella l’evidenza dei fatti.
Ed ora dovevamo braccarla senza tregua.
Giungemmo al punto di riemersione di Fort Apache, nel bosco.
La porta blindata dentro la caverna era chiusa dall’interno, come l’avevamo lasciata l’ultima volta.
Da lì non era passato nessuno.
Iwona non era rientrata, perlomeno non da quella galleria; era, ancora, lì fuori.
Difatti la trovammo…
Morta soffocata!!!
Aveva, ancora, i segni sul collo fatti da chi l’aveva rincorsa e strangolata a mani nude.
Come si poteva uccidere in questo modo?
Poi una giovane donna come Iwona?
L’assassino era ancora tra di noi.
E questa certezza lacerò le nostre anime ed i nostri rapporti.
I giorni che seguirono la sepoltura dei nostri amici furono pesanti.
Ognuno di noi poteva essere il mostro che ci stava uccidendo tutti.
Presto o tardi, se non fuggivamo via da Fort Apache, saremmo finiti uccisi dall’assassino o ci saremmo ammazzati tra di noi.
Decidemmo di dividerci in gruppi di due, ciascuno in una abitazione del Forte.
Io e Albert.
Caroline e Valeria
Anna, la quale, data la marmorea e sportiva struttura fisica, non avrebbe avuto problemi, nel caso, a difendersi e neutralizzare il magro e minuto Andrea.
Questo era l’unico modo di sapere chi fosse l’assassino.
Se qualcuno di noi fosse stato eliminato, infatti, il suo coinquilino, sarebbe stato il serial killer.
L’unico problema era il dedalo di gallerie che si snodavano sotto Fort Apache.
Controllarle tutte era complicato.
Tenuto conto che nessuno di noi, forse, conoscesse appieno quel labirinto sotterraneo.
Tutte, però, confluivano nella galleria principale di entrata e di uscita da Fort Apache.
Perlomeno dovevamo dare questo per assodato.
Quello era il condotto sotterraneo nel quale si snodavano tutte le gallerie, per, poi, uscire dal Forte.
La grossa porta blindata che riemergeva nel bosco, era chiusa dall’interno.
Quindi nessuno poteva uscire dal Forte, da sottoterra.
In quanto, ove mai, lo avesse fatto, non avrebbe, poi, potuto chiudere più la porta dietro di sé.
Togliemmo la fune dall’albero, per rendere, estremamente difficile ridiscendere dal muro e, quasi impossibile, entrarvi; perlomeno senza l’ausilio di altre persone.
Ora eravamo tutti dentro.
Vittime ed assassino.
Dovevo scovare l’identità di quel maledetto.
Ad ogni costo.
Capire perché avesse dato inizio alla carneficina, non appena eravamo arrivati al Forte e non mentre eravamo in viaggio.
Collegai tante cose, tante voci, tanti sguardi e tante azioni.
Continuai a seguire un’idea che mi balenava in testa da molto tempo.

l’autore

Giuseppe Borrelli nasce a Caserta il 14/12/1973.
Vive e risiede a Calvi Risorta, piccolo centro della provincia di Caserta, ai piedi del Monte Maggiore. Ha intrapreso gli studi classici ed umanistici, diplomandosi al Liceo Classico “A.Nifo”. Laureato in Giurisprudenza alla Seconda Università degli Studi di Napoli, Avvocato ed ex giornalista pubblicista.
Ha iniziato a svolgere la attività di pubblicista come inserzionista per riviste quali “ Presenza Missionaria” e testate di cronaca locale come “Sting”. Ha collaborato con il quotidiano “ Il Mattino” e con alcune emittenti televisive campane.
Studioso ed appassionato di Fisica e Scienze Astronomiche. Autore, principalmente, del genere Fantasy e Fantascienza, ha sviluppato anche narrazioni a carattere Storico, Thriller e racconti Horror. Tra le sue pubblicazioni: “Il Volto della Bestia”, “Gamurra”, “L’Androzoide”, “I Guardiani di Rameno”, “Il Luparo” La Favola del Sempregiorno” e “The Globster. Il Demone del Corallo”.

Author