Author

Mery Casella

Browsing

“Io non mangio per vivere ma vivo per mangiare” .

Questa frase potrebbe essere il motto di Arturo .
La fame, la brama di riempire lo stomaco , il desiderio di alimentarsi lo manifesto sin dalla nascita .
Il latte materno non gli bastava mai, terminata la poppata , ritornava a piangere e non voleva
staccarsi dal seno. Bruciò i tempi dello svezzamento imparando prestissimo a mangiare
autonomamente e soprattutto a mangiare tanto . Arturo crescendo e soprattutto mangiando, non
divenne certo un bambino filiforme anzi era decisamente in sovrappeso, forse non era obeso, ma
grasso certamente si ! Incomicio ad avere problemi per via della sua costituzione in terza
elementare, quando i suoi compagni di classe lo soprannominarono
“ TREBÙ ’’.
Lui, non riusciva a capire il senso di quel soprannome che gli avevano affibbiato e decise di
chiedere ad un compagno , a suo avviso uno dei più “umani “ , delle spiegazioni.
Il compagno “umano” iniziò ridendo a declamare la filastrocca che li aveva ispirati per quel
soprannome e la filastrocca faceva così :
Ciccio bombolo cannoniere
Con TRE BUchi nel sedere
Con TRE BUchi nella pancia
Ciccio bombolo va in Francia
Ecco ! Era un diminuitivo di “CICCIO BOMBOLO”!!!

NON C’ERA RISPETTO

Passo qualche annetto e Arturo alias TREBÙ si ritrovo alle medie , al soprannome TREBU’, alla
fine si era abituato e non ci faceva caso più di tanto. A scuola non andava benissimo ma comunque
se la cavava, mantenendosi sempre sulla sufficienza , non praticava nessuno sport e continuava ad
essere decisamente in sovrappeso, il cibo era sempre al centro dei suoi interessi . Alle medie, aveva
un insegnante di lettere molto carismatico, un tipo che sapeva affascinare gli alunni quando leggeva
racconti, declamava le poesie o spiegava fatti storici, inoltre era anche il cronista sportivo
del giornale locale. Scriveva soprattutto di calcio e al Lunedì , fra l’entusiasmo degli alunni ,
dedicava l’ora di conversazione, agli episodi calcistici della domenica precedente , l’ora di
conversazione era animata, i ragazzi intervenivano , commentavano i vari goal, discutevano sulle
azioni controverse , sostenevano l’una o l’altra squadra .
Arturo , nell’ora di conversazione calcistica non interveniva mai, non era interessato al calcio e non
avendo niente da dire, se ne stava zitto in disparte, e forse, questo suo estraniarsi da un argomento
così interessante , aveva probabilmente infastidito il suo l’insegnante. Fu cosi che il professore , un
giorno, guardandolo con un certo sarcasmo, di colpo si rivolse a lui dicendogli << e tu ! “ PACIA
RISOT “ , non hai guardato le partite ieri ?.. >>
Il termine “PACIA RISOT “ cioè “ mangia risotto “, rendeva bene l’idea delle abbondanti forme di
Arturo e suscitò una incontenibile ilarità fra i suoi compagni che da quel giorno smisero di
chiamarlo “TREBÙ” , ribattezzandolo
“PACIA RISOT”

NON C’ERA RISPETTO

Finiti i tempi della scuola , Arturo andò a lavorare in una fabbrica tessile , si trattava di un lavoro
manuale ma pulito , operava tutto il giorno con filati di lana e di cotone, era un lavoro che
richiedeva soltanto di indossare un camice nero sopra i propri vestiti.
In fabbrica , la mano d’opera era composta principalmente da donne, e fra le varie le colleghe, ad
Arturo piaceva Luciana. Luciana era l’opposto di Arturo, mentre lui parlava poco ed era
decisamente grassottello , lei era chiacchierona e longilinea .
Arturo non le staccava gli occhi di dosso , rimirando continuamente quei suoi bellissimi occhi
azzurri e quei capelli castano chiari , lunghi ed un po’ mossi. Quando Luciana lo guardava, o
meglio, quando lei sentendosi insistentemente fissata lo guardava e gli sorrideva , lui era portato a
pensare che anche lei nutrisse verso di lui , le stesse emozioni , ma in realtà, quel sorriso , era
semplicemente dettato da un sentimento di compatimento e di pena. Arturo, che amava definirsi
non grasso ma di costituzione robusta, era fermamente intenzionato a conquistare Luciana, al punto
di intraprendere una ferrea dieta ipocalorica, cosa per lui alquanto dolorosa , ma alleviata dal
pensiero di lei.
Inoltre , per attrarre ancora di più la sua attenzione , iniziò a vestirsi con una certa cura, sotto il suo
camice nero, spesso faceva capolino il nodo di una cravatta e quando entrava o usciva dalla ditta,
cominciò a sfoggiare due belle giacche ed un elegante soprabito blu scuro.
Fu così, che scopri che avevano cominciato a chiamarlo “PIPPO” , ancora una volta gli avevano
affibbiato un soprannome , la cosa gli dava un certo fastidio, soprattutto per la figura che ci faceva
nei confronti di Luciana. Luciana , in quei giorni gli sembrava un po’ cambiata , gli era parso che
quando si sentiva osservata, lo guardava e gli sorrideva come al solito ma gettava anche uno
sguardo di intesa alle sue amiche e tutte si mettevano a ridere..
Perché poi lo chiamassero PIPPO , non riusciva a coglierne il senso ed allora lo chiese
“confidenzialmente” ad un suo collega di lavoro, il quale trattenendosi a fatica dal ridere, gli
canticchio un ritornello che faceva più o meno cosi
Ma PIPPO, PIPPO non lo sa
che quando passa ride tutta la città
si crede bello
come un Apollo
e saltella come un pollo
ma PIPPO, PIPPO non lo sa
che quando passa ride tutta la città ….

NON C’ERA RISPETTO

Capi di essere diventato lo zimbello della ditta, provo vergogna e si licenziò, giusto il giorno in cui
Luciana aveva deciso di annunciare ai colleghi , le sue imminenti nozze con un certo Giacomo e
distribuire dei sacchettini di confetti , ce n’era uno pronto anche per lui. Arturo tornò avidamente ai
suoi pasti ipercalorici e si trovò un nuovo impiego , consisteva in un lavoro molto pesante, si
trattava di una catena di montaggio in una ditta metalmeccanica , non era un bel lavoro, ma era pur
sempre un posto di lavoro …
Il caporeparto era una persona molto sgarbata, pretenziosa e polemica , il ritmo di lavoro frenetico.
Ogni turno durava otto ore , con una pausa di venti minuti per un boccone e per il bagno, staccarsi
dalla catena per andare in bagno o a bere al di fuori della pausa, non era visto di buon occhio. Il
lavoro era faticoso e l’età avanzava , presto sarebbero arrivati gli anni per la pensione ma nel
frattempo, vennero preceduti da dei brutti disturbi della vescica, che lo obbligavano a correre in
bagno,almeno un altro paio di volte oltre alla pausa.

