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Lorica è la casa scelta dal Parco Nazionale della Sila. Fra le tante peculiarità di Lorica c’è quella che vede questo villaggio diviso fra due comuni: quello di Casali del Manco e quello di San Giovanni in Fiore. In realtà, fino al 2017, i Comuni erano tre: San Giovanni in Fiore, Pedace e Serra Pedace ma questi ultimi due sono stati uniti, insieme a Spezzano Piccolo e Casole Bruzio, nell’unico comune che va sotto il nome di Casali del Manco.

Villaggio turistico della Sila Grande, posizionato a 1315 metri sopra il livello del mare, Lorica è fra le mete più visitate dei turisti per i suoi boschi, per il lago Arvo e per le pista sciistiche.

Il posto inizia a diventare un insediamento abitativo all’inizio del Ventesimo secolo, quando iniziano a sorgere i primi capanni in legno abitati dai contadini che lasciavano al pascolo bovini e ovini nelle ampie e verdi praterie. Fino a quel momento, si potevano osservare “soltanto” i pochi resti di un eremo fatto edificare da Gioacchino da Fiore. In località Cavaliere di Lorica si trovano le piste da sci. Ultimamente sono stati realizzati due nuovi impianti di risalita che dovrebbero essere collaudati a breve: uno, il principale, quello di Botte Donato, vetta di 1928 metri, con cabinovia a 12 posti e l’altro da Cavaliere a Marinella di Coppo con una seggiovia a 4 posti. Per adesso possiamo utilizzare una pista blu per lo sci alpino, lunga 3300 metri che scende da 1877 metri a 1405 metri. Esiste anche una pista rossa, alla quale si arriva grazie alla sciovia Cavaliere, lunga 1000 metri mentre nella vicina Valleinferno ce ne sono altre due rosse.

Gli appassionati di sci di fondo possono trovare al passo di Carlomagno, tra Lorica e Silvana Mansio tre anelli di 3, 5, e 7 chilometri.

Cerchiara città del pane del Pollino. Posso non esitare a dire che, in questa località, fare il pane è una vera e propria forma d’arte. Un pane buono, quello di Cerchiara, e soprattutto un pane di tradizione dove i genitori tramandano l’antica tecnica ai figli.

A Cerchiara le protagoniste principali di questa arte sono le donne. Sette di loro, infatti, sono le titolari d’importanti panifici in paese. Sono le loro mani che tramandano la tradizione e vederle lavorare il lievito diventa, per chi osserva, uno spettacolo unico nel suo genere. Le mani miscelano insieme la farina bianca, la crusca, il lievito madre e l’acqua. Mentre l’impasto procede, il forno si riscalda fino a 300 gradi grazie al fuoco che arde dalla legna di quercia e faggio. Questo forno viene poi svuotato dalla brace e pulito con un’asta alla quale, in cima, sono legati degli stracci bagnati chiamata “scopolo”. È in questo momento che viene lavorata la forma.

Ma cosa caratterizza il pane di Cerchiara di Calabria? La pagnotta si distingue per una gobba e, soprattutto, per la sua invidiabile capacità di mantenersi morbido fino a 15 giorni dalla cottura. Dopo quattro ore il pane è pronto. Il pane a Cerchiara, e non potrebbe essere diversamente del resto, è elemento di festa: quando un ospite entra in casa e si siede a tavola, il padrone di casa gli offre la parte più importante chiamata “rasella”, un pezzo molto gonfio che si trova a lato della forma. Un onore che mi è stato riservato nella mia visita a Cerchiara.

