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Quanto sia fredda la neve di Campo Catino, i pastori di Torre Cajetani lo sapevano molto bene. Di solito, in quegli anni sessanta, partivano da casa alle quattro di mattina, e non avevano bisogno di nessuna sveglia, bastava il canto del gallo, mentre le pecore attendevano in un ovile fatto di pietre, col tetto in tegole di argilla; quasi tutte le greggi erano stipate all’interno del paese, sia per averle vicine alla propria abitazione, sia per difenderle meglio dai numerosi branchi di lupi, che di notte, appostati sulle colline attorno, facevano sentire i loro ululati agli sparuti paesani.

I festeggiamenti natalizi erano passati da poco, ormai c’era solo il gelo di gennaio da combattere, e bisognava anche procurarsi da mangiare, perché il grano mietuto nella stagione precedente non era stato granché, aveva fruttato solo un quintale di farina per famiglia, e nulla più….

La famiglia di Marcellino era povera, come più o meno tutte le altre; viveva in una casa costruita con i tufi, fredda e inospitale, piena di umidità che nemmeno il fuoco della vecchia cucina a legna riusciva a mitigare. Per combattere l’inverno, madre, padre e tre figli dormivano nello stesso lettone col materasso di crine, scaldandosi l’un l’altro. Ma al canto del gallo, ora toccava a Marcellino, il più piccolo, accompagnare il padre al pascolo, per imparare il mestiere.  A cinque anni, il bambino non riusciva quasi mai a tenere il passo del padre. Alle pecore pensava Poldo, il cane da pastore maremmano, che sapeva bene come dirigerle. Tuttavia, poteva capitare che una pecora si perdesse, e papà Egidio per sicurezza le ricontava tutte prima del rientro in ovile.

“Ora sei grande, sei stato a scuola, contale tu”, disse a Marcellino qualche anno più tardi. Ma il giovine con le sue pecore aveva un problema, e più cresceva, più il problema si evidenziava. Dopo averle portate al volubro per abbeverarle, e dopo che Poldo le aveva fatte pascolare, poi al ritorno si sedeva vicino alla porticina dell’ovile, ed iniziava a contarle: una, due…..dieci, undici…alla fine, di solito verso la ventesima pecora, Marcellino cadeva dal sonno, e si addormentava dove si trovava. E questo, accadeva tutti i santi giorni.

Puntualmente, Assunta, la madre, usciva per andarlo a cercare, urlando il suo nome. Non sempre infatti il bambino si addormentava davanti all’ovile vicino casa. A volte poteva addormentarsi presso lo stagno, oppure in montagna. Era un problema non da poco.

“Marcellino, ti ho fatto il caffè, beviti tutta la moka” gli diceva Assunta, quando lo trovava.

E quella miscela nera aveva il potere di farlo riprendere, per ricominciare il suo lavoro.

“Scusa mammina, mi ero addormentato…”

“Me ne sono accorta…ma che ti prende, non sarai malato?…”

“No, io sto bene, solo che quando comincio a contare le nostre pecore…non riesco mai a finire il conto, ecco”…

Passò ancora qualche anno, e il tran tran era sempre lo stesso. Un brutto giorno però, Poldo morì. Non aveva dato grossi segni di malattie, solo il passo, un tempo agile, era diventato pesante. Continuava a seguire il gregge, ma stava sempre con la lingua di fuori, come se gli mancasse l’aria; quando una pecora scappava, a volte non la seguiva più, si limitava ad abbaiare, poi si sedeva esausto accanto a Marcellino, e lo guardava, come a scusarsi, come a dire “ora pensaci tu”…

Lo seppellirono nelle sue montagne, vicino ai pascoli che aveva sempre sorvegliato, e misero una grossa pietra sulla sua piccola tomba. Persino don Pasquale, l’unico nel paese che avesse anche una ventina di vacche, si volle unire alla famiglia di Egidio, nel piccolo funerale di Poldo, che in paese era conosciuto e apprezzato da tutti.

“Era un buon cane. Quando passava davanti casa mia, gli davo sempre un po’ di avanzi, e mia figlia ci giocava un po’…” diceva don Pasquale. E ad Egidio, scappò anche una lacrima.

A Marcellino, ormai tredicenne, restò la totale responsabilità del gregge. La scuola era finita da un pezzo, ora solo il suo lavoro di pastore lo aspettava per gli anni futuri.

Un brutto giorno, però….un brutto giorno, era di febbraio. C’era la neve alta, già dal giorno prima. Ma anche quella mattina, il paese si era svegliato sotto una tormenta di neve. Le pecore però dovevano uscire, e il povero Marcellino, dopo essersi coperto con una mantella impermeabile, le prese dall’ovile, per portarle sui monti. Avanzava mettendo i piedi nel fango provocato dalla neve fusa, si teneva in equilibrio appoggiandosi al suo bastone, e le pecore andavano un po’ dove pareva a loro, senza un cane a dirigerle. Dietro la chiesetta sulla collina, c’era un altro volubro, la meta era quella.

Marcellino quel giorno, non guardava le sue pecore. Guardava per terra mentre camminava, era triste, pensava tante cose. Pensava ai suoi fratelli, che erano andati a Roma a fare i muratori, e non erano più tornati. Pensava a suo padre, che ormai era anziano e molto malato. E pensava infine alla sua dolce madre, che lo aspettava a casa, col caffè pronto.

“Che cosa farò della mia vita”, diceva tra sé e sé. “Non ho studiato abbastanza, non posso che restare qui e badare al mio gregge, che mi dà appena l’indispensabile per sopravvivere”. Mentre ragionava, arrivò infine al secondo volubro. La tempesta di neve non ne voleva sapere di smetterla, Marcellino prese dei rami d’abete e si costruì un giaciglio, rinserrandosi nella sua mantella. Stavolta, si addormentò senza nemmeno contare le sue pecore. E sognò. Sognò quello che aveva visto una volta sola in vita sua, nella stazione di Anagni, un treno grande, nero, che sbuffava vapore dappertutto, e che gli era piaciuto a tal punto che papà Egidio gliene regalò uno simile per Natale. E sognò di montarci sopra e partire, per Roma, ma anche più su, in Francia dove erano i suoi zii pizzaioli, oppure in Belgio, dove aveva un cugino che lavorava in miniera…

Passarono almeno tre ore. Si svegliò col sorriso sulle labbra, anche se non si ricordava più cosa avesse sognato. Ma attorno a lui, le pecore erano sparite. “Ma dove sono andate?”, pensò. Si guardò attorno, cercò nella collina vicina, chiese a un amico pastore se le avesse viste, guardò nel volubro sottostante la vallata, nulla di nulla.

“E ora cosa faccio, non posso tornare a casa senza pecore, mio padre mi ammazzerebbe”. Decise di continuare a salire, verso Campo Catino c’erano dei pascoli, non potevano che essere lì. Continuò a cercarle fino a sera, si creò un nuovo giaciglio e aspettò il mattino, quando avrebbe ripreso la ricerca.

Intanto però, Assunta era preoccupata, non vedendolo tornare. Cosa era successo, si era addormentato come al solito, o qualcosa di peggio?… Uscì a cercarlo insieme al padre, e non lo trovò. Nemmeno le pecore furono ritrovate mai. Sotto quella tormenta di neve, Assunta si ammalò di polmonite, e morì ancor prima di Egidio, che pure era già molto malato.

Dove fosse finito Marcellino, in paese nessuno lo immaginava. Cominciarono a girare leggende su di lui, che si fosse arruolato nella legione straniera, che avesse venduto le pecore per andare a fare la bella vita in Francia, oppure che per motivi ignoti, fosse finito in galera.

Nulla di tutto questo. Marcellino aveva pensato che le pecore avessero seguito il cammino della transumanza, e iniziò anche lui quel cammino per cercarle. Attraversò gli Appennini, giungendo tra mille difficoltà prima in Abruzzo, poi in Irpinia, poi in Molise, cibandosi di quello che poteva. Naturalmente, non trovò il suo gregge. Infine, disperato, si fermò vicino Foggia, e lì ebbe la fortuna di trovare una pastorella che si innamorò di lui, e lo sposò…

Passarono quarant’anni. Marcellino non ebbe più notizie dei suoi, ma un giorno il caso volle che incontrò il fratello, che aveva cominciato a lavorare con una società che costruiva strade proprio nella provincia di Foggia.

“Mamma è morta, lo sapevi?…”

“No, non ho saputo più nulla da quel giorno…”

“È morta pochi giorni dopo che sei sparito, di polmonite. Papà l’ha seguita sei mesi dopo”

“Mi dispiace tanto…”

“Sai dire solo “mi dispiace”, disgraziato?…Lo sai che mamma si è presa la polmonite per venirti a cercare, in quella tormenta di neve?…Valla almeno a trovare al cimitero, e portagli due fiori, che a te voleva più bene che a noi altri due…”

Marcellino non replicò. Lui quel giorno poteva anche morire di freddo e di stenti, e anche nei giorni successivi,  quando da solo varcò gli Appennini, e doveva fare i conti col vento gelido dell’Irpinia…

Va bene, pensò. Domattina andrò a Torre, a farle visita.

Lasciò a Foggia la sua famiglia, moglie e due figlie, e prese il treno. Dopo aver cambiato treno due o tre volte, finalmente giunse in corriera al suo paese. O meglio, di quello era rimasto solo il nome, il resto era tutto cambiato dopo quarant’anni.

Non c’erano più gli ovili in paese, col tempo i figli dei pastori erano andati a scuola, e non ne avevano voluto sapere di quel mestiere. Volevano tutti cantare, incidere dischi, fare tanti soldi. I pochi ovili rimasti erano stati spostati dal sindaco fuori dell’abitato, perché la puzza dava fastidio agli abitanti, sempre più colti ed emancipati. Il volubro non serviva più per abbeverare gli animali, ma era stato recintato e trasformato in un laghetto per la pesca sportiva, in un’attrazione turistica, che però era sempre deserta. Persino il fontanile, dove le donne un tempo portavano la biancheria a lavare, era stato chiuso e trasformato in un cimelio storico. C’era stato il chiaro intento di trasformare un paese di pastori e contadini, in un paese per turisti, dove tutti facevano a gara per abbellire le proprie case e renderle attraenti, ma di turisti nemmeno l’ombra. E questo ormai da decenni.

Nientemeno, qualche sindaco fuori di testa pensò di organizzare una gara di rally da svolgersi per le strade del paese a ferragosto, o anche feste del vino, che però non assomigliavano assolutamente a  sagre dell’uva, ma erano tutt’altro.

Marcellino scese dalla corriera un martedì di giugno. Cominciò a camminare lungo il paese, ormai nessuno poteva più riconoscerlo. Tutto sembrava nuovo, perfetto, dalle auto alle case. Finalmente giunse a quella che una volta era casa sua, e che esisteva ancora. Solo che ormai era un rudere: intonaci staccati dal gelo e dall’umidità, tetto sfondato con le tegole portate via dal vento forte che ogni tanto soffiava da est, e  un portone mezzo scardinato. “Ecco, ci sono”, disse tra sé. Provò ad aprire, ma sembrava inchiodato. Fece forza, e con una piccola spallata riuscì ad entrare. C’erano ancora i mobili, nessuno aveva toccato nulla. Solo i vetri dell’unica finestra erano rotti, e da lì era entrato di tutto, compresa una cincia che aveva fatto il nido proprio nel tubo della cucina a legna. Il tavolo dove mangiavano tutti insieme la polenta a Natale, era ancora lì, con le cinque sedie spagliate e tarlate tutto intorno. In fondo a quella povera cucina, una porticina dava l’accesso alla camera da letto: il grande letto col materasso di crine dove dormivano tutti e cinque era ancora lì, pieno di polvere e con sopra un paio di vecchie coperte. A Marcellino venne un groppo alla gola. Vedeva ancora sua madre rassettare il letto, preparargli la tinozza con l’acqua scaldata in cucina, per il bagno della domenica. Voleva uscire da lì, sentiva che gli faceva male. Andiamo a trovare mamma al cimitero, pensava. Ma un sesto senso gli fece girare la testa verso la credenza, prima di uscire. E infine la vide, ancora sul ripiano, pronta per lui, vecchia, nera di fumo e di anni, ma forse funzionava ancora: l’ultimo atto d’amore lasciato da sua madre, la macchina del caffè…

Fabio Mastropietro

Lui, rintanato negli angoli più cupi di quelle grigie aule.

Lui, che risiedeva e si accucciava dolorante e bruciante nelle fiamme dell’ade, che l’avevano preso con sé, non per amarlo, ma per torturare le sue membra.

Lui, che con quella giacchetta nera di pelle e quella maglietta bianca, voleva far credere di essere il più forte, il più uomo e ribelle di tutti, quando invece sotto quel velo, che aveva nascosto i suoi occhi, brillava quella purezza della natura, impetuosa e incontaminata dai tocchi dell’uomo.

Lui, occhi di vetro, che non vedeva più il mondo, non ne godeva nemmeno il minimo aspetto, e viveva nelle sue ferite che non ricuciva mai, senza accorgersi, che sotto quell’aspetto da divinità, c’era la purezza di quell’amore mancato e da lui tanto desiderato.

Ogni mattina, dopo aver percorso il sentiero che portava a scuola, e la sua altezza disumana, il suo volto macchiato da forme puntigliose e pungenti, occhi di vetro, non aveva altro amore all’infuori del silenzio. Nascondeva briciole di pane nelle sue tasche, e nemmeno alla più bella papera del parco dove passeggiava, offriva quelle briciole, che fosse stato per amore o anche per la sola pietà. Entrava nei corridoi, in solitaria, seguito solo dalla sua stessa ombra, che lo accompagnava sempre e ovunque, e gli altri compagni lo guardavano e lo deridevano appena ne avevano la possibilità.

«Occhi di vetro! Occhi di vetro!» urlavano alla sola vista.

«Guardatelo… Occhi di vetro!» lo umiliavano, ma in fondo di lui, questi ragazzi ne avevano una paura oscura, ombrosa, di opaca brillantezza.

Lui non si rendeva conto che non era occhi di vetro, lui era occhi di amore. Non sapeva guardarsi dentro, non riusciva a esprimere il suo potenziale, per il passato, che lo avevo chiuso tra le sue stesse celle. Non si rendeva conto che era vittima e carnefice nel medesimo istante. Occupava il banco all’ultima fila, non esalava respiro, non bisbigliava pensiero, non si limitava al silenzio, ma al totale evitamento di ogni forma e persona che entrava in contatto con lui.

«Occhi di vetro, sei uno sfigato, devi morire!» berciò uno durante la ricreazione. Il bulletto della scuola, il vero sfigato che dava dello sfigato all’unica persona da cui avrebbe potuto trarre insegnamento. I giorni immancabilmente erano così ed era inevitabile per lui, tanto che ormai era  abitudine, e le sue non risposte valevano più di ogni parola pronunciata. Si avvicinò una dolce ragazza, che accostata alla macchinetta lo fissò un po’, prima di decidersi a parlare con lui.

«Perché ti chiamano Occhi di vetro?» domandò Nina.

Nina, la nuova ragazza che era appena arrivata in quella scuola, trasferita da chissà quale città, non era a conoscenza di nulla che in quella pausa non fosse solo l’insulto verso occhi di vetro.

Non pensava che parlandoli avrebbe rovinato la sua reputazione con tutta la scuola.

Ma in un solo sospiro, lei esordì verso di lui:

«Allora, perché occhi di vetro?».

La guardò con occhi chiari e sbiaditi, grigi e naufraghi come temporali in mezzo all’oceano. Nina fu folgorata, notò i pianti che alberavano nelle sue iridi colme di cupezza e terrore, ma in cui lei con accuratezza vide il mare limpido, il sole splendente, e in uno sbuffo di fumo vide l’amore in lui.

Nina e occhi di vetro… che relazione di fantasia, surreale e malconcia.

Noi due, fatti per stare insieme e respirare l’aria malata e condita di lietezza.

Nina e occhi di vetro.

Lui la guardò e berciò: «Occhi di vetro… perché non parlo, non rido, non sorrido, sono all’ultimo banco e sono un tipo strano… credo…».

«Ah! Pensavo qualcosa di più grave, io credo tu abbia occhi grigi e sublimi!».

Esclamò con spontaneità, talmente irruenta da suscitare in occhi di vetro il più incredibile dei doni da lui tanto desiderato. Per la prima volta qualcuno lo vide, lo toccò sul braccio, come a dire “mi prenderò cura di te, non sei da solo” e lui scoppiò in lacrime.

Non era più occhi di vetro, si erano sciolti negli occhi di Nina ed ora era pronto a uscire dagli inferi e andare verso l’eterna fonte della giovinezza.+

L’amore.

Non era più occhi di vetro. Ora era Mike. Ora poteva essere Mike, magari insieme a Nina, la ragazza che le aveva tolto il velo dai suoi occhi e l’avevo reso libero.

Luca Maglio

Premessa dell’autore Fabio Mastropietro: questo racconto parla di un sogno all’interno di un altro sogno. Non ci sono riferimenti a fatti o persone realmente esistenti o esistite. Ne lascio libero uso a chi vorrà disporne, con la lontana intenzione di poter trarne una piccola popolarità come autore. Buona lettura…

Dunque, quella sera grandinava. Chicchi grossi come mandarini, freddi come granite di ferragosto. Peccato fosse quasi Natale. La minuscola y10 di Marcellino sembrava schivare quelle mini bombe, mentre il nostro, emozionato e impaziente come al solito, percorreva di corsa la Prenestina.

Porta Maggiore era deserta, ormai per strada solo i festoni illuminati, e l’aria della festa. Ma non per tutti, purtroppo. Qualche povera meretrice batteva ancora i marciapiedi di via Cavour, e tra queste c’era Einita, con i suoi bei capelli biondi e una pelliccia di visone, da dove spuntavano, lunghissime e interminabili, le sue splendide gambe. Vicino a lei, una brunetta simpatica e piccolina, Agnieszka.

Marcellino non era ancora arrivato all’appuntamento, all’ora pattuita mancava un po’ di tempo. Era adesso in un cocktail-bar di via Veneto, per una flûte di champagne, come faceva spesso.

“Il solito, signore?”… chiese l’affascinante bar-tender. “Mettici un po’ di ghiaccio tritato, visto come grandina…” scherzò Marcellino.

“Poca gente in giro, stasera..” commentò distrattamente. “A Natale siete aperti?”…

“Certo signore, per la sera del 24 può prenotare, mentre il 25 apriamo alle 12.00 per quattro ore, solo per un brunch. Il 26 invece siamo chiusi”.

“Bene. Vedrò se per Natale mi libero, un brunch non sarebbe male”. E poi salutò.

Ma quello che lo aspettava quella sera, non era esattamente un santo Natale con tutti i sacri crismi.

Prese l’auto e passò davanti al cinema Fiamma. L’ultimo spettacolo era appena terminato, una decina di spettatori infreddoliti lasciavano la sala, rinserrati nei loro cappotti. Non grandinava più, ma in compenso un vento gelido trascinava un nevischio che piano piano assomigliava sempre più a una bufera di neve.

Devo esser proprio pazzo ad uscire con questo tempo, pensava Marcellino. Ma d’altronde, questa avventura mi fa vivere, mi piace, e quindi è giusto così….

Anche Einita avrebbe voluto essere a casa, al caldo. Ma come tutte le sere, la aspettava ben altro. Quella sera in particolare poi, la sua amica Agnieszka sembrava nervosa, guardava spesso l’orologio, come se stesse aspettando qualcuno. Mordeva l’ennesima sigaretta tra i denti, in mano stringeva una medaglietta della Madonna di Lourdes.

Ormai nevicava, e anche forte. L’y10 di Marcellino sbucò da via Depretis. Ma allo stesso istante, lungo via Cavour, arrivò una moto potente con due uomini a bordo, vestiti di nero. La moto si avvicinò rapidamente alla polacca, la quale capì subito tutto, e iniziò a correre la discesa verso via Urbana.

“Scappa Einita, scappa!…” urlò Agnieszka. E furono le sue ultime parole. Il passeggero della moto tirò fuori una pistola, ed esplose tre colpi. La moto sparì in un lampo. Quel freddo marciapiede che aveva calpestato milioni di volte con i suoi tacchi a spillo, ora era bianco di neve: il lenzuolo che accoglieva il corpo esanime di Agnieszka. Gli occhi erano aperti, sbarrati dal terrore, nelle pupille era rimasta fissata l’immagine del suo assassino. Una scia densa e purpurea di sangue correva lungo la discesa, solcando lo strato di neve fresca.

La mano che teneva la madonnina restò immobile, serrata. Ma da quella mano uscì la Signora, che si pose in piedi vicino a lei, e senza che nessuno, tranne Agnieszka, potesse sentirla o vederla, disse:

Teraz słodki i święty duchu,
zostaw to biedne ciało
i wróć do domu niebiańskiego ojca.
witaj tę grzesznicę,
która nazywała się Agnieszka.  Amen

Ciò detto, sparì, e lo spirito di Agnieszka salì in cielo insieme a lei.

Marcellino arrivò un minuto dopo il fatto. Non c’erano altre persone. Non c’era nessuno nemmeno dalle finestre, i palazzi intorno erano tutti uffici, tutti chiusi a quell’ora della notte. Non aveva nemmeno udito gli spari, da dentro l’auto con lo stereo acceso. Ma capì subito che qualcosa non andava per il giusto verso.

Spense la radio, restando in macchina. Dove si sarà cacciata Einita, pensò. Finalmente vide il corpo di Agnieszka. Ma a dieci metri, vide anche un panno ormai semisepolto dalla neve.

La prima cosa a cui pensò, era la fuga. C’era un corpo a terra, sicuramente un cadavere, meglio non impicciarsi. Ma una brutta sensazione cominciò a sfiorarlo: fermò l’auto e scese, si avvicinò a  quel panno bianco di neve. Non era un panno, era una pelliccia di visone. E dentro c’era Einita, sembrava morta anche lei.

“Nooo!!!” urlò Marcellino, squarciando il silenzio attorno. Il terzo colpo. Quel terzo colpo aveva mancato Agnieszka, ma in modo inspiegabile, con una traiettoria maledetta aveva colpito Einita. Una chiazza di sangue le macchiava il body leopardato, all’altezza della milza.

Improvvisamente, a Marcellino comparvero gli ultimi anni vissuti rincorrendo Einita. Il suo primo incontro dietro al Flora, la sua prima volta in un hotel a ore con lei. E poi, tutte le altre volte in cui l’aveva incontrata, a via Veneto, al mare, nei ristoranti del centro. E ogni volta, gli sembrava di doverla riconquistare, per strapparle un sorriso, o per vederla felice di incontrarlo. Pensò a quell’unica cartolina spedita da Pola, durante una delle rare visite di Einita alla figlia adorata: quel “te vogo bene” sgrammaticato e con la scrittura incerta, quasi da scolaretta elementare. E si ricordò anche dell’emozione che lo pervase, nel ricevere quella cartolina…Sentì improvvisamente una grande nostalgia di quei momenti, nel pensare che potevano non tornare più, che Einita poteva essere morta.

Marcellino avvicinò l’orecchio al cuore della ragazza, e sentì che batteva ancora. Non stette più a pensare nulla, sapeva che non doveva muoverla. Le alzò i piedi sopra una borsa, poi chiamò subito il pronto soccorso.

“Presto, in via Cavour, incrocio via di Santa Maria Maggiore, una donna sanguina, sembra quasi morta..” . “Ma lei ha visto come è accaduto?” diceva l’operatore. “No, sono di passaggio, fate presto”…

L’intenzione di Marcellino era quella di aspettare l’arrivo dell’ambulanza, per poi squagliarsela, una volta che avesse avuto la certezza che Einita poteva essere salvata. Ma non andò così, perché mentre vide l’ambulanza arrivare da lontano, alle spalle aveva già una macchina delle forze dell’ordine, senza che se ne fosse accorto.

Dall’auto scesero due agenti, uno dei due si avvicinò al cadavere di Agnieszka, l’altro a Marcellino. “Mani in alto, prego”. Marcellino fu perquisito, poi la domanda: “è stato lei?”…

“No, ero di passaggio, ero passato all’Harris per un drink, poi mentre stavo tornando a casa ho visto…”

“Cosa ha visto?”

Marcellino non voleva dire che aveva un appuntamento con Einita e si era recato apposta in quel punto, dove solo dopo un minuto s’era reso conto di un problema. E non poteva nemmeno dire che avesse visto chi era stato, perché non era vero, non aveva visto nessuno.

“Ho visto una persona a terra, intorno non c’era nessuno, ho pensato fosse mio dovere fermarmi”.

L’altro agente aveva già recuperato un bossolo. “Sembra un’arma russa, una Grach” disse sottovoce al collega, che annuì, guardando in basso. Poi, dopo aver registrato i documenti di Marcellino, disse: “lei deve aspettare, sta arrivando il magistrato e sicuramente le farà delle domande”.

Nel frattempo arrivò l’ambulanza per Einita, e poi il carro funebre per la povera Agnieszka. Ormai per lei era iniziato il rigor mortis. Ci misero un po’ a sollevarla e metterla nella bara di metallo. L’ultimo arto che vi entrò fu la mano che stringeva ancora la medaglietta con la madonnina di Lourdes.

Marcellino la guardava. Non la conosceva. Che cosa siamo, pensava; bastano due buchi nella pelle e siamo finiti…e dentro di sé, recitò una preghiera per quella povera anima.

“Lei conosceva la vittima?”… la domanda del magistrato lo risvegliò da quei pensieri.

“No, ho già detto agli agenti che stavo tornando a casa, dopo un drink all’Harris…”

“Strano”, disse il magistrato, “per tornare verso la Prenestina venendo da via Depretis non dovrebbe passare da via Santa Maria Maggiore”….

Marcellino gelò più della grandine. Se ora questi vengono a sapere che io e Einita ci conosciamo, minimo mi sbattono in galera per un mese. Ma trovò una risposta abbastanza convincente. “Sa, ho imboccato via Depretis che nevicava di brutto. Io non ho le gomme adatte. Quando sono arrivato alla fine della discesa, ho trovato una coltre di ormai trenta centimetri. Per non rischiare di restare impantanato all’una di notte, ho girato per via Urbana che era più libera, e poi ho provato a risalire da quest’altra via”.

Il magistrato lo guardò fisso e con fare severo, come se non credesse a una di quelle parole. Ma per fortuna di Marcellino l’arma del delitto era stata già identificata al 90%, l’origine di quell’assassinio andava ricercata molto probabilmente nella mafia Russa, per cui effettivamente il nostro poteva essere considerato  un passante senza alcuna colpa.

“Va bene, lei può andare. Ma si tenga a disposizione”

“Agli ordini, maresciallo Rocca”, pensò e per fortuna non disse Marcellino, e finalmente montò sulla sua utilitaria, tornandosene a casa.

Ma quella notte, nella sua mansardina all’ultimo piano del condominio in via delle Palme, Marcellino non dormì. Pensava a quella povera ragazza uccisa, pensava ad Einita. Come stava?… La stavano salvando, o era morta anche lei?… come doveva fare per avere notizie senza compromettersi più di quanto non si era già compromesso?… intanto, fuori continuava a nevicare. Come se il Padreterno avesse deciso di pulire tutto quel sangue, spandendoci sopra una coperta bianca e soffice.

Alla fine, ai primi bagliori di un’aurora azzurra come i riflessi della neve, che ormai aveva raggiunto gli ottanta centimetri, Marcellino, stremato, si addormentò…

Bum-bum-bum!… Bum-bum-bum!!…Bum-bum-bum!…

Un bussare forte, violento ed insistente fece sobbalzare dal letto Marcellino, che dormiva profondamente. “Vengo, vengo!”… disse, mettendosi qualcosa addosso. Grande fu la sua sorpresa quando, aprendo la porta, vide un mostruoso esemplare di eunectes murinus, volgarmente noto come anaconda verde, il serpente più grande del mondo, scoperto, manco a dirlo, da Linnaeus nel 1712.

“Sei tu Marcellino Dallepalle?”… chiese l’anaconda. “Sì, sono io” rispose Marcellino.

“Devi venire con me, il magistrato vuole farti qualche domanda a proposito di quello che è successo ieri sera a Santa Maria Maggiore”. “Ma io ho già parlato col magistrato, e poi lei chi è, si qualifichi…”

Gli anaconda di pazienza ne hanno poca, si sa: avvolse immediatamente Marcellino nelle sue spire, e insieme a lui rotolò lungo le scale fino a piano terra. Senza fare troppe storie, prese il malcapitato e lo mise nella borsa di Gornano, il mite Pellicano.

Questi faceva praticamente da postino al Grande Tribunale, e con Marcellino nel becco decollò e poi si diresse verso Monte Mario. Durante il viaggio, cento altri pellicani portavano gli imputati da e verso il tribunale. “C’è traffico oggi, perché non la smettete di compiere reati, così noi lavoriamo di meno?”… Chiese Gornano a Marcellino, che portava nel becco. “Ma io non ho fatto nulla…” tentò di giustificarsi Marcellino. “Come no, dite tutti così, poi però finite tutti nella Grande Laguna”….

La Grande Laguna era il luogo di pena, un acquitrino fangoso popolato da enormi ippopotami, che si contendevano i condannati con dei Gaviali mai visti. Era alloggiata nel vecchio ippodromo di Tor di Valle, ormai in disuso da decenni.

Arrivato alle pendici di Monte Mario, Gornano sganciò Marcellino sul tetto del Grande Tribunale come fosse una bomba della seconda guerra mondiale, poi sparì. Per fortuna, i due metri di neve caduti la notte prima, attutirono il colpo.

Ad attendere il nostro, due lupi marsicani, che con zanne ben appuntite lo afferrarono per la collottola, lo portarono nella Grande Sala dei Processi, dove lo aspettavano giudici ed avvocati. “Ahuuuuu…” ululò il lupo che depose Marcellino sulla Grande Ruota del Tribunale.

Ahuuuuu!!!… ululò il Lupo Custode dall’interno, che morse Marcellino per la cintola dei pantaloni del pigiama, e lo portò dietro le sbarre, sul banco degli imputati.

In aula, oltre ai giudici e agli avvocati, c’era anche il pubblico, naturalmente: mille Macachi scatenati, che già grugnivano e si agitavano con versi orrendi, in attesa dell’imputato.

Il Grande Cancelliere, un superbo esemplare di Ramphastos Toco, volgarmente noto come Tucano, dal manto multicolore e grande il doppio della media, esordì annunciando: “Tutti in piedi, entra la Corte”.  Poi, visto che Marcellino era rimasto impietrito dal terrore sulla panca a lui destinata, urlò: “IMPUTATO, SI ALZI!!!”, facendo cenno al Lupo Custode, il quale provvide subito a mordere Marcellino sul polpaccio sinistro.

Entrò finalmente la Corte:

  • Prima i Grandi Collaboratori, scelti tra i migliori Corvi della città, neri come la pece, con la loro brava cartellina sotto l’ala. Si accomodarono sulle loro belle poltroncine di velluto rosso, e manifestarono la loro soddisfazione per averle trovate di loro gradimento, con un “Cra-cra” sonoro e devastante
  • Infine, entrò il Grande Giudice: un rarissimo esemplare di Aye-Aye, lemure del Madagascar, animale avvolto da fama abbastanza sinistra. La leggenda vuole che sia un demone, e si racconta che questo animale così bizzarro avrebbe la capacità di uccidere una persona soltanto puntandole contro il dito di una zampa.

I Macachi in Aula non si tenevano più, erano scatenati, e urlavano “Grande-Laguna! Grande-Laguna! Grande Laguna!”

Il Grande Cancelliere li zittì col verso tipico dei tucani, e disse: “La parola al Giudice!”

Il giudice esordì con una vocina flebile, stridula:

“Imputato Marcellino Dallepalle, nell’ imminenza dei fatti lei ha dichiarato di essere in via Santa Maria Maggiore solo di passaggio, dopo essere stato all’Harris per un drink. È vero questo?…”

“Sì, signor giudice”, rispose il nostro eroe.

“Ebbene, noi abbiamo esaminato la rubrica e il registro chiamate del cellulare della signora Einita Markovic, ed abbiamo trovato non solo il suo numero, ma anche numerose chiamate fatte da Lei, la sera del delitto. Come lo spiega questo?…”

Marcellino sbiancò, se possibile era più terrorizzato di prima. Pensò subito che sarebbe stato ritenuto responsabile di tutto, tanto al giudice cosa importava, serviva un colpevole da dare in pasto ai coccodrilli nella Grande Laguna, serviva riempire di titoloni i giornali del giorno dopo, per cui….

“È vero, ero un cliente di Einita”.

“Per me è sufficiente. L’avvocato difensore ha qualcosa da dire?”

Seduto al suo posto, l’avvocato era un micetto nero di un mese di vita, che dopo aver esordito con un “miao!” si limitò a dire: “mi rimetto alla clemenza della corte”.

“Bene” Disse l’Aye-aye, “la corte  si ritira per deliberare”. Dopo nemmeno un minuto, rientrò tutta la Grande Corte del Grande Tribunale, e il giudice lesse la sentenza:

“Imputato Marcellino Dallepalle, lei è stato riconosciuto colpevole dell’omicidio di Agnieszka Wizlew, che ha fatto fuori perché intralciava l’attività della sua assistita, Einita Markovic. Poi ha sparato anche alla sua assistita, ferendola non gravemente, per ottenere rispetto e obbedienza. La pena prevista è la Grande Laguna, con esecuzione immediata. Così è detto.”

Un boato di approvazione emerse dalla folla dei mille macachi,  mentre il Grande Custode, per mostrare di aver compreso la Sentenza, si produsse in un “Ahuuuuu” talmente prolungato che il giudice gli impose di smetterla.

Prese il povero Marcellino per la collottola, e lo affidò di nuovo a Gornano, il mite pellicano. Il quale disse con accento ciociaro: “alla Grande Laguna, vero?… che ce voi fà Marcellí, oggi a te, domani… sempre e solo a te!…”

Imboccò il nostro eroe, e si avviò volando verso la Grande Laguna non distante, dove già cento coccodrilli affamati aspettavano il loro pezzo di carne quotidiano….

“Io non ho fatto nulla, sono innocente. Lo dica, Gornano, al giudice, sono innocente”…

“Eh, oramai è tardi. È tardi…” e sganciò di nuovo Marcellino come una bomba della seconda guerra, stavolta sopra la Grande Laguna. I mille Macachi si erano trasferiti tutto intorno alla laguna per godersi lo spettacolo, e nell’attesa battevano gli alberi con dei bastoni:

Bum-bum-bum!…Bum-bum-bum!…Bum-bum-bum!

Bum-bum-bum, bum-bum-bum…..Era di nuovo qualcuno che bussava alla porta della mansarda di Marcellino, stavolta per davvero, e per svegliarlo da quell’incubo. Marcellino finalmente si svegliò, era tutto sudato, il cuore che gli andava a mille. Finalmente si rese conto di dov’era, e disse: “vengo, vengo subito…”

Aprì la porta: non era un anaconda, era Einita, più bella che mai nel suo vestitino leggero pieno di colori. “Allora amore, ti svegli o no?…”

“Ma…ma tu non eri….”

“No, io non ero, adesso ti sbrighi a vestirti che andiamo al mare?…”

“Ma come, non nevica?…”

“Per questo ti amo, perché sei più pazzo di me…. Ti aspetto in macchina”.

Marcellino eseguì, si mise il costume, preparò la borsa da mare e scese: “sarà questo clima impazzito”, pensava mentre scendeva le scale. Una splendida Ford Mustang Cabrio rosa, aperta e con Einita al volante, lo aspettava.

E se ne andarono verso il mare, come in quel film con Sharon Stone e Silvester Stallone

No….come la scena finale del film “Innocenti bugie”, con Cameron Diaz e Tom Cruise.

E sul cruscotto, un magnetino con una foto: quella di Agnieszka naturalmente, che sorrideva strizzando l’occhio e salutando….

E vissero felici e contenti. Fine

Fabio Mastropietro

Era giunto il tempo di uscire dal nido ed esplorare il mondo.
La mitica Pillolina era pronta a conquistare nuovi terrori.
Il mondo era la sua ostrica.
Decise che sposando la filosofia low cost avrebbe potuto passare un weekend al mese viaggiando senza far sprofondare le proprie economie nell’oblio.
La prima meta fu scelta dal destino.
Più precisamente fu scelta dagli agrumi.
In un noioso sabato pomeriggio di pioggia si era recata in un tranquillo bar di campagna per fare merenda.
Mentre cercava senza successo di pulire il cellulare dalle briciole del suo sandwich uova e bresaola, aveva rovesciato con una gomitata il suo bicchiere di spremuta.
Il liquido riversato si era diviso in cinque sottili diramazioni che somigliavano a dita di una mano che cercavano di afferrare il giornale abbandonato all’angolo del tavolo.
Quando prese il giornale per tamponare notò l’inserzione che offriva l’opportunità di noleggiare una baita a Taosburg ad un prezzo irrisorio.
Non era mai stata a Taosburg.
Un’avventura a sole due ore di treno.
Chiamò subito il numero indicato non solo per prenotare per il weekend successivo, ma anche per chiedere se nella baita c’era un bagno incorporato.
L’ultima volta che aveva orinato all’aria aperta una famiglia di zanzare le aveva addentato ripetutamente una chiappa trasformandole la natica in una lettera dell’alfabeto Braille.

Anche se sapeva che non sarebbe arrivata a destinazione prima di mezzogiorno si era rifiutata di fare una banale colazione a casa.
Quel giorno si sarebbe nutrita solo a Taosburg, in questo modo avrebbe potuto provare più prodotti locali possibili.
Il viaggio in treno lo avrebbe passato leggendo un fumetto giallo ed ascoltando musica spirituale.
Appena entrata nel vagone si pentì di non aver messo nulla sotto i denti.
La fame aveva già cominciato a divampare.
A metà strada un simpatico ragazzo basso si sedette di fianco a lei e le domandò qualcosa.
Non fece in tempo a togliere gli auricolari che il suo stomaco in sommossa rispose per lei.
Il ragazzo scappò come se temesse per la propria vita. Aveva paura che la ragazza lo divorasse.

La stazione dei treni di Taosburg era a due passi dal centro storico.
Con il suo zaino color universo sulle spalle la dolce Pillolina si incamminò sorridente verso la piazza.
L’aria pulita e leggera profumava di croissant.
l cielo era sereno e sgombro di nuvole.
Il sole scaldava piacevolmente con i suoi raggi premurosi.
Le strade non erano asfaltate ma piastrellate con mattonelle di pietra.
Ogni tre metri spuntava un albero in fiore.
Tutti gli edifici erano di un solo piano e composti da mura di pietra con i sassi a vista.
I tetti erano formati da lastre di pietra scura.
In un prato in lontananza vide un bambino che faceva lo slalom tra le mucche con lo skateboard.
Le passò di fianco una lenta carrozza trainata da un destriero bruno che le lanciò uno sguardo affettuoso.
Era tutto così pittoresco.
Sembrava essere tornata indietro nel tempo di secoli.
Si sedette su un tavolino all’esterno di una pasticceria.
Il locale si chiamava Dolcina.
I nativi del posto parlavano un dialetto stretto ed incomprensibile.
Non aveva mai avuto successo con le lingue straniere e derivati, ma all’università aveva studiato approfonditamente la comunicazione non verbale quindi gesticolando riuscì ad ordinare una coppetta di gelato ai gusti vaniglia e pistacchio.
Il cortese cameriere portò subito il gelato con tre deliziosi biscottini alla cannella in omaggio.
Appena annusò il cibo cominciò a salivare.
Sembrava tutto così bello.
Così gustoso.
Così armonioso.
In mezzo alla piccola piazza seduti sul bordo di una grande fontana, ornata da statue di daini, c’era una coppia di teneri nonnini che si tenevano per mano.
Poco distante una gioiosa bambina con un vestitino rosa faceva volare un aquilone con disegnato una buffa tartaruga.
Dall’altra parte un trio di giovani ragazze civettavano allegramente sedute su una panchina.
In un altro angolo della piazza due bambini stavano giocando a terra con un pulcino.
Un ragazzo atletico coi capelli verdi che stava girando in bici si fermò davanti al tavolo di Pillolina e le porse una rosa bianca.
La ragazza prese il fiore ed arrossì.
Il giovane sorridendo riprese a pedalare.
Sembrava che il treno l’avesse traghettata verso il paradiso terrestre.

Il padrone della baita, un uomo baffuto dal portamento caprino, aveva modi fin troppo cordiali ed affabili.
Esibiva il tipico comportamento di un commerciale quando riesce a vendere qualche prodotto non affidabile.
Non la accompagnò di persona all’alloggio, ma le consegnò le chiavi, una mappa turistica e un cioccolatino al latte a forma di albero.
Segnò sulla cartina con una matita una stella sul luogo dove era collocata la baita.
La dolce avventuriera ci mise quaranta minuti a piedi per raggiungere la destinazione.
Si godette ogni passo della passeggiata in quell’ambiente da sogno.
Nel centro, non essendo permesse automobili ed altre mostruosità del genere, il cinguettio dei passeri era forte e nitido tanto da sembrare di assistere a un’orchestra all’aperto.

La baita era rustica ed intima.
Arredata proprio come un rifugio di montagna.
Tutta completamente di legno.
Pareti, soffitto, pavimento, mobili.
Sembrava di essere dentro al tronco di un albero.
L’ambiente era molto pulito e profumato.
Sul lavello della cucina c’era una bottiglia di vino bianco, che avrebbe di sicuro aperto più tardi, e una bottiglia di un forte liquore locale fatto con radici di betulla.
Quello non l’avrebbe mai provato neanche se le avessero sparato.
Nel frigo era riposta una succulenta torta salata a base di spinaci, uova, fontina e prosciutto.
Sia l’aspetto che l’aroma davano l’impressione che fosse squisita.
Di fronte al divano scarlatto a due posti c’era un caminetto.
Non aveva freddo, ma voleva accenderlo solo per fare atmosfera.
Fuori ad una decina di metri dalla baita c’era una casetta di legno piena di legna da ardere.
Allineò qualche ceppo di legno nel focolare, ma aveva bisogno di qualcosa per innescare il fuoco.
Non vedeva carta o cartone da nessuna parte.
Sarebbe stato un peccato usare le colorate tende di seta per accendere il camino.
Trovò un quaderno in fondo all’ultimo cassetto di un mobile.
Era pieno di scritte a mano in una lingua che non conosceva.
Perfetto per il suo scopo.
Non poteva sapere che era il diario privato di una ragazza che aveva alloggiato lì prima di lei.
Dopo aver acceso la fiamma mise la torta salata a scaldare vicino al camino.
Stappò la bottiglia di bianco e si versò un calice.
Fuori il sole cominciava a spegnersi e il cielo si colorò di sfumature di rosa.
Accomodata sul divano mangiava a piccoli bocconi la torta salata, che era davvero sublime, mentre ispezionava la mappa.
L’indomani avrebbe visitato le spettacolari cascate e le affascinanti rovine del vecchio castello.
Se le fosse avanzato del tempo avrebbe anche osato strizzare una tetta alla famosa statua di Lady Mithra.
Avrebbe disseminato per l’internet recensioni molto cuorose di quel posto.
Sorprendendo pure se stessa si era ricordata di portare il caricabatteria del telefono.
Tuttavia si era dimenticata di fare la ricarica, perciò per ora avrebbe usato il cellulare solo per fare foto e prendere appunti.
Si era alzata per andare a riempire di nuovo il calice quando davanti a sé si materializzò un’oscura presenza.
Eretta di fronte a lei c’era una ragazza dall’aspetto malvagio.
Aveva lunghi capelli ricci più scuri della morte.
In contrasto con la pelle talmente bianca da sembrare candeggiata.
Gli occhi, privi di iride e pupilla, rendevano il volto ancora più maligno.
Squadrava, con sguardo tetro e gelido, la tenera Pillolina che cadde sul divano dallo spavento spappolando sotto il suo sederino una fetta di torta.
Il suo posto speciale per il weekend era stato violato.
Fin’ora era andato tutto a meraviglia, ma adesso il suo travolgente entusiasmo era stato trafitto da quell’essere che emanava crudeltà e meschinità.
Il cervello di Pillolina fuggì per un attimo dalla realtà e pensò che quella ragazza si truccava veramente col culo.
Era anche disgustata dal lungo pigiama con i panda che un tempo doveva essere stato bianco, ma che adesso si presentava di un colore misto tra l’arancio e il marrone.
La figura maligna per un attimo ringhiò sbavando ed esibendo denti lerci ed avariati poi lentamente cominciò a svanire.
Un pezzo alla volta si volatilizzò, prima le gambe poi il braccio sinistro poi busto, poi la testa.
Rimase per qualche momento visibile solo la mano destra che galleggiava nell’aria.
Poi la mano si mosse chiudendosi a pugno mostrando a Pillolina il dito medio, per poi sparire del tutto.
La piccola cucciola corse in bagno e si chiuse dentro a chiave.
Freneticamente entrò in doccia.
La doccia era sempre stata uno spazio sicuro.
Un luogo protetto dal male.
Niente di cattivo poteva mai capitare mentre ci si lavava.
L’acqua calda sulla pelle la fece calmare, quasi dimenticare.
Non notò neppure le ombre che danzavano per la stanza.

Dopo mezz’oretta di doccia meditativa il fuoco si era quasi spento.
Caricò di ceppi il focolare aggiungendo qualche versata di liquore per incentivare la combustione e cercò di pulire il divano, dalle molecole di torta spappolate, il meglio possibile.
Stava per riporre in frigo le ultime fette di torta sopravvissute quando lo spettro ricomparve.
Era alta poco meno di due metri e da viva doveva essere stata molto giovane ed agile.
Il suo volto era una maschera di odio e rancore.
La tetra figura era leggermente traslucida come se la morta non fosse bene a fuoco.
Le pulsazioni della ragazza impennarono facendole tremare le mani tanto che rischiò di far cadere la torta a terra.
Iniziò a singhiozzare e i palmi diventarono sudacicci.
Prima che gli avanzi potessero cadere definitivamente per terra li scagliò contro lo spirito.
La torta attraversò lo spettro e atterrò sul divano sporcandolo di nuovo.
L’essere infernale a lenti passi si avvicinò alla ragazza che questa volta le tirò addosso una forchetta.
La forchetta sbatté contro le membra della losca figura che aveva ripreso tutto il suo tetro colore.
Di scatto afferrò la giovane per la gola e la sbatté contro il lavello.
La stretta era ferrea e gelida.
La povera Pillolina indifesa smise di respirare e i suoi polmoni cominciarono a bruciare.
Lo spettro avvicinò la sua bocca al quella della giovane come per prepararsi a strapparle le labbra a morsi.
Il doloroso bacio della morte.
La creatura spalancò l’ampia bocca profonda come una grotta.
Ne uscì una lingua pelosa e piena di pustole verdi.
Con un suono simile ad un rombo di un motore sputò del catarro azzurro in faccia all’inerte Pillolina.
La sostanza granulosa, più simile al cerume che alla saliva, odorava di anice mista a benzina.
Mollò la presa.
La dolce ragazza cadde a terra e cominciò ad ansimare.
Ci mise qualche minuto prima di riprendere il controllo delle sue funzioni vitali.
Una volta pronta scattò in piedi come una furia combattente pronta ad avventarsi contro la stronza ed a strangolarla.
Ma la baita era deserta.
La sua unica compagnia era il scoppiettio dei ciocchi di legno ardenti.
Si mise freneticamente a lavarsi la faccia nel lavello, strofinandosi animosamente con le mani.
Continuò a sciacquarsi all’infinito.
Non si sentiva mai abbastanza pulita.
Poi un brivido le trotterellò su per la schiena.
Si sentì avvolta da un freddo pungente.
Percepì che la presenza era tornata.
Era fuori di sé.
Nella mano sinistra prese la bottiglia di vino, nella destra quella di liquore.
Si girò rabbiosa verso l’oscura infestatrice che la osservava ghignando.
Diede un occhiata veloce alle mani decidendo quale bene avrebbe sacrificato per primo.
Scelse il liquore.
Scagliò la bottiglia con forza animale verso lo spettro quasi stirandosi il tricipite.
La bottiglia transitò senza ostacoli attraverso il lurido pigiama coi panda.
Continuò il suo percorso per esplodere in una pioggia di frammenti di vetro dentro il camino.
Una nuvola di fuoco esplorò la stanza.
L’infame sorriso sparì dalla faccia del fantasma che ora sembrava smarrita come una bambina persa in un centro commerciale.
Pillolina scappò di corsa fuori dalla baita prima che le fiamme potessero accarezzarla.
Il raffinato legno della baita prese fuoco velocemente.
La giovane, ancora con la bottiglia di vino in mano, a distanza di sicurezza osservava attraverso una finestra.
Lo spirito stava cercando di fuggire da quel forno gigante senza successo.
Sembrava che non sapesse usare le maniglie delle porte.
Le fiamme danzavano e si riproducevano.
Il legno soffriggeva.
Rivoli di fumo trapelavano dai vari serramenti.
Lo spettro non poteva uscire.
Era in trappola.
Lo spirito rimase fermo immobile in mezzo al rogo.
Era morta in quella baita ed era lì che il suo spirito immondo era confinato.
Il sottobosco del mondo esoterico è zeppo di misteri ed enigmi e la graziosa donnina aveva appena scoperto che i fantasmi non sudano.
Si sedette sul prato a godersi lo spettacolo pirotecnico.
Ogni tanto buttava qualche ciocco di legno con il braccio sinistro addosso alla baita in fiamme per tenere vivo il fuoco il più possibile.
Quando il deposito della legna fu mezzo svuotato trovò una cassapanca che conteneva il cadavere ben conservato della fanciulla riccia.
Il proprietario della baita sarebbe andato in prigione e nessuno l’avrebbe sgridata per quell’improvvisato falò.
Arrivò una coppia di signori che stavano passeggiando nei dintorni.
Non dissero niente, semplicemente si sedettero intorno al fuoco abbracciandosi.
Arrivarono anche due teenager che si sdraiarono vicino alla cassetta della legna.
Uno tirò fuori dal marsupio un flauto di pan e iniziò a suonare. L’altro offrì a tutti i presenti degli snack.
Mentre sorseggiava vino e sgranocchiava crostini, la bella Pillolina, cullata dal tepore del rogo e coccolata dalla melodia, pensò che viaggiare era il vero nutrimento dell’anima.

Storia tratta dal libro LA DONNINA DEI MISTERI di Ronald Arkham

Erano gli anni sessanta, i cosi detti anni del boom economico, ovvero, gli anni del lento abbandono della montagna per raggiungere le città e le fabbriche. Anche il paese di Renato, un paesino fra i monti, a circa mille metri d’altezza, aveva seguito la stessa sorte e nel giro di pochi anni si era praticamente svuotato. Uomini e donne se ne erano andati, ed in paese erano rimasti solo anziani e uno sparuto gruppo di famiglie con figli. I ragazzi del posto diventavano sempre di meno ed un anno, la formazione della locale squadra di calcio, del gruppo sportivo dell’oratorio fu a rischio. Pertanto, anche Renato arrivò a far parte della squadra di calcio oratoriale, certamente lui non aveva un fisico d‘atleta, era decisamente in sovrappeso e piuttosto goffo nei movimenti, ma era di fatto indispensabile, per raggiungere una formazione con undici calciatori.

Una formazione dalla divisa molto semplice, nata dalla necessità di risparmiare, per fare in modo che ognuno potesse provvedere a realizzarsela da solo: calzettoni bianchi, pantaloncini neri e maglietta bianca. Non tutti i giocatori avevano le scarpette con i tacchetti, quelle rimaste in oratorio non erano sufficienti per tutti ed alcuni dovettero provvedere con scarpe proprie, ovviamente Renato era fra quelli che ne erano sprovvisti, ma la cosa non scalfì il suo entusiasmo. Renato, era contento ed orgoglioso, di essere entrato a far parte della squadra di calcio del paese e non appena sua madre gli consegnò calzoncini e maglietta, corse subito ad indossarli nella camera dei suoi, per rimirarsi nello specchio dell’armadio. Davanti allo specchio, con la divisa della sua squadra, Renato incominciò a fantasticare, ad immaginare un futuro sui campi di calcio, che lo avrebbero visto protagonista di azioni brillanti e goal stupefacenti.

Il campionato ebbe inizio e come tutti gli anni, vedeva sfidarsi fra di loro, le squadre degli oratori della loro vallata e delle vallate più vicine; le trasferte della squadra di Renato avvenivano quasi sempre a piedi ad eccezione dei paesi più lontani, in quei casi, ma solo in quei casi, si utilizzava l’autobus. L’allenatore della squadra di calcio di Renato, uno dei pochi uomini rimasti in paese, possedeva alcune mucche da latte e produceva piccole quantità del tipico formaggio a pasta semicotta di quelle zone di montagna. Si chiamava Toni, e anche se faceva il pastore, era più responsabile di un vero tecnico, allenava sul modo di comportarsi oltre allo stile di gioco, e anche se la priorità del gioco era di vincere, prima di tutto, insegnava ad imparare a stare insieme e a rispettarsi gli uni con gli altri. Grazie a Toni ed ai suoi insegnamenti, ma anche alle loro famiglie di provenienza, semplici e povere, la squadra era composta da ragazzi che sapevano comportarsi bene, ragazzi educati e rispettosi.

Il campionato ebbe inizio e Renato, quando era sul campo di calcio, cercava di dare il massimo, gli avevano assegnato il ruolo di difensore, un ruolo che accettò con piacere; certo avrebbe preferito fare l’attaccante, ma anche come terzino si sarebbe distinto, avrebbe compiuto azioni prodigiose, evitando alla sua squadra di subire delle reti. Quando gli avevano comunicato quale sarebbe stato il suo ruolo, a casa, aveva cominciato a documentarsi su chi erano i calciatori famosi, che ricoprivano il ruolo di difensori nelle squadre della serie A, calciatori come Guarnieri, Maldini, Burgnich, Facchetti, calciatori che divennero suoi idoli. Però’, una cosa era fantasticare ed un’altra la realtà dei fatti. Aveva già giocato, se così si poteva dire, alcune partite sia in casa che in trasferta e vide che non era facile raggiungere i risultati che aveva fantasticato. Si era reso conto, di non essere ancora riuscito, neppure una volta, a toccare il pallone, eccetto quando lo andava a raccogliere perché finiva fuori campo, inoltre, aveva l’impressione, che quando la sua squadra subiva dei goal, talvolta, uscissero delle imprecazioni a mezza bocca da parte dei compagni. Compagni che a lui piacevano molto, li sentiva amici e poi erano sempre molto gentili con lui, forse anche troppo, con lui non parlavano molto di calcio, preferivano affrontare altri argomenti e anche durante gli allenamenti, a volte, gli pareva che lo escludessero da certi esercizi. Fortunatamente possedeva un bel carattere, era un inguaribile ottimista, nonostante vivesse una situazione di scarso rendimento sportivo, era sempre convinto che prima o poi si sarebbe riscattato e avrebbe raggiunto quei traguardi calcistici che aveva sognato.

Purtroppo, gli eventi sul campo lo vedevano sempre soccombere, non gli riusciva mai di bloccare gli avversari, i quali lo scansavano con facilità e correvano più veloci di lui, inoltre, a volte capitava, che qualche centrocampista della sua squadra indietreggiasse verso la loro porta, quasi a sostituirlo nel suo ruolo di difensore. Andava convincendosi che forse non era proprio un campione, ma l’idea che prima o poi, sarebbe riuscito ad essere protagonista di qualche azione calcistica spettacolare, non lo abbandonava mai.

Ogni volta che finiva una partita, per quanto, come sempre non avesse toccato palla, lo accompagnava sempre la speranza che quella successiva sarebbe stata la partita giusta. Oltretutto, i suoi compagni credevano in lui, o almeno così pensava, perché quando la squadra vinceva, si complimentavano con lui per il risultato, sottolineando che s’era trattato di un lavoro di squadra e che il risultato comprendeva anche il suo contributo. Solo quando perdevano, li vedeva un po’ nervosi e a volte un pochino sgarbati, in quei casi, spesso interveniva Tonio per sottolineare che, prima di tutto, si giocava per divertimento e per fare dello sport e poi, ma solo secondariamente, anche per vincere.

Una domenica pomeriggio, finalmente Renato senti che era arrivato il suo giorno, che era arrivata quella partita che l’avrebbe incoronato protagonista della giornata. Quel giorno capitò qualcosa di incredibile, l’attaccante avversario possedeva la palla e stava correndo verso la porta con l’intento di calciare, quando Renato lo affrontò e miracolosamente riuscì a togliergli il pallone. Ora era Renato ad avere il possesso di palla, un suo compagno gli chiese di passargliela, ma era il suo momento, era il momento in cui lui aveva il possesso palla e incominciò a correre con la palla verso la porta avversaria. Fronteggiò diversi avversari, ma li superò con facilità, fu cosi che raggiunse la metà campo, per poi arrivare addirittura nell’area di rigore, davanti alla porta c’era rimasto solo il portiere avversario che anziché impostarsi per difendere la porta, fece l’errore di allontanarsi dalla porta, Renato decise di giocare il tutto per tutto, calciò e fu goal. Aveva fatto goal, fu un momento di vera e propria estasi, il grido di “goal” gli uscì come un boato, alzo le braccia in segno di vittoria, finalmente il suo giorno era arrivato, era arrivato il giorno che lo ripagava di tutta la frustrazione che aveva accumulato in tutte le partite precedenti. Renato, dopo l’urlo si girò, per cogliere il plauso dei suoi compagni e dei tifosi ma quando si voltò vide, con stupore, il portiere avversario di spalle che continuava ad incamminasi nella direzione che aveva intrapreso ancor prima che lui calciasse e poi si accorse che i calciatori non stavano più giocando, anzi lo stavano guardando da fuori campo e …ridevano…ridevano …ridevano …

Anche Tonio, con difficoltà cercò di restare serio, mentre gli spiegava, che non si era accorto del fischio di fine partita dell’arbitro e nemmeno delle grida dei compagni che lo avvisavano. Lui, mentre la partita era terminata, aveva proseguito con foga nella sua azione, senza incontrare ostacoli e calciando a porta vuota. Renato, tristemente si incamminò verso gli spogliatoi dando uno sguardo al cartellone con il risultato della partita, il cartellone confermava che quel giorno non c’erano state delle reti, la partita era finita in pareggio, a porte inviolate. Negli spogliatoi, tutti furono gentili e carini con lui, nessuno fece accenno alla brutta figura che aveva fatto, quello che lo infastidiva era che spesso, quando lo guardavano, poi non riuscivano a trattenersi dal ridere. Una volta che si furono rivestiti si incamminarono per il ritorno in paese, durante il percorso, Toni propose di prendere una scorciatoia fra i boschi per far ritorno più in fretta, raccomandando di muoversi con attenzione sul sentiero, poiché in diversi punti si affacciava su dei dirupi. Il gruppo procedeva in modo ordinato e i ragazzi parlavano fra di loro ma a volte spostavano lo sguardo verso Renato e cercando di non farsi vedere, si mettevano a ridere. Renato, si accorse che i suoi compagni e lo stesso Toni, per quanto gentili con lui come sempre, cercavano di evitarlo, perché non appena lo guardavano in faccia non riuscivano a trattenere il riso. Il sentiero era ripido e stretto e Renato, per evitare di incrociare gli sguardi dei compagni e le inevitabili risa, si lasciò superare da tutti, rimanendo l’ultimo della fila. Erano quasi arrivati al paese quando si accorsero dell’assenza di Renato, a nessuno venne voglia di mettersi a ridere, tutti tornarono sui loro passi, gridando a squarciagola il suo nome. Toni mandò i ragazzi in paese per chiedere aiuti e per tutta la sera e la notte, insieme ai pochi compaesani, perlustrarono con delle torce nel buio del bosco, ripercorsero più volte il sentiero, ma Renato non si trovava. Il mattino dopo il paese era in pieno allarme, arrivarono i vigili del fuoco, arrivarono i carabinieri, e per diversi giorni, perlustrarono tutta la zona, purtroppo senza risultati. Quell’anno la squadra del gruppo sportivo del paese dovette ritirarsi dal campionato locale di calcio, non erano in grado di presentare una formazione con undici calciatori e dovettero ritirarsi. Erano rimasti solo in dieci, dell’undicesimo calciatore nessuno seppe più niente.

Angelo Reccagni, Cornegliano.

Un fascio di luce solare piomba linearmente sul suo viso, sulle sue palpebre appesantite dal calore estivo. Sono le quattro del pomeriggio e se ne sta seduta nel vecchio appartamento di suo padre ascoltando vecchi album degli Afterhours, mangiucchiando una matita nell’atto di concentrarsi per completare l’ennesimo cruciverba pomeridiano. Io la guardo, disteso sul letto, fumando una sigaretta. I piccioni fanno un gran chiasso sui cornicioni della città vecchia e sembrano essere gli unici esseri viventi sopravvissuti alle torride temperature d’agosto. Suo padre è morto un anno fa. Lei non parla con sua madre da qualche mese. Dice di non riuscire più a sentire nulla. Fuma ininterrottamente, quando non mastica la punta di una matita screpolata. Non parliamo adesso, non abbiamo bisogno di parlare, non dobbiamo per forza lasciare sgorgare le parole dalle nostre bocche. Mi guarda: ha occhi neri come petrolio, occhi pesanti, malinconici… occhi ferini, occhi d’animale braccato… occhi pronti a piangere e a divorare ogni cosa nello stesso istante. Ha un sorriso ampio, quasi equino; le gengive rossastre emergono abbondanti e splendenti quando ride. Le cucino un piatto di pasta nella vecchia cucina di suo padre, con una vecchia e consunta padella, la salsa al pomodoro di una vecchia e impolverata bottiglia: sì, ho scritto così tante volte vecchio o vecchia ma davvero, tutto quello che ci circonda è infestato e impregnato di vecchiezza e ci sentiamo improvvisamente stanchi quando – dopo aver bevuto abbastanza vino – ci baciamo seduti sul letto, tra il frastuono di un vecchio ventilatore arrugginito e l’azzurro del cielo che sbirciamo fuori dal rettangolo della finestra spalancata su vecchi balconi spioventi, sulle tegole cosparse di erbacce ed escrementi, sulle persiane chiuse, sulle antenne svettanti verso il cielo come centinaia e centinaia di ossa rotte che squarciano la carne. Dobbiamo lavare i piatti prima che faccia notte perché nell’appartamento non c’è corrente elettrica. Un flebile alito di vento le accarezza i corti capelli che con le mani si sistema noncurante dietro le orecchie; il vento accarezza anche l’impercettibile peluria agli angoli delle sue grandi labbra, quella sulle sue braccia, ondeggiando tra le sue ciglia.

Torna al suo cruciverba. Io torno sul materasso duro come pietra; bevo un goccio di vino e la guardo pensando:

– Possiamo vivere così per sempre, in questo triste appartamento dimenticato… e d’inverno per riscaldarci distruggeremo tutti i mobili, le credenze, le cassepanche, le porte, i tavoli, le scrivanie, le cassettiere, le librerie, gli sgabelli, i divani, le sedie, i comodini e avvolti attorno ad una pruriginosa coperta di lana osserveremo tutto bruciare in un immenso falò, mentre la candida neve fuori scenderà lenta sulle strade gelide della città vecchia e i gatti cercheranno riparo tra i cantucci abbandonati miagolando ad una luna che non sarà più qui.

Mi alzo dal letto, cammino verso di lei e la bacio, lungamente; le sue labbra sanno di nicotina e balsamo labbra.

– Possiamo davvero restare così per sempre – penso, e il cuore sembra cedere nel mio petto come una vecchia baracca scossa dalle furiose raffiche del vento.

Non parliamo, non abbiamo bisogno di dire nulla, non vogliamo che il suono delle nostre voci superi quello dei nostri pazzi, solitari, sofferenti, magnanimi, mesti occhi.

C’è il tramonto con le sue luci infuocate all’orizzonte e poi c’è la notte con il suo spettacolo pirotecnico di stelle baluginanti nel cielo. Lei si alza, sguscia via sinuosa; la stanza è oramai avvolta nell’ombra; poi ritorna, ha tra le mani una candela accesa; la posa sul piccolo tavolo vicino ai suoi cruciverba, al pacchetto di sigarette spiegazzato, alle bottiglie di vino svuotate, alle matite mangiucchiate: la fiamma della candela è blu, blu come quella ballerina che sognai tanto tempo fa. Dal salotto dell’appartamento vicino la voce di Chris Isaak riecheggia morbida verso la nostra stanza:

“The world was on fire and no one could save me but you…”

Si spoglia lasciando cadere i vestiti sul pavimento e s’infila svogliata sotto le fresche lenzuola.

– Possiamo davvero… davvero… vivere così… per sempre…

Fabiano Di Campli, Lanciano

“Siamo Culture – Ponte tra Oriente e Occidente”, progetto dell’assessorato alla Città della Cultura e della Solidarietà di Corigliano-Rossano guidato da Donatella Novellis realizzato in collaborazione con Officine delle Idee, continua a celebrare i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri.

Dopo “Amando Dante” che ha visto la partecipazione dei cittadini nel realizzare un video dedicato a Dante Alighieri (filmato attualmente in fase di montaggio e che verrà proiettato in una serata estiva), venerdì 4 giugno, dalle ore 16.30 nella Sala degli Specchi del Castello Ducale di Corigliano-Rossano, si terrà la lectio magistralis “Dante a Corigliano-Rossano. Testimonianza di un filosofo francese” tenuta dal professor Bruno Pinchard, presidente della Société Dantesque de France.

Prima della lectio magistralis interverranno l’assessore alla Città della Cultura e della Solidarietà Donatella Novellis e il dott. Vincenzo Piro dell’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne

Per partecipare in presenza è obbligatoria la prenotazione al numero 0983 81635 e il rispetto delle normative anti Covid per gli eventi pubblici. Data la limitata disponibilità di posti, l’evento sarà visibile anche online sulle pagine Facebook di Siamo Culture e del Comune di Corigliano-Rossano oltre che sul canale Youtube di Siamo Culture.

«Sono molto orgogliosa che il progetto “Siamo Culture” possa ospitare il professor Pinchard – dice l’assessore Novellis – con lui racconteremo come il pensiero dantesco ha toccato le nostre latitudini. Abbiamo la possibilità di ascoltare le lectio magistralis di un raffinato studioso del pensiero e delle opere di Dante Alighieri che continuiamo a celebrare in questo anno che il mondo ha deciso di dedicargli».

“E se c’è amore in questa vita, non c’è ostacolo che non può essere abbattuto”

4 maggio 2021

1 anno di noi

A te che hai sempre creduto in me dal primo giorno che mi hai incontrata…
A te che ogni giorno riesci a rendermi la ragazza più felice del mondo…
A te che amo da un anno e lo farò per il resto della mia vita…

Una volta una persona mi ha detto di lottare per raggiungere i miei sogni e io ho sempre detto che non potevo farcela, non ero in grado, come non sono stata in grado in 18 anni di affrontare realmente le mie paure; la stessa persona mi ha detto che le paure sono per i forti e che se non si ha paura non si va da nessuna parte. Dopo tante riflessioni un giorno mi sono chiesta che cosa bisogna fare in questo mondo per essere veramente felici, poi mi sono guardata intorno e ho capito che la felicità non esiste o se esiste, quanto dura? O meglio quanto la facciamo durare noi?

Qualcuno dice che la felicità non esiste, che la felicità sono i soldi, che la felicità è solo dei bambini, ma nessuno si è mai realmente chiesto perché; forse perché siamo noi stessi a negarcela, siamo noi stessi  a mandarla via. Io credo che la mia felicità è in tutte quelle cose che non noto: la mia felicità è mia madre che nonostante tutto è riuscita ad andare avanti; la mia felicità è mio padre che nonostante non sia presente ha sempre un pensiero per me; la mia felicità è mia sorella con i miei nipoti che amano tanto zia Anna e la cercano sempre; la mia felicità sei tu che mi hai accettata per quella che sono.

Un giorno ti ho detto che volevo scrivere un libro e tu hai creduto in me; un giorno ho aperto una pagina instagram di poesie e tu non hai riso per le sciocchezze che ho scritto; un giorno ti ho scritto una lettera su come avrei raccontato ai nostri figli come ci eravamo conosciuti. Un giorno ho preso il computer è mettendo tutte queste idee assieme ho capito cosa dovevo fare, ho capito che era arrivato il momento di posare i libri sulle mensole e scriverne uno mio. Un giorno voglio solo che i miei figli o addirittura i miei nipoti aprano questo libro  è leggeranno la storia d’amore più bella degli ultimi 50 anni, almeno per me.

Aprile 2020

Mentre la vita passava lenta e il mondo si era fermato a causa del Covid-19, stavo per cambiare la mia vita in meglio senza saperlo. Avevo 17 anni e mi sembrava di avere il mondo contro, mi sembrava che tutto succedesse a me senza un motivo e  in più ci fu la pandemia a bloccarmi. Il mio sogno più grande era quello di scrivere un libro anche se non ero molto convinta di farcela, non credevo in me. Era all’inizio di aprile quando mentre ero su instagram mi salta all’occhio un ragazzo, si chiamava Livio e mi sembrava affascinante quindi decisi di contattarlo senza pensarci due volte.

Non so se avete mai sentito la frase “quando stai bene con una persona il tempo vola”, era la cosa che ripetevo ogni volta che finivamo di parlare al telefono, ed è proprio vero che quando stai bene con una persona il tempo vola, forse te ne innamori anche di questa persona, ti innamori di tutti i piccoli particolari, così piccoli che neanche te ne rendi conto o fai finta che sia solo un illusioni della tua mente. Ma poi un giorno ti accorgi che queste illusioni sono reali e che non riesci a vivere senza la presenza di lui nella tua vita, e te ne accorgi di notte quando decidi di rivelare i tuoi sentimenti, perché è vero, dopo la mezzanotte tutti diventano più confidenziali.

30 Aprile 2020

“Sai a volte mi sembra di vivere in una favola, la favola che stai costruendo appositamente per me, solo per me. Sto capendo tante cose nell’ultimo periodo. Ora so che se mi sveglio la mattina c’è qualcuno che davvero è interessato a sapere come sto e non me lo chiede solo per gentilezza , qualcuno che mi fa sorridere sempre anche quando di sorridere non è ho voglia. Come già detto in passato io quando devo dire una cosa non aspetto ricorrenze, perché la devo dire e basta. Come le tante frasi già fatte da internet ti dico che sei stato un arcobaleno dopo la pioggia, si banalissima come frase ma a volte è veramente significativa perché per tanto ha piovuto nella mia vita è nessuno di passaggio che mi prestasse un ombrello e oggi ci sei tu, che oltre a porgermi l’ombrello ci rimani anche con me. Sono un sacco di esempi lo so, probabilmente domani rileggendo ciò mi sento stupida per quel che sto scrivendo ma l’importante che in un modo te lo dimostro. Non riesco a togliermi quel maledetto sorriso dalla faccia quando sto con te, e anche sta sera che ero molto pensierosa sei riuscito a farmi dimenticare tutto, amo quel momento che si crea tra di noi, ma odio tutti gli abbracci che non ti posso dare. Ogni tanto ho paura che questa favola abbia una svolta, qualcosa di cattivo, come Gaston che vuole uccidere la bestia o l’uomo nero che impedisce l’amore tra il principe e Tiana, ma come in quelle favole, che tu gentilmente ti vedi tutte le sere con me, so che al tuo fianco si può sconfiggere tutto il male che ci può distruggere. Non desideravo altro dalla vita, qualcuno che ha dato una svolta e spero per sempre. Scusa per tutti i complimenti che non accetto ma delle volte non mi sento neanche abbastanza per te, e so, almeno spero, che non è così. Grazie per avermi reso la ragazza più felice del mondo.
Buonanotte”

4 maggio 2020

Quello che doveva essere un semplice lunedì, in una settimana si trasformò nel giorno più bello degli ultimi due mesi. Finalmente potevamo uscire e finalmente potevo rivedere le mie amiche e i miei nipoti, ed anche se era maggio e la fine della scuola era vicina insieme alle 1000 verifiche da fare, quel giorno la scuola era uno dei miei ultimi pensieri, mi dovevo solo preparare per bene e uscire di casa come se fosse la prima volta nella mia vita. Proprio mente mi stavo preparando arriva quella telefonata inaspettata, quella telefonata che probabilmente è durata due secondi, il tempo di realizzare se ero sveglia. Di fretta e furia misi le scarpe e la mascherina, ero così tremendamente felice che non aspettai neanche l’ascensore e feci le scale di corsa e solo quando arrivai giù capii che non stavo sognando. Lo vidi fermo lì, con gli occhi lucidi e pieni di speranza, come se in quel momento fossi la cosa più importante della sua vita così corsi verso di lui e lo abbracciai come non ho mai fatto con nessuno in vita mia, e non mi interessava se c’era il covid o se mia mamma mi avrebbe sgridata perché non dovevo abbracciarlo, lui era lì e dopo un mese di videochiamate l’unica cosa che desideravo era perdermi in un suo abbraccio. Inutile negarlo da un abbraccio poi c’è stato un bacio, forse anche due, ma forse ne erano molti di più. Ed è così che il 4 maggio del 2020, in quei 5 secondi di abbraccio, ho conosciuto la mia felicità.

“C’è il momento in cui guardi una persona e capisci di aver trovato il tuo posto. Non è questione di chimica, non è istinto: è amore, è guardarsi e capire di essersi sempre cercati.”

I giorni passavano velocemente e io mi contavo ogni singolo minuto ogni volta che lui mi diceva che stava venendo da me. Iniziavo alle 15.00, “A che  ora hai il treno? Sei arrivato alla stazione?” nonostante sapessi che il treno passava alle 15.30, ma l’ansia predominava i miei pensieri, e se da un lato ero impegnata a fargli domande continue, dall’altro lato mi chiedevo se ancora gli piacevo, se quei 20 minuti di treno gli avessero fatto cambiare idea su di me. Mi ricordo che la prima volta che ci siamo visti, avevo un’ansia assurda, avevo quasi vergogna e avevo paura che mi diceva che in realtà mi riteneva solo un’amica, poi mi ha baciato prima con la mente poi con gli occhi ed in fine con la bocca ed è stata la sensazione più bella della mia vita, credo una sensazione nuova, mai provata prima o se mai l’ho provata, l’ho dimenticata del tutto.

Era il 15 maggio del 2020 quando la prima volta è venuto a casa mia, mi portò una rosa e aiuto me e la mia amica in una sorpresa per un compleanno. Conobbe mia mamma, mia sorella e mia nonna e in più ci rimise anche con una bella figuraccia con mia mamma, che in realtà si rivelò una svolta: in solo 1 ora era entrato nelle grazie della mia famiglia. Rendeva felice me ed automaticamente rendeva felice la mia famiglia. Ricordo che quel mese di maggio, nonostante avesse la maturità veniva un giorno si e uno no, ansi a volte veniva anche due giorni consecutivi solo per vedermi, solo perché stare con me era una delle sue priorità maggiori, solo perché quando stavamo insieme tutto il mondo che era intorno a noi scompariva e restavamo soli anche quando eravamo in mezzo alla gente. Le favole non esistono ma con lui ogni giorno per me era una favola nonostante le complicazioni e come in ogni favola c’è quell’avvenimento che sconvolge tutta la storia e noi proprio alla fine di quel lungo maggio abbiamo stravolto questa storia rendendola ancora più passionale.

“Forse un giorno saremo due persone che s’incontrano di nuovo per la prima volta”

Certe cose non vanno dimenticate, non vi scandalizzate se mi ricordo la data, mi ricordo sempre tutto.

L’estate è alle porte, la scuola è finita e anche la sua maturità ormai era andata, avevamo festeggiato 1 mese e lui mi portò un dolcino,per festeggiare, mentre io gli diedi la prima di una lunga serie di lettere. Sono sempre stata un inguaribile romantica, mi piaceva scrivergli le lettere cartacee e dargliele di persona, forse un po’ all’antica ma sicuramente la cosa più romantica che esista.

4 Giugno 2020

“Amore mio,
già siamo arrivati ad un mese di noi. Sembra ieri che ti ho conosciuto ed ora guarda un po’. Ti sto scrivendo questa lettera per vari motivi: Il primo è che Ti Amo, il secondo è per ringraziarti, il terzo (banale), è che preferisco scrivere le cose a mano rispetto un semplice messaggio . Se un mese fa non facevi questo grande passo di venire da me sconfiggendo un nemico che è più forte di noi, ora probabilmente ancora dovevamo vederci. L’altro giorno me l’hai detto stesso tu che tutto ciò è destino, il nostro destino, e anche se mi chiedo spesso se stiamo correndo troppo poi cambio idea perché con te vale la pena tutto. Hai accettato il mio passato come se fosse il tuo. Ricordati che io mollo facilmente ma stanne sicuro che se in questo periodo se non c’eri tu sarei crollata da un bel po’ di tempo. Abbiamo discusso molto del nostro passato con la paura di non accettarsi a vicenda, ma io ‘ci sbatto la testa al muro pur di migliorarti la vita’, come tu fai con me tutti i giorni e spero per il resto della mia vita. Come cerchi sempre di farmi stare bene, io cerco di evitare le cose negative, perché quando sto con te nulla mi può sembrare negativo. Chissà se ci siamo incontrati proprio per salvarci la vita a vicenda, perché tutte le volte che potevamo mollare non l’abbiamo fatto  e siamo arrivati a noi. Come è volato questo mese eh? Ma soprattutto quante ne abbiamo già passate, e questo è solo l’inizio vero? Perché io già ti immagino per il resto della mia vita, accanto a me. Tu per me già sei l’uomo della mia vita, quello che un giorno sarà il padre dei miei figli. Si ti devo ringraziare per molte cose che hai fatto, ma la più importante è stata rendermi la ragazza più felice del mondo. Grazie perché mi stai insegnando a lottare anche quando si perde. Grazie perché hai riempito quei vuoti incolmabili lasciati da chi nella mia vita era stato solo di passaggio. Ora che mi ritrovo a piangere qui , non so se la mia vita vuole il mio male come pensavo prima, ansi ora credo che la vita mi stia sorridendo dicendomi che c’è l’ho fatta, ma tutto questo solo grazie a te . Sarò al tuo fianco, oggi, domani e per il resto della mia vita. Lo so che non è un periodo facile ma ricordati che io “ero un tuo volere non un tuo scopo”.
La tua piccola”

I mesi passavano e noi eravamo diventati una cosa sola. A due mesi mi ha regalato il carillon della Bella e la bestia ed io gli ho dato un piccolo bracciale rosso che simboleggiava “il filo rosso del destino”, quella leggenda che narra che nel mondo noi siamo legati alla nostra anima gemella tramite un filo rosso. Credo che lui sia proprio il mio filo rosso, la mia anima gemella, colui che mi ha salvato da un mondo crudele che mi aveva fatto perdere tutte le speranze. Immaginavo il futuro con lui tutti i giorni e non vedevo l’ora che arrivasse il momento giusto per avverare questo mio grande sogno. Lui iniziò a lavorare e si prese la patente; iniziammo a vederci sempre di più e finalmente io stavo realizzando il sogno di avere una relazione perfetta, ma non vi credete che sempre tutto va per il verso giusto, ansi delle volte va tutto male ma credetemi che insieme abbiamo superato tanto. La relazione perfetta non esiste per nessuno, tantomeno per noi, siamo noi a volerla rendere speciale, perfetta a modo nostro. Mi diceva sempre che non dovevo progettare il futuro perché