Presentò un certificato medico alla direzione ed ottenne il permesso di andare ai sevizi ogni
qualvolta ne avesse avuto bisogno.
Il caporeparto, ricevuto l’avviso dalla direzione, in merito alle necessita di Arturo, comunico a tutto
il reparto le sue condizioni di salute, chiarendo che solo lui , poteva utilizzare con maggiore
frequenza il bagno , perché lui era uno “PISCIALETTO “. .
Da quel momento, i colleghi , quando parlavano di lui , non lo chiamavano più Arturo ma Arturo
Alias … PISCIALETTO.

NON C’ERA RISPETTO

Arrivò la pensione, Arturo organizzo le sue giornate , decidendo di dedicare il mattino agli acquisti,
principalmente mirati alla preparazione del pranzo, al giornale e al bar per il caffè .Abitava in una
piccola frazione e per queste sue necessità , doveva raggiungere in auto il vicino paese .
Quando in passato andava al lavoro, uscendo al mattino e tornando la sera, trovava il cortile
condominiale sempre libero e l’ingresso e l’uscita dal suo box non presentava problemi.
Con la pensione i suoi orari erano cambiati, scopri così che il suo vicino , per abitudine, al mattino
toglieva la macchina dal box e la lasciava nel cortile tutto il giorno , proprio davanti al suo box, con
lo scopo di usarla durante la giornata , senza la scocciatura di entrare ed uscire dalla rimessa.
Ora, quell’auto , peraltro piuttosto ingombrante, gli condizionava fortemente lo spazio di manovra,
obbligandolo ad effettuare forzate e ripetute sterzate, cambi di marcia, retromarce e attenzioni
varie. Operazioni che gli costavano una certa fatica , anche a causa del suo aumento di peso,
conseguenza del rimanere molto tempo in casa e con un frigorifero ben fornito a disposizione .
Gentilmente , fece in modo di incontrare il vicino e cortesemente gli chiese, di non parcheggiare
nel cortile condominiale , per le oggettive difficoltà che la sua auto gli creava nell’ uscire e nel
rientrare dal prprio box. L’uomo non gli rispose, lo guardò dall’alto in basso, accenno un sorriso
sarcastico, fece un’alzata di spalle e se ne andò..
Arturo lasciò passare qualche giorno, poi, visto che il vicino continuava a fare i suoi comodi , lo
affrontò un’altra volta , questa volta, con toni un po’ più seccati , nuovamente gli chiese la cortesia
di non parcheggiare davanti al suo box ma ancora una volta non ottenne risposta , l’uomo
si limitò ad un cenno con il capo, e se ne andò . L’incomprensibile cenno con il capo del vicino,
ebbe modo di capire che non era un cenno di assenso, poiché l’auto, anche nei giorni successivi
era come sempre, sfacciatamente parcheggiata in cortile davanti al suo box.
Arturo cominciava ad essere nervoso per la situazione , a volte, rientrato a casa, dopo aver messo
con difficoltà la sua auto nel box , guardava giù dalla finestra e vedeva che quella maledetta
macchina era sempre li. Una mattina , si affacciò per l’ennesima volta alla finestra, contemplo per
l’ennesima volta quell’auto, come sempre sfrontatamente parcheggiata nel cortile e si senti
ribollire il sangue , capi che non ce la faceva più, capi che si era stancato, capi che era ora di finirla.
Arturo scese, usci dal box con la sua auto , schiacciò con forza l’acceleratore centrando in pieno il
veicolo parcheggiato davanti al suo ingresso, poi continuò , effettuando una serie di manovre per
uscire , ad urtare di volta in volta e violentemente quell’ostacolo che perennemente gli si parava
davanti .Il proprietario della macchina, avvisato dai vicini , di quanto stava succedendo , scese in
cortile e gli corse incontro minaccioso. Arturo, quando lo vide , non esitò , spinse il piede
sull’acceleratore investendolo in pieno e salendo con la macchina sopra il suo corpo e mentre
quello urlava di dolore, lui con calma, mise la retro passandogli sopra un’altra volta e un’altra volta
ancora , rifacendo la stessa operazione quattro o cinque volte. Cadde un pesante silenzio , sotto lo
sguardo dei condomini ammutoliti, il vicino aveva smesso di lamentarsi.
Arturo scese dalla sua macchina e dopo aver guardato, con un mezzo sorriso, quel corpo esamine a
terra , si tolse dalla tasca una barretta di Cioccociok , la scartò, inizio a masticarla e si avvio
tranquillamente verso il suo appartamento.

NON C’ERA RISPETTO

𝑨𝒏𝒈𝒆𝒍𝒐 𝑹𝒆𝒄𝒄𝒂𝒈𝒏𝒊, 𝑪𝒐𝒓𝒏𝒆𝒈𝒍𝒊𝒂𝒏𝒐 𝑳𝒂𝒖𝒅𝒆𝒏𝒔𝒆 (𝑳𝒐𝒅𝒊)

La scelta era caduta su Kalabria Coast to Coast, un cammino a piedi di 4 giorni tra il Mar Jonio e il mar Tirreno nella parte più stretta della penisola, entroterra calabro tra Soverato e Pizzo.

Io e Sandro con Marco e Paola ci ritagliavamo spesso qualche giorno per stare insieme e staccare di netto dalla città e dalla quotidianità. Avevamo fatto “viaggi di bici”, “viaggi di mare” e di montagna ma mai “di cammino” come dicevamo in un gioco lessicale tutto nostro.
Il primo giorno era volato tra il mare azzurro di Soverato e le colline, inaspettatamente verdissime, abitate da distese di ulivi secolari, filari di vite e fichi d’india. A Petrizzi, un paese di 746 anime dove eravamo arrivati all’ora di pranzo, eravamo stati accolti con un’ospitalità che ci aveva colpito. Avevamo chiesto a una persona incontrata per strada dove avremmo potuto mangiare. Per tutta risposta lui, Carmine, carabiniere ma anche assessore, aveva preso il telefono e chiamato, nell’ordine, i proprietari dell’unico negozio di alimentari che avevano riaperto lo spaccio solo per noi e il Don, il parroco, che aveva aperto la chiesa per mostrarcela come fiore all’occhiello del posto.
Eccoci lì, sotto un leccio secolare, al centro del paese a chiacchierare con il sindaco, sua sorella, Carmine, il Don e 2 ragazzini con le biciclette.

Il giorno dopo, il cammino ci aveva portato attraverso una faggeta, salendo e scendendo lungo un sentiero attraversato da diversi torrenti ben nutriti di acqua. Non c’era nessuno, sembrava di essere in un mondo antico. Avevamo letto su Google che, in effetti, anche Aristotele era passato per gli stessi sentieri riferendosi al Golfo di Squillace come “all’istmo che fa da frontiera all’antica Italia attraversabile in mezza giornata di cammino”.
La luce filtrava tra i rami, le foglie nuove illuminavano il paesaggio. Sandro era rimasto un po’ indietro. Non era un fatto insolito non vederlo arrivare. Conviveva da qualche tempo con “Alzi”, come ha sempre definito l’Alzheimer che gli era stato da poco diagnosticato, e non era raro che, a tratti, si perdesse nei suoi pensieri.

Stavamo per tornare sui nostri passi quando lo abbiamo notato, nascosto dietro a un albero, il suo sguardo fisso su qualcosa. Ci siamo avvicinati, silenziosi. Un fruscio proveniente da un antro nascosto da una fitta vegetazione aveva attirato la nostra attenzione. Siamo rimasti immobili: due uomini stavano seppellendo un corpo.
Parlavano in un dialetto incomprensibile, a bassa voce, guardandosi intorno nervosamente. Noi, impietriti, riuscivamo addirittura a scorgere il volto del cadavere: si trattava di un uomo tra i 45 e i 50 anni.
Terminato il loro compito i due si erano incamminati per un sentiero secondario senza mai, almeno apparentemente, notare la nostra presenza.
Da quel momento il nostro viaggio era profondamente cambiato e tutte le sensazioni erano state sostituite dallo sgomento e dalla paura. Mai avremmo immaginato di trovarci in una situazione del genere.
Eravamo stati visti? Che fare? Denunciare o tenere per noi quel segreto? Contro ogni aspettativa le nostre posizioni divergevano e un abisso cominciava ad aprirsi tra di noi.
Marco e Paola erano annichiliti dalla paura di ritrovarsi coinvolti in una situazione potenzialmente pericolosa, volevano continuare il cammino, dimenticando quell’orrore per tornare alla normalità. Io e Sandro, invece, sentivamo forte il peso della responsabilità e non potevamo far finta di nulla, denunciare ci sembrava l’unica strada possibile.

Una soluzione condivisa sembrava lontanissima.
Infine, dopo interminabili discussioni, avevamo deciso che fosse il destino a darci la riposta: avremmo estratto a sorte scrivendo su un foglio POLIZIA e sull’altro CAMMINO.
Marco aveva estratto il pezzo di carta, c’era scritto CAMMINO.
Accompagnati da un silenzio pesantissimo, avevamo ripreso a muoverci.
Il giorno seguente non c’era neanche l’ombra dello spirito di avventura, la leggerezza dello stare insieme, la bellezza del paesaggio.
Stavamo seguendo il nostro itinerario finche’ davanti a noi, lungo la strada provinciale, era comparsa una pattuglia dei carabinieri.
Mi ricordo come fosse adesso la loro richiesta di mostrargli i documenti e di dirgli dove eravamo diretti.
Un attimo, uno scambio di sguardi e poi Sandro, spiazzandoci totalmente, aveva incominciato a raccontare tutto ricostruendo la scena nei minimi dettagli.

Altro che “Alzi”, era super concentrato. Il suo sguardo era tornato improvvisamente acuto, le sue parole erano fluide e appropriate e, soprattutto, era diventato rosso, un suo segno distintivo quando si infervorava nelle discussioni che lo coinvolgevano profondamente.
Arrivati i rinforzi, chiamati dalle forze dell’ordine, li avevamo guidati sul luogo del delitto.
Una volta raggiunto il posto però non c’era più nulla: nessun cadavere, nessuna traccia, nessun segno di quello che avevamo visto.
Avevamo sognato? Sandro ci aveva contagiati? Si era trattato di un’allucinazione collettiva?
Ci siamo guardati, increduli, poi abbiamo riso. Un riso nervoso e liberatorio. Era finita.
Abbiamo concluso il cammino ma con Paola e Marco abbiamo smesso di vederci.

𝑽𝒊𝒗𝒊𝒂𝒏𝒂 𝑺𝒂𝒓𝒂𝒄𝒆𝒏𝒊 – 𝑹𝒐𝒎𝒂

Marco aveva dodici anni quando disse ai suoi genitori che desiderava entrare in Seminario.
Quell’anno aveva frequentato la prima media ed era stato bocciato, in un certo senso voleva rimediare a quella grossa delusione, voleva fare qualcosa di importante , qualcosa che lo distogliesse dal pensiero dell’insuccesso scolastico.
La madre, molto credente e praticante, ne fu particolarmente contenta mentre il padre un po’ di meno.

Qualche giorno dopo il suo annuncio, andarono a parlare con il Parroco che gli fece alcune domande ed anche se sembrava poco convinto, si impegnò con la madre, dicendo che avrebbe provveduto ad accompagnarlo ed iscriverlo al seminario della loro Diocesi. A quei tempi , la formazione seminaristica iniziava subito dopo le scuole elementari e una volta entrati, li aspettava una vita austera, di studio e preghiera, sotto una severa disciplina.

Non diventò mai sacerdote, il suo problema era lo studio, se era riuscito a superare la scuola media , il suo percorso nella scuola superiore divenne molto problematico e nonostante i docenti cercassero in tutti i modi di aiutarlo, i suoi risultati erano molto scarsi. Fu così, che giunto all’età di ventidue anni, al termine dell’anno scolastico che stava frequentando , il Rettore del Seminario , con le più belle parole possibili, gli comunicò che purtroppo, non era adatto alla missione del sacerdozio .

Tornato a casa, non gli restava che trovarsi un lavoro, e grazie all’aiuto del Rettore, trovò un impiego in città, in una piccola fabbrica di articoli per l’arredo e la decorazione della chiesa.

Tutto sommato, nel complesso si sentiva bene, aveva trovato un piccolo appartamento in affitto, il lavoro gli piaceva ed inoltre aveva iniziato a frequentare l’oratorio del quartiere. Sapendo dei suoi trascorsi in seminario , il Parroco gli diede l’incarico di catechista per i ragazzi delle medie, cosa che fece con molto impegno ed entusiasmo.

Gli anni passavano ,veloci , uno dopo l’altro, e la sua vita scorreva, un po’ monotona ma nel complesso tranquilla e serena . Aveva da poco superato i trentanni, quando arrivò all’oratorio una nuova catechista , una ragazza più o meno sua coetanea, molto carina e molto religiosa , si chiamava Silvana .

Marco fu colpito dalla sua riservatezza e dalla sua timidezza, sentimento, quest’ultimo, a cui anche lui non era immune. La incontrava tutte le Domeniche, alla messa del mattino, con i ragazzi e le ragazze e al pomeriggio per le lezioni di catechesi. La Domenica pomeriggio , terminate le lezioni , avevano cominciato a fermarsi al bar dell’oratorio, per prendere qualcosa da bere e scambiare quattro chiacchere .
Marco non aveva mai avuto una ragazza, non aveva mai neanche considerato la possibilità che gli potesse capitare una cosa del genere, lui che non aveva conosciuto e neppure cercato l’amore , questa volta, si accorse, che qualcosa dentro di lui cominciava in un certo senso a tormentarlo. Cominciò a non vedere l’ora, che arrivasse la Domenica, per poter vedere quel viso dolce e sorridente ed assaporare la musicalità delle sue parole, era bellissimo trascorrere il tempo con lei, parlando e ridendo per piccole cose e più le Domeniche passavano, più aumentava il tempo che loro due trascorrevano insieme al bar .

Arrivarono così , in modo naturale, anche ad uscire per fare quattro passi per la città ed un pomeriggio, andarono al cinema, a vedere il film di un regista che lei adorava. Durante la proiezione lei appoggiò il capo sulla sua spalla e teneramente appoggiò la propria mano sulla sua, Marco era emozionatissimo ma nel frattempo non sapeva cosa fare. Fu lei a prendere l’iniziativa, alzando la testa dalla sua spalla e raggiungendolo con un bacio sulla bocca, goffamente Marco l’abbracciò e allo stesso tempo sentì qualcosa di umido contro le sue labbra serrate, qualche santo in paradiso gli suggerì di schiudere la bocca e fu così, che le loro lingue si incontrarono e si cercarono.
Fu l’inizio della sua storia d’amore con Silvana, cominciarono a frequentarsi anche durante la settimana, uscendo insieme la sera per una pizza, un film o anche solo per fare una passeggiata.

Quando erano insieme Marco la baciava, l’accarezzava, le passava le mani sui capelli, la stringeva forte a sé ma non osava andare oltre, trent’anni di educazione religiosa lo tenevano lontano da iniziative a peccaminose ed impure …Silvana era a sua volta innamorata di Marco, un tipo carino, dolce, sincero che sapeva essere molto simpatico, il suo modo di fare piaceva ai ragazzi della catechesi e piaceva molto anche a lei.

Silvana però capiva, che in amore, Marco era decisamente un po’ impacciato, aveva intuito che in questo campo non aveva esperienza, e pensò che andasse conosciuto meglio, soprattutto nel profondo del suo modo di ragionare e di amare. Arrivò una sera in cui Silvana si fermò a casa di Marco e dopo aver preparato insieme una cena squisita e romantica, con la complicità di alcuni di bicchieri di vino , arrivò anche l’ora dell’amore.
Erano al buio, nudi nel letto, Marco teneva Silvana teneramente tra le braccia ed ogni tanto le baciava i capelli e la nuca.
Mentre stavano così, silenziosi ed abbracciati, i pensieri di Marco cominciarono a divagare. Cominciò con il pensare che era la prima volta che aveva fatto l’amore, che per la prima volta era nudo in un letto con a fianco una donna nuda, ma cominciò anche a pensare, che quella donna non era vergine e che non si era fatta alcun problema per questa sua condizione.
Indubbiamente, per lei era la normalità, d’altra parte, lui come poteva pensare che una ragazza di quasi trent’anni fosse ancora vergine, l’aveva letto anche su una rivista di chiesa, nella rubrica “lettere al direttore”, dove un lettore aveva scritto, che era anagraficamente impossibile, che una ragazza di quasi trent’anni, potesse essere ancora vergine.

Marco cominciò così ad essere curioso del suo passato e a domandarsi: quando avrà’ fatto la prima volta l’amore? con chi? con quanti? …
Fu Silvana che spontaneamente gli forni delle risposte, poiché cominciò a parlargli di se, delle sue esperienze passate, della sua prima storia d’amore, della sua seconda relazione con un uomo sposato e più’ anziano, ed ancora, di una terza con un collega di lavoro.
Anche Marco, quindi, parlò delle sue esperienze, non le andava di confessarle che lui , di esperienze non ne aveva fatte proprio ed allora si inventò una storia, le disse che lui, in passato era fidanzato con una ragazza , una giovane insegnante di lettere , lo disse così , mentì per sentirsi “alla pari”.

Purtroppo, in un certo senso, i conti non gli tornavano, come poteva essere alla pari con Silvana, lei aveva confessato di aver avuto più relazioni e relazioni di certo non platoniche mentre lui, mentre lui , soltanto quella che aveva partorito con la sua fantasia.
Cercò di scacciare quei pensieri, cercò di sostituirli con pensieri più positivi, perché in fondo era fortunato, aveva trovato la donna della sua vita, una donna bella, intelligente, che lo amava e con cui stava veramente bene.

Più passava il tempo, più l’amava e più stava bene con lei, ma sempre più spesso, nella sua testa si affacciavano brutti pensieri, veniva assalito da una sorte di gelosia nei confronti del suo passato sentimentale e principalmente sessuale.
Cominciò a farsi dei veri e propri film mentali, immaginandosela mentre faceva sesso, cercando di ricostruirne i luoghi, i dialoghi, le sue espressioni e suoi stati d’animo e queste fantasie gli provocavano delle vere e proprie crisi d’ansia , arrivava a sentirsi quasi soffocare, il tutto accompagnato poi da tristezza, depressione e anche rancore.

Silvana, cominciò ad accorgersi che qualcosa non andava con Marco , era certa che lui l’amasse, che stravedeva per lei , ma avvertiva anche, da alcune sfumature di certi suoi discorsi o in certe sue espressioni, una sorta di risentimento nei suoi confronti.
Marco aveva cominciato a farle domande sul suo passato, chiedendole a volte dei dettagli di tipo erotico e lei, ingenuamente, in un primo tempo lo aveva assecondato, credendo di fargli piacere, perché Marco dopo i suoi racconti, si metteva sonoramente a ridere, dando il messaggio che volesse conoscerle più che altro per scherzare e forse anche per eccitarsi un po’.

Ma giorno dopo giorno, la situazione cominciava a farsi pesante, le domande sul suo passato sessuale diventavano sempre più insistenti e le reazioni di Marco alle sue risposte, non erano più basate sulla risata, ma al contrario , poi si adombrava e parlava a monosillabi.
Silvana cominciò a capire che quella di Marco non era una curiosità scanzonata ma una vera e propria curiosità morbosa, ossessiva , oltretutto a volte si sentiva giudicata negativamente per il suo passato.

Marco senza mai dirglielo chiaramente in faccia , ma attraverso giri di parole, di fatto le comunicava disapprovazione per i suoi trascorsi sessuali, riuscendo a volte anche a ferirla profondamente.
Spesso Marco , rifletteva anche sulla sincerità di Silvana, com’era possibile, che non si fosse accorta di quanto lui fosse maldestro e quali saranno state le sue valutazioni , quando per forza di cose, lo avrà confrontato con i suoi ex partner .
D’altro canto, anche Silvana si poneva delle domande, continuava a chiedersi cosa mai Marco dovesse rimproverarle, il passato era il passato , e soprattutto era il suo passato ed a quei tempi lui non c’era, di certo Marco era affetto da una gelosi insana , una gelosia insana e immotivata .

Di fatto, si era ossessivamente focalizzato sull’aspetto sessuale delle sue precedenti relazioni , arrivando addirittura a chiederle descrizioni in merito alle posizioni, ai luoghi ed alla frequenza dei rapporti .
Silvana aveva cercato di capire che tipo di disturbo avesse Marco e cercando su internet scopri che soffriva di gelosia retroattiva, e al riguardo lesse uno scritto che la turbò molto e che diceva :
“Per il geloso retroattivo, non è importante che la partner si comporti correttamente nei suoi confronti, nel qui ed ora, che lo ricopra di attenzioni, che sia presente, amorevole e che soddisfi ogni tipo di bisogno. In ogni caso, la partner verrà giudicata sulla base delle sue storie e degli uomini avuti in precedenza e avrà sempre una connotazione negativa.”

Ovvero il suo passato viene giudicato come costellato da superficialità emotiva , da scarsa moralità , in altre parole, da errori ai quali non è più possibile porre rimedio.
Questo perché il filtro con cui viene valutato il passato della partner riflette la scala di valori e il modo di vedere la vita secondo il geloso, una visione, che ovviamente non coincide con quello della partner…
Mentre Marco lottava contro questa sua insana gelosia, contrapponendo razionalmente, ai cattivi pensieri , tutte le cose belle che Silvana rappresentava per lui , Silvana era giunta ad una decisione.

Fu così, che pur non riuscendo a trattenere lacrime e singhiozzi , gli comunicò la sua intenzione di troncare il loro rapporto, gli disse che non intendeva proseguire con una relazione dove si sarebbe sempre sentita giudicare negativamente , oltretutto per delle sue scelte del passato , scelte che aveva avuto tutto il diritto di fare, scelte che non lo riguardavano e che lui non aveva alcun diritto di criticare.

Invano, disperatamente, Marco cercò di convincerla che sarebbe cambiato, invano Marco si scusò per i suoi pensieri , per i suoi giudizi, poiché Silvana, fu irremovibile e dopo un forte abbraccio , lo lasciò.
I primi giorni senza Silvana furono terribili bui, ora non provava più angoscia o stato d’ansia per il passato ma bensì per il presente, si rese conto, di quanto fosse stato stupido e di cosa avesse perso, per quell’insana forma di gelosia , ora non avrebbe più visto Silvana, nemmeno all’oratorio perché nel frattempo, lei aveva interrotto la sua attività di catechista .

Passò del tempo e piano piano, Marco tornò alla sua vita di sempre, alla sua vita un po’ monotona ma nel complesso tranquilla.
Fu circa un anno dopo la fine della relazione che casualmente , tornando dal lavoro , incrociò Silvana mentre stava passeggiando a braccetto con un uomo e quando lo vide, gli sorrise e si fermò per salutarlo.

Silvana era bella come sempre, forse ancor di più di come se la ricordava , lei gli presento il suo accompagnatore, gli disse che era il suo fidanzato, che era un insegnante di lettere e che a fine del mese si sarebbero sposati.
Marco, balbettando ed in preda ad una sorta di devastazione emotiva , fece loro le sue più vive congratulazioni e dopo qualche breve scambio di convenevoli se ne tornò al suo appartamentino.

Quella notte i suoi insani pensieri tornarono a trovarlo, ritornarono quei suoi film mentali che mostravano Silvana fare sesso con i suoi ex, ma oltre al passato, cominciò a pensare anche al presente, chiedendosi : “chissà cosa staranno facendo in questo momento Silvana con il suo professore di lettere”.

Quella notte, nuovamente, tornarono gli attacchi di ansia , tornarono i mai sopiti sentimenti di frustrazione, rabbia e rancore nei confronti di Silvana, per il suo passato e ora anche per il suo presente , e ancora una volta , Marco si senti come soffocare…

𝑨𝒏𝒈𝒆𝒍𝒐 𝑹𝒆𝒄𝒄𝒂𝒈𝒏𝒊, 𝑪𝒐𝒓𝒏𝒆𝒈𝒍𝒊𝒂𝒏𝒐 𝑳𝒂𝒖𝒅𝒆𝒏𝒔𝒆 (𝑳𝒐𝒅𝒊)

Ciao Sal,

Per quanto il mio animo detti riconoscimento e passione proprio non riesco a scrivere. Non so bene il perché. Sai, non mi è mai capitato. Non riesco altro che masticare versi infranti e note di tristezza su misere righe. Eppure, stasera, il cielo è limpido più che mai tanto da non aver mai visto la luna tanto vivida, circondata da stelle di smeraldo e voci che sanno di parole lontane. Quattro passi, Sal. Quattro passi nella nebbia notturna, tra i selciati che odorano di polvere antica, con aliti di gelo tanto furenti da far tremare le piccole fiammelle delle case in rovina. Tre giorni di dolore tra colpi di tosse e contorte lacrime di veli asciutti. Riesco solo a sentire il tremolio delle mani tenendo la penna e l’agenda scarabocchiata dai tuoi mille conteggi. Per quanto mi sforzi questa prigione mi sembra strana, ma, d’impatto, la riconosco. È il crepuscolo, Sal!
Quel luogo di silenzi assordanti sospeso nel tempo, dove l’uomo e la bestia si confrontano con il loro nemico più grande: se stessi. Per quanto narrare delle nostre innumerevoli imprese combattute su quel convoglio a fermate chiamato “vita”, non possiamo che considerare quanto noi siamo il nostro nemico più terribile e irrefrenabile, rendendoci conto che, quel convoglio, non può che condurci alla condanna finale, poiché così e scritto nei testi antichi con quel titolo dall’inchiostro incancellabile chiamato destino. Adesso non riesco a pensare ad altro se non a quanto la tua morte sia stata strana, Sal! E di come non parleremo più tranne che nei miei pensieri più intimi e profondi, in quei contenitori di legno muffo chiamati ricordi sparsi tra i meandri della mente.
Pensandoci ne ho uno incredibilmente simile a quello usato dagli artigiani per riporre stoffe e utensili da lavoro. Tanto pulito e levigato da credere sia sbocciato da un melograno, tra i campi incolti di terreni fertili. Aprendolo delicato noto che somiglia a quel portico di casa tua, usurato e tassellato di rosso. Quello dove in sere d’estate e spazi assolti ci si sedeva a chiacchierare di piaceri ed esperienze di una vita vissuta. Da quella scatola non puoi fuggire, Sal! Perché li posso farti visita quando voglio, trovandoti in attesa di allegre compagnie. E sentire la tua
voce, nei miei pensieri e in quella scatola, non può che strapparmi sorrisi di piacevole speranza e nostalgia.

E dunque, ti prego, parliamo.

– Così gigantesco mi ti ricordavo. Non te lo nego.

Ti sfioro la mano. Ruvida e smisurata come un vascello britannico. Ti siedo accanto.

– Mi piacerebbe sentirti raccontare una delle tue storie.

Sorridi. Accenni dei sì vogliosi d’attesa.

– Raccontami di quella volta che lasciasti tuo padre dolorante tra gli arbusti spinosi. Quando corresti in cerca d’aiuto.

– Ricordo che successe d’improvviso. Avevamo un terreno coltivato di vigne acerbe e rigogliose. Io e mio padre ci andavamo in bici, si partiva sempre al sorgere del sole.

Accendi una sigaretta. L’aria satura di fumo e acre odore di tabacco vecchio.

– Cominciammo a raccogliere l’uva, poi mio padre accusò dei tremendi dolori ai fianchi. Si decise quindi di prendere le bici e tornare sui nostri passi, fin quando mio padre si accasciò tra i fichi d’india pungendosi le spalle.

– Immagino tu ti sia spaventato.

– Tanto da avere i singhiozzi e pedalando così energicamente da sentirmi le gambe bruciare. Giunto a casa andammo alla sua ricerca con l’asino e il carretto di legno. Impiegammo quattro ore, trovandolo vivo e forte.

– Un gran bell’osso duro il tuo vecchio.

Fai cenno di sì lentamente, come il tuo solito fare.

Ti guardo.

– Duro e di granito. Come te che sei il figlio.

Sorridi.

– Non saresti dovuto morire! Ne sei consapevole, vero? Non adesso. Non in quel luogo. Saresti dovuto tornare in quella maledetta casa. I tuoi cari non si aspettavano certo di vedere rincasare una cassa chiodata.

Fai un altro tiro di sigaretta. Gli occhi tristi. Preferisci non parlare.

– La tua forza serviva ancora. Capisci? Senza di te tutto ciò che si percepisce è paura!

Mi guardi.

– La paura è bene metterla da parte. Come la forza è necessaria tirarla fuori da dentro.

Lo dici tranquillo, con voce che sa di vento freddo.

Adesso piango. Oltraggiando Dio. Perché, diavolo, quante volte gli ho chiesto di riportarti e non farti soffrire. Riesco solo a lasciar spazio a un mare prosciugato, volgendo parole e speranze a chi non mi ha ascoltato. Quindi, Sal, cos’altro potrei chiederti se non di varcare quella porta e vederti entrare a passi lenti e consumati. E quanto vorrei sentirla quella tua risposta, ma sei il frutto dei miei pensieri più malinconici e dolorosi e non fai altro che tacere.

Ti vedo gettar via il mozzicone, lentamente abbandoni il portico tassellato.
Scompari nella nebbia.

E non posso fare altro che guardarti andar via, con la stessa forza che mi hai trasmesso e che mi dà la possibilità di non seguirti, prendendo a pugni una vita malvagia che sa solo metterti in ginocchio.

Penso adesso agli aforismi che amo tanto. Ne uno di un certo Carlos Castaneda che ricordo d’aver letto ed essermi piaciuto. E si! Vorrei leggerti i suoi versi, pur sapendo che era un mondo a te lontano.

“In un mondo dove la morte è il cacciatore, non c’è tempo per dubbi e rimpianti: c’è solo il tempo per le decisioni. Poco importa quali siano. Nulla sarà mai più o meno grave di qualunque altra cosa. In un mondo dove la morte è il cacciatore, non ci sono decisioni grandi o piccole. Ci sono solo decisioni che un guerriero
prende a fronte dell’inevitabilità della propria morte.”

Sento adesso chiamarmi dalla mia coscienza, ed esco chiudendo la scatola con un lucchetto di cui io solo possiedo la chiave. Mi viene da salutarti nel modo più semplice che conosco, ringraziandoti per quanto di bello mi hai insegnato e con il vivo ricordo di pronunciare per te quelle uniche parole che conosco:

Addio Sal! Uomo più forte del mondo.

𝐒𝐚𝐥𝐯𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐏𝐨𝐫𝐳𝐢𝐨, 𝐀𝐧𝐠𝐮𝐢𝐥𝐥𝐚𝐫𝐚 𝐒𝐚𝐛𝐚𝐳𝐢𝐚 (𝐑𝐨𝐦𝐚)

L’8 gennaio 1324 segna il presunto giorno della morte di Marco Polo, l’esploratore veneziano noto per il suo viaggio verso l’Asia orientale e la sua opera “𝑰𝒍 𝑴𝒊𝒍𝒊𝒐𝒏𝒆” (“Il libro delle meraviglie”).

Si tratta di un resoconto dei viaggi di Marco Polo, scritto mentre era prigioniero a Genova nel 1298 all’interno del quale racconta di terre sconosciute e popoli straordinari, descrivendo paesaggi, città, usanze, e raccontando di merci esotiche. Alcuni dei luoghi menzionati includono la Cina, l’India, la Persia e molte altre regioni dell’Asia.

Dopo 700 anni dalla sua morte, vogliamo cogliere l’occasione per riflettere sulle sue imprese e sul suo contributo nella conoscenza del mondo orientale nel Medioevo.

Marco Polo è stato uno degli esploratori più famosi della storia, aprendo nuove vie di commercio e aprendo una finestra sulle meraviglie dell’Asia per gli europei del suo tempo. La sua opera ha influenzato la geografia, la cultura e il commercio dell’epoca, e la sua figura è diventata leggendaria nel corso dei secoli.

Matera, gioiello raro della Basilicata, è un miracolo del tempo che si svela agli occhi del visitatore con un fascino travolgente. La città lucana, infatti, sembra un piccolo e delizioso presepe, per questo è anche definita “la seconda Betlemme” ed è stata lo sfondo di film come Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini e La Passione di Cristo di Mel Gibson.

Il simbolo della città sono i Sassi, grotte scavate dentro la montagna in cui, fino agli anni 50, viveva la popolazione poi costretta ad abbandonare quelle caratteristiche abitazioni per insediarsi in quartieri moderni.

Allora poco considerati, i Sassi di Matera sono entrati nella World Heritage List come esempio di sistema di vita millenaria da preservare e tramandare ai posteri, mentre nel 2019 è stata insignita del titolo di Capitale Europea della Cultura.

A Matera la natura e l’uomo sono protagonisti assoluti di storia, paesaggio e tradizioni, affiancati da interessanti testimonianze del sacro, come le oltre 150 chiese rupestri che, con gli splendidi affreschi bizantini, costituiscono l’omonimo parco regionale.

Nel 2024, inoltre, diventa “capitale” del Cammino del Pane perché con la sua storia antica, i paesaggi suggestivi, la cultura tradizionale offre un contesto unico per celebrare lo stretto legame tra la comunità e il prodotto: il pane come simbolo di vita e nutrimento fin dai tempi più antichi.

Cleto è un borgo medioevale, situato ai piedi del Monte Sant’Angelo, che incanta con la sua vista panoramica sulla verde vallata estesa fino al Mar Tirreno e decorata da ulivi secolari.

Il cuore di Cleto batte nella sua antica storia, evidente nel 𝑪𝒂𝒔𝒕𝒆𝒍𝒍𝒐 𝒅𝒆𝒍 𝑺𝒂𝒗𝒖𝒕𝒐, che domina la cima della collina con le sue mura restaurate e le torri cilindriche.

Un viaggio attraverso il borgo svela la 𝑪𝒉𝒊𝒆𝒔𝒂 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑪𝒐𝒏𝒔𝒐𝒍𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆, con il suo campanile a cuspide ricurva e gli affreschi ottocenteschi di R. Aloisio da Aiello.

Raggiungendo la cima, sotto al Castello, si ammira la suggestiva facciata della 𝑪𝒉𝒊𝒆𝒔𝒂 𝒅𝒆𝒍 𝑺𝒂𝒏𝒕𝒊𝒔𝒔𝒊𝒎𝒐 𝑹𝒐𝒔𝒂𝒓𝒊𝒐 e i restaurati ruderi del castello, una volta rifugio strategico in caso di invasioni turche sulla costa.

Ma ovviamente non è tutto! Cleto diventa un palcoscenico vivente con eventi come il Cleto Festival 𝒆 𝑪𝒍𝒆𝒕𝒂𝒓𝒕𝒆, offrendo un’esperienza unica nel suo genere.

Un viaggio nel tempo, un connubio perfetto tra storia, cultura e la bellezza immutabile della natura, questa è la Calabria, questo è Cleto.

Louis, o meglio Louis Raoré Obiang veniva dalla Guinea, era scappato dalle violenze dei militari, dal pericolo dell’ebola, dalla lebbra e da un lavoro pagato una miseria.

A Boke’aveva lasciato una misera abitazione, non molto distante in linea d’aria dalla miniera. Aveva abbandonato un luogo, un tempo una bella campagna con coltivazioni di mais, di sorgo, di manioca ma che ora, dopo l’apertura della miniera era diventato sporco, polveroso e squallido.

Aveva salutato un anziano padre, malato di silicosi, con una famiglia di cinque figli. Il padre prima dell’arrivo della miniera faceva il contadino ma ora, non avendo più la terra, era costretto a lavorare e ad ammalarsi come minatore per pochi franchi guineani.

Non è stato facile per Louis arrivare in Italia, il suo viaggio durò più di un anno, aveva dovuto attraversare il Senegal, il Mali e il Niger per arrivare alla Libia e infine a Lampedusa.
A seguito della sua richiesta d’asilo politico, Louis riuscì abbastanza presto ad ottenere dei permessi di soggiorno e a trovarsi anche un lavoro. Non era certo un lavoro da colletto bianco , quello che aveva trovato, si trattava di lavorare in una fonderia. Una fonderia di tipo artigianale , di quelle che scioglievano dentro dei crogiuoli, sui dei grandi forni a gas, barre e rottami di bronzo. Una fonderia dove si faceva ancora tutto a mano , dove si affondava nel crogiuolo il mestolone da fonderia, lo si riempiva sino al colmo del magma liquido, e poi lo si versava negli stampi. Si trattava di un lavoro duro, dentro uno spazio ristretto, pieno di fumi e di vapori, dove il calore era insopportabile e bisognava stare molto attenti a non farsi del male nel trattare il metallo fuso.

Louis, aveva imparato in fretta a svolgere quel lavoro, un lavoro, come gli aveva confidato l’operaio che andava a sostituire, poiché prossimo alla pensione, che non lo voleva fare più nessuno. Imparò a fare gli stampi, imparò a caricare e scaricare i crogiuli, a versare il metallo fuso nelle forme e a ripulire dalle eventuali scorie o sbavature gli oggetti stampati.

Il tutto, sotto lo sguardo del titolare o per meglio dire del padrone, che lo controllava da un gabbiotto di vetro che fungeva da ufficio.
Gli orari di lavoro non erano proprio quelli sindacali, iniziava alle sette e trenta del mattino e terminava alle diciotto del pomeriggio, orario continuato, tranne una pausa di quindici, venti minuti a metà giornata, per un panino o qualche urgenza in bagno.

Oltretutto non abitava vicino al posto di lavoro, aveva trovato casa in un appartamento da condividere con altri ragazzi, in una cittadina a circa trenta chilometri di distanza ed in più, la fonderia, si trovava in una frazione isolata.

Louis si era così organizzato: dalla sua abitazione raggiungeva in treno la Stazione del paese dove lavorava e poi con la bicicletta raggiungeva la fonderia. La strada, dalla stazione del paese alla sua frazione non era bellissima, era una strada di campagna, scarsamente illuminata e piena di curve. Aveva iniziato a lavorare in quel posto alla fine di Aprile, allora le giornate erano lunghe e luminose e non gli resero pesante la sua condizione di pendolare, ma poi cominciò ad arrivare l’autunno.

Con l’autunno le giornate iniziarono ad accorciarsi ed il percorso dalla stazione alla fonderia, con l’arrivo del buio cominciava ad impensierirlo. Sia al mattino alle sette, quando con la bicicletta partiva dalla stazione, che alla sera dopo le sei, quando faceva ritorno, ormai c’era buio. Si organizzò, acquistò un gilet di sicurezza catarifrangente e si assicurò che le luci della bicicletta, sia anteriori che posteriori, andassero bene.
Con piacere, verificò che gli accorgimenti presi funzionavano, in effetti era ben visibile agli automobilisti, i quali lo superavano rallentando e lasciando, per sicurezza, una considerevole distanza .
Quello che Louis non aveva considerato era che non esistono solo le brave persone, quelle corrette e normali, purtroppo esistono anche molte persone squallide e scorrette.

Fabrizio dormì male quella notte, oltretutto aveva bevuto e sniffato molto, quando si svegliò si accorse che era molto tardi. Scrollò con un piede, la donna che stava dormendo profondamente al suo fianco, ordinandole sgarbatamente di vestirsi e andarsene via al più presto, si sciacquo la faccia alla belle meglio, sistemo i suoi lunghi capelli biondi, raccogliendoli con un codino alla nuca e poi andò in garage.

Nel garage lo aspettava il suo Pick-Up Mercedes nero, vi salì velocemente e si avvio verso il luogo dell’appuntamento a cui stava tardando. Mentre era alla guida, armeggiò con il telefonino, per trovare il numero della persona che doveva incontrare e che probabilmente lo stava già aspettando, per scusarsi del ritardo. Stava concentrandosi sul display, quando senti un forte botto provenire dal cofano del suo pick-up a cui seguirono delle urla e dei rumori metallici.

Si rese conto che essendosi distratto con il cellulare, aveva invaso con il suo veicolo la corsia opposta, andando così ad investire frontalmente il povero ciclista che stava correttamente viaggiando sulla sua destra. Fermò la macchina, scese e vide a terra, un giovane di colore, con una gamba ed un braccio che parevano non appartenere più al suo corpo, sembravano slegati come quelli di una marionetta e urlava, urlava, urlava dal dolore.
La bicicletta era in mezzo alla strada, quasi accartocciata, con le ruote deformate e sporca di sangue.
Fabrizio, per prima cosa, contattò al telefono la persona con cui aveva l’appuntamento, avviando, dopo avergli comunicato dell’incidente, una lunga conversazione.

Certo, gli venne da pensare, che se nel frattempo non si fossero fermati quegli automobilisti, lui sarebbe scappato e anche se in ritardo, a quell’appuntamento ci sarebbe arrivato.

In un primo tempo gli automobilisti cercarono di soccorrere il povero malcapitato e solo dopo, quando stupiti ed increduli, scoprirono che l’investitore, pur restando sempre attaccato al telefono non aveva ancora chiamato nessun soccorso, provvidero direttamente.
Arrivò la macchina della polizia locale, scesero due agenti che per prima cosa, si preoccuparono di liberare la strada, per lasciar scorrere il traffico e purtroppo, spostarono la bicicletta che si trovava in mezzo alla strada, posizionandola sul lato opposto a quello che stava percorrendo lo sfortunato ciclista.

Nel frattempo Louis perse conoscenza e smise di urlare per i dolori, poi, finalmente, arrivò la croce rossa.
Il medico si rese subito conto delle gravi condizioni del ferito, aveva perso troppo di sangue, aveva fratture per tutto il corpo e forse anche dei traumi alla testa. Louis venne caricato sull’ambulanza che erano quasi le otto e mezzo del mattino e alle dodici in punto spirò.
Mentre stavano portando all’ospedale Louis, erano giunti sul posto dell’incidente gli agenti della Polizia Stradale, i quali interrogarono Fabrizio.

Fabrizio, che era nello stesso tempo investitore e unico testimone, non conosceva di certo vocaboli del tipo coscienza, onestà, lealtà ma sapeva bene il significato di vocaboli come scaltrezza o furbizia. Vedendo la posizione in cui si trovava la bicicletta, con scaltrezza, colse l’occasione per dichiarare che il malcapitato, stava viaggiando senza luci e contromano, per cui, trovandoselo improvvisamente di fronte, non aveva potuto fare niente per evitarlo.

Nessuno controllò le luci della bicicletta poiché erano tra l’altro frantumate, nessuno fece notare che Louis indossava un gilet catarifrangente, poiché lo avevano già portato via, e pertanto, presero per buone le dichiarazioni dell’investitore.
Fabrizio poi, arrivò persino a lamentarsi per il sequestro della macchina, si calmò solo quando gli assicurarono che l’avrebbero tenuta semplicemente per una formale verbalizzazione degli accertamenti e che poi l’avrebbe riavuta al più presto, tanto era chiara e inequivocabile la dinamica dell’incidente. Fu così, che poi telefonò ad un’amica per farsi venire a prendere, non mancando nella conversazione di lamentarsi per quello che aveva definito “un imprevisto” e di condire il tutto con parole offensive all’indirizzo di: «quei…»

𝐀𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 𝐑𝐞𝐜𝐜𝐚𝐠𝐧𝐢, 𝐂𝐨𝐫𝐧𝐞𝐠𝐥𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐋𝐚𝐮𝐝𝐞𝐧𝐬𝐞 (𝐋𝐨𝐝𝐢)

Rocco Scotellaro, poeta italiano del Novecento, ha scritto con una passione ardente e un impegno sociale che lo rendono una figura centrale nella letteratura italiana. La sua poesia si caratterizza per diversi elementi chiave che oggi, in occasione del settantesimo anniversario della sua scomparsa, vogliamo ricordare:

Realismo Sociale: Scotellaro è profondamente radicato nella realtà quotidiana del suo tempo, dando voce alle esperienze e alle sofferenze delle classi più svantaggiate. La sua poesia è un grido di protesta contro le ingiustizie sociali e un’invocazione alla solidarietà umana.

Legame con la Terra: la terra, in particolare la sua Basilicata nativa, è una presenza costante nelle opere di Scotellaro. La sua poesia è permeata da una forte connessione con la natura, che diventa un simbolo della lotta del popolo contro le avversità.

Lirismo e Pathos: la sua scrittura è carica di pathos, trasmettendo emozioni profonde e autentiche. Le sue parole risuonano con la sincerità di chi ha vissuto le difficoltà della vita.

Impegno Politico: la poesia di Scotellaro si batte per la giustizia sociale, la dignità umana e la libertà. I suoi versi diventano un mezzo per sensibilizzare e mobilitare le coscienze contro le ingiustizie del suo tempo.

Simbolismo e Metafore: la terra, il lavoro, la sofferenza diventano simboli potenti che amplificano il messaggio sociale e umano della sua opera.

Riflessione sulla Morte: la morte è un tema ricorrente nella poesia di Scotellaro. Tuttavia, anziché portare solo oscurità, la sua riflessione sulla morte diventa un invito a una vita più autentica e consapevole, sottolineando l’importanza di lottare per ciò in cui si crede.

Rocco Scotellaro è un poeta che va oltre le parole, trasmettendo attraverso la sua poesia una profonda compassione per l’umanità e una ferma determinazione nel chiedere un mondo più giusto e solidale.

Bandiera Arancione del Touring Club Italiano e tra i Borghi più belli d’Italia, Gerace, fondata nel X secolo dai superstiti di Locri Epizefiri, conserva ancora oggi un’atmosfera medievale.

Nel centro storico, infatti, si possono ammirare resti di antiche fortificazioni e strade lastrate in pietra viva. Le dimore nobiliari, con portali incisi e balconi eleganti, aggiungono un tocco di raffinatezza al paesaggio, mentre le piazze principali, come Piazza del Tocco e Piazza Tribuna, raccontano la storia della città.

Gerace ospita numerose chiese monumentali, tra cui la Cattedrale bizantino-normanno-romana e la suggestiva Chiesa di San Francesco. Il Museo Civico conserva la storia del borgo sin dal Medioevo.

Il borgo, inoltre, è animato da attività ricettive, ristoranti e botteghe artigiane. Eventi come “Il Borgo Incantato” trasformano le strade in un’esplosione di arte e intrattenimento estivo.

Nel periodo natalizio, Gerace si trasforma in un Presepe Vivente, regalando ai visitatori un momento per scoprire la città e assaporare i deliziosi prodotti tipici, tra cui la pasta fresca con sugo di capra e il rinomato Vino Greco di Gerace.