Era sera. Il buio, fuori dalla finestra del suo appartamento nel centro dell’Europa, era silenzioso e quasi irreale. Sullo schermo del computer scorrevano fotografie in sequenza casuale. Non si accorse subito della nostalgia che stava per attanagliarle lo stomaco. Continuava a guardare, distratta, mentre programmava il lavoro per la mattina successiva e pianificava la giornata.
Le immagini scorrevano, una dopo l’altra.Una in particolare, però, catturò la sua attenzione: era la collina dei cerasi, quell’unico vero luogo che per lei era diventato paesaggio. Ed ecco, improvvisa e dominante, la sinestesia: i colori impastarono sensazioni tattili, un profumo prepotente aprì la strada ai ricordi, prima confusi, poi sempre più nitidi. Le sembrava di sentirlo, quel rumore delle spighe di grano quando soffia un vento leggero, in un pomeriggio di fine estate. Le sembrava di sentire l’odore, intenso, dei campi di patate appena annaffiati. Così, senza opporre resistenza alla mente, che la conduceva per mano per i sentieri della sua più intensa felicità, si ritrovò bambina, serenamente coccolata dalle morbide curve del suo altipiano e da quel cielo azzurro, che sembra ancora più azzurro quando, distesa sul prato, lo vedi a tratti tra il verde intenso dei rami di pino.
Quella bambina, con gli occhi grandi, le palpebre spalancate e le sopracciglia tenute all’insù, quella bambina con le guance arrossate dalle corse in mezzo all’erba alta e pungente, quella bambina che lei era stata e che adesso le sorrideva, la accompagnava oltre il ponte sul ruscello da cui partivano le sue avventure settembrine, quando è ancora estate e la scuola non ha ancora monopolizzato il tempo e la curiosità.
Con gli occhi chiusi, ripercorse con lei il sentiero in salita, assaggiò fragoline di bosco appena colte nel sottobosco, e ciliegie rubate sugli alberi vicino a Torre Camigliati. In un tempo senza tempo, in una stagione che le comprendeva tutte, vide il verde delle foglie trasformarsi in sfumature di rosso, sentì l’odore intenso dei funghi sotto la pioggia, attraversò quello stesso sentiero innevato con le ciaspole ai piedi e lo rivide quando, tra le chiazze di neve gelata, qualche croco preannuncia la primavera. Si sedette sulla cima della collina, appoggiando la schiena al tronco di uno degli alberi in prima fila davanti al campo in discesa. Da lì poteva vedere la sua casa: la mamma stendeva al sole tessuti che avrebbe trasformato in arte, il papà racchiudeva la poesia nel profumo dei salumi.
Rimase a contemplare quelle eterne ripetizioni per qualche minuto. Poi si accorse delle foto che continuavano a scorrere, del buio e del magico silenzio di quella serata, una come tante. In fondo – pensò – la nostalgia è un privilegio. Come guardare la tua casa dalla collina dei cerasi.

Commettiamo tutti un banale errore quando parliamo dei laghi della Sila. Ne contiamo solo tre quando in realtà sono cinque. I più noti sono il lago Cecita, il lago Arvo e il lago Ampollino e più colpevolmente dimentichiamo di narrare e visitare anche il lago di Ariamacina e il lago del Passante. Sono tutti artificiali e i primi tre sono i più grandi e di conseguenza diventano anche i più visitati, ma anche gli altri due sono delle bellezze da scoprire quando visitiamo il Parco Nazionale della Sila. Il più grande di tutta la montagna è il lago Cecita ed è situato in provincia di Cosenza, nei pressi di Camigliatello, nel comune di Spezzano Sila, e le sue sponde toccano anche i comuni di Longobucco e Celico.

Il lago Cecita, che alcuni conoscono anche con il nome Mucone, è stato creato per produrre energia elettrica sbarrando, negli anni Cinquanta, con una diga il fiume Mucone che nasce a Monte Curcio e che arriva fino alla Valle del Crati. Ogni anno attira moltissimi visitatori che, nel tour della Sila, allungano il passo fino al lago Arvo, il secondo lago artificiale della Sila per grandezza. Sorge fra i monti Melillo e Cardoneto, vicino al comune di San Giovanni in Fiore, e racchiude 70 milioni di metri cubi di acqua ed è lungo quasi 9 chilometri e, cosa molto curiosa da sapere, è collegato con il lago Ampollino attraverso una condotta in galleria. Il lago fu creato fra il 1927 e il 1931 bloccando il fiume Arvo e i ruscelli Bufalo e Fiego in modo da realizzare un bacino idroelettrico. Il lago, per le sue caratteristiche, si presta a piccole gare e allenamenti di canottaggio.

La diga del lago Arvo è unica nel suo genere in Calabria perché è realizzata in argilla e terra compatta. Lunga 280 metri, un vero e proprio record per gli anni Trenta, e alta 22 metri era la più lunga e grande diga costruita in Italia a quel tempo.

Il lago simbolo del Parco può, però, essere considerato il Lago Ampollino perché bagna tutte le province che fanno parte della Sila: Cosenza, Catanzaro e Crotone. I lavori iniziarono nel 1916 e all’inaugurazione fu presente re Vittorio Emanuele III perché era il primo lago artificiale realizzato in Sila. L’acqua dell’Ampollino alimenta le centrali elettriche di Orichella, Timpa grande e Calusia. Passate in quest’ultima, le acque raggiungono il fiume Neto, nel crotonese, dove sono utilizzate per l’irrigazione.

E veniamo agli altri due laghi, i “meno noti”. Il lago Ariamacina è il quarto lago artificiale, per ordine di grandezza, realizzato in Sila nella provincia di Cosenza, a circa 1350 metri sul mare. Nell’ottobre 2002 nell’area del lago Ariamacina è stata creata da Legambiente un’oasi naturalistica che tutela gli uccelli migratori che passano o stazionano da queste parti. Per raggiungere il lago e l’oasi di Ariamacina si percorre la strada statale 107 e si esce al bivio di Germano. Dopo pochi chilometri, la strada inizia a costeggiare il lago nei pressi del monte Volpintesta, che con i suoi 1730 metri d’altezza è una delle vette più imponenti della Sila Grande. A Taverna invece, nella Sila Piccola catanzarese, c’è il Lago del Passante conosciuto anche con il nome di Serbatoio del Passante. Il lago è, come gli altri, un bacino artificiale limitato da una diga in cemento armato la cui costruzione è terminata nel 1976. Il lago si trova nei pressi di Villaggio Mancuso e si raggiunge grazie alla Statale 179 che da Catanzaro porta fino al lago Ampollino.

I formaggi di Campotenese sono rinomati per la loro bontà. Al loro primo assaggio è facile innamorarsi di questo gusto. Un sapore genuino dovuto soprattutto alla cura che le piccole e grandi aziende casearie riservano ai loro allevamenti. Tanti formaggi che vengono prodotti nei paesi limitrofi contengono il latte proveniente dai pascoli di Campotenese. A giugno gli animali da pascolo vengono condotti in alta quota dove possono muoversi negli ampi altopiani del Pollino. Qui li attende una vegetazione sempre verde grazie al clima di questa montagna.

In questo contesto nascono prodotti buonissimi che consiglio a tutti di assaggiare: il Moretto del Pollino, un formaggio stagionato molto gustoso; il Burrino, formaggio a pasta filata ripieno di burro e, per chi ama il piccante, c’è il formaggio farcito fatto da latte vaccino e peperoncino. Anche le mozzarelle di Campotenese sono un prodotto molto ricercato non solo dai turisti che approdano sul Pollino come me, ma anche da chi questi luoghi li vive quotidianamente.

Non a caso viene definito “sua maestà” in alcuni saggi letterari. Fra le praterie della Sila, l’allevamento del maiale rosa è uno dei punti forti di queste montagne. A questo si aggiunge anche il suino nero che è una tipicità del territorio. I salumi e le carni trattate in Sila hanno un sapore genuino al 100% perché il luogo (e tutto quello che racchiude), favorisce gli allevamenti. Se il suino rosa può essere rintracciato in altre parti d’Italia, il suino nero è un animale tipicamente silano. Il suino nero silano viene chiamato anche Apulo calabrese, si riconosce facilmente dal suo pelo nero con le setole belle abbondanti. Attualmente c’è un attento e scrupoloso lavoro di recupero della razza con l’allevamento in stato di libertà e la lavorazione artigianale delle carni. Vari prodotti che nascono dalla lavorazione del maiale hanno il marchio DOP: il capocollo, la salsiccia, la pancetta e, su tutti, la soppressata. La soppressata è il tipico salame calabrese e la sua stagionatura viene fatta in un clima di montagna (o ricreandolo dove non è possibile), che gli dona un profumo e un gusto che la rendono tipica. Per chi viene a far visita ai luoghi del Parco Nazionale della Sila è obbligatorio mangiare, almeno una volta, un bel panino con soppressata o salsiccia con le patate silane, altra eccellenza alimentare di queste montagne.

In Sila, se cerchi qualcosa, qualcosa troverai ogni volta. Me lo diceva mio nonno quando mi portava fra le montagne per cercare i funghi nei boschi silani. Che io mi ricordi, da ottobre (certe volte anche dalla seconda metà di settembre), la mia infanzia era scandita da questo passaggio. Alle prime piogge, dopo l’estate, si andava a cercare con la famiglia i funghi. Solo la nonna restava a casa. Gli altri tutti in prima fila: mio nonno in testa, mio padre, mia madre e mia sorella più grande di me. A me in realtà, da ragazzetto, i funghi non piacevano neanche tanto. Ma andare in giro fra i boschi con nonno era una delle mie attività preferite. Con buona pace per l’ansia di mia madre.

Con un pezzo di legno bello lungo che diventava il suo bastone si andava per i boschi intorno a Camigliatello. Lì vicino a quella che, in tanti, ancora oggi chiamano la strada vecchia per la Sila. Quella che parte da Cosenza e che costeggia la statale 107 e che passa per quelli che, fino allo scorso anno, erano i comuni di Trenta, Casole, Pedace, Serra Pedace e Spezzano Piccolo e che ora sono riuniti sotto il nome di Casali del Manco. Arrivati a Spezzano Piccolo, si faceva tutta una tirata verso Camigliatello dove le uniche forme di “civiltà” le vedevi a Fago del Soldato.

È in questi tratti che andavamo a funghi. Il nonno spostava le felci col bastone e se trovava un fungo buono, lo tagliava via dalla terra con il suo coltello. Io guardavo incantato le sue “scoperte” e ne volevo fare di mie. E quando facevo scoperte mie erano sempre i funghi “vavusi” che io scambiavo, scioccamente, per porcini. Il colore dei “vavusi” era il colore della felicità, quel marroncino dal gambo giallastro quasi bianco era il colore delle parole del nonno che dicevano «Bravo». Ogni tanto, ma raramente ad essere sincero, ci scappava un «Bravissimo!» se trovavo un rosito. Che profumo i rositi con quel loro ombrello grande e tutto rosa. Il mio unico rimpianto di quel tempo, e a pensarci bene anche di oggi, è che non sono mai riuscito a trovare un porcino! E pensare che dalla Calabria questo tipo di fungo è molto esportato. Ma in fondo, in Sila, se cerchi qualcosa, qualcosa troverai ogni volta.

Un santuario scavato nella roccia. Questo mi si è presentato agli occhi quando, raggiunta Cerchiara di Calabria, mi sono trovato davanti al Santuario della Madonna delle armi. La parola “armi”, in questo caso, va ricercata nell’espressione greca che gli studiosi traducono in “delle grotte”.

La vista che si ha dal santuario, che si trova alle pendici del Monte Sellaro, è molto suggestiva perché si può osservare sia la Piana di Sibari che il golfo di Taranto. Alla costruzione di questo luogo è legata una leggenda che viene tramandata ancora oggi a chi chiede informazioni sul Santuario della Madonna delle Armi. Nel 1400 alcuni cacciatori di Rossano si infilarono in una grotta del Monte Sellaro mentre inseguivano una cerva. Entrati, non trovarono più l’animale ma due icone in legno con sopra incisi i santi evangelisti. Stupiti dalla scoperta, presero le due icone e le portarono nella loro Rossano. Ma dall’antica città bizantina le tavole in legno sparirono per essere poi ritrovate, nuovamente, nella grotta del Monte Sellaro. Davanti a tutto questo si gridò al miracolo e si decise di costruire, in quel luogo, una piccola cappella per custodirle. Ma un’altra vicenda “miracolosa” stava per sconvolgere la comunità di lì a poco. Il fabbro che lavorava alla costruzione della cappella, innervositosi contro una pietra, la ruppe in due parti. Da una emerse l’immagine della Madonna con il Bambinello, dall’altra San Giovanni Battista. La Madonna con il Bambinello è custodita nel Santuario, mentre l’effigie di San Giovanni venne trafugata e portata a Malta. All’interno della chiesa c’è la Cappella Pignatelli che celebra la sepoltura di Valerio, principe di Cerchiara e autore di molti romanzi ambientati al tempo di Napoleone e che hanno come protagonista Andrea Pignatelli, ufficiale di Gioacchino Murat. Il 25 aprile gli abitanti di Cerchiara festeggiano intorno al Santuario per ricordare il miracolo che la Madonna fece, nel 1846, quando salvò il raccolto dopo le preghiere dei fedeli spaventati dall’idea di morire di fame.

È stata una bellissima estate in un posto magico per me e la mia famiglia. Soprattutto per i miei figli che stanno sempre attaccati a questi dispositivi tecnologici e che, grazie a questi luoghi, ho potuto tenere lontano dagli schermi. Certo che però, a pensarci bene, è una piccola “contraddizione” se penso che il nostro soggiorno alle Valli Cupe è nato grazie ad una prenotazione su AirB&b. Volevamo fare una gita in Calabria e abbiamo cercato un posto bello e che fosse incastonato in uno scenario naturale splendido. È uscito fuori, dopo una breve ricerca e qualche consiglio con amici, che Sersale e le Valli Cupe fossero il posto adatto. Abbiamo trovato un bellissimo appartamento per tutti e noi quattro più il nostro cagnolino. Ci hanno chiesto meno di 30 euro al giorno! Siamo arrivati a Catanzaro, poi abbiamo seguito le indicazioni per Cropani ed eccoci arrivati a Sersale.

Il tempo di sistemarci, di capire bene il posto e via diretti alla Riserva naturale. Con i telefonini usati solo come macchina fotografica. Una guida ci ha spiegato subito che il fiore all’occhiello di questo posto sono le Gole di Razzone e di Barbaro. Pareti vertiginose ci compaiono davanti agli occhi mentre la guida aggiunge che questo è l’habitat di animali anfibi e di diverse piante. Poco più in là lo stupore continua con il Canyon. Il piccolo di casa non la smetteva più di guardarlo e di fotografarlo (almeno non ha usato il telefono per qualche giochino…). Quando la nostra visita sembrava già ricca, ecco che ci fanno vedere due “signori” da diciotto metri d’altezza l’uno. Sono il monolito Petra Aggiallu e il monolito di Misorbo. Fantastici. Tornati nel nostro b&b, con i ragazzi abbiamo rivisto tutte le foto scattate. Un momento bellissimo per noi grazie ad un luogo meraviglioso!

L’albero diventa protagonista ad Alessandria del Carretto con la Festa della Pita che si tiene, ogni anno, nell’ultima domenica di aprile nel paese dello Jonio cosentino che fa parte della comunità del Parco Nazionale del Pollino. Mi hanno spiegato che partecipare a questo evento significa essere fra i protagonisti di una delle cerimonie più caratteristiche della Calabria.

Il rituale è di quelli antichi e affascinanti. Ogni anno, fra i boschi del Pollino, viene tagliato un albero che rappresenta il cardine della festa e sarà trascinato a braccia fino in paese per celebrare il patrono Sant’Alessandro. È in quel giorno che l’albero viene poi spogliato dalla corteccia, levigato e successivamente, nella mattina del 3 maggio, agghindato con una cima composta di prodotti tipici e sollevato. Tutto questo fa in modo che si ottenga un vero e proprio albero della cuccagna, alto diversi metri, che verrà scalato dai più coraggiosi che potranno prendere ciò che vorranno una volta raggiunta la cima. Il rito del “trascinamento” dell’albero viene accompagnato da musica e festa e, se un tempo era un rituale esclusivamente maschile, oggi partecipano al traino molte donne che vogliono essere protagoniste in toto della cerimonia. La festa di Alessandria del Carretto cementa ancor di più, inoltre, la salda amicizia con la comunità del vicino comune di Terranova del Pollino, in provincia di Potenza, che dona il grande albero.