Dicono che il tempo guarisca le ferite.

È solo una grandissima menzogna, una frase creata ad arte per tamponare con illusoria speranza una parte di sé che sanguina, per raccogliere con fiducia i brandelli di carne spazzati via con immenso dolore dalle circostanze della vita o da chi, ignaro complice del destino, è costretto a conficcare un pugnale nelle profondità di un animo indifeso, semplicemente per adempiere ad un dovere celeste.

Il tempo non guarisce le ferite, il tempo aiuta a comprendere, a trovare spiegazioni, ad accettare.

Il tempo è quel piccolo grande alleato che prende un libro bianco per inciderci sopra una storia scritta con il sangue, per poi tamponarlo con una misera garza sterile in modo tale da non macchiare il resto delle pagine. Il tempo riempie ogni singolo foglio, lo arricchisce di frasi, di risposte, di soluzioni. Spiega e urla ogni volta in cui si accorge che non lo si vuole ascoltare.

Aspetta con pazienza. Dieci, cento, mille pagine ancora… Il tempo è lì.

Aspetta.

Scrive e attende fin quando l’inchiostro finalmente si sostituisce al rosso ematico e si è quindi liberi di vivere nell’illusione di essere guariti. Ma basta tornare indietro, sfogliare le pagine a ritroso per accorgersi che le parole macchiate di sangue sono sempre allo stesso posto, che quella breve o lunga storia scritta con dolore non è stata stracciata via, ma solo allontanata di qualche pagina.

Allora, tornando indietro, gli occhi rivedono i fogli dolenti macchiati per sempre, e con forza e rabbia li sfogliano via, ma le dita, tinte inavvertitamente dai residui color porpora, trasportano la traccia di quel dolore nei nuovi e più tranquilli capitoli, creando un filo sottile fatto di acciaio.

Il tempo è ancora lì. Aspetta.

Aspetta che il libro continui a riempirsi di macchie, di impronte indelebili, di consapevolezza.

Aspetta di scrivere nuove pagine, nuove storie, nuove esperienze.

Aspetta che quei segni tinti di rosso non siano più il ricordo del dolore, ma di un dolce trionfo.

Roberta Capriglione, Roma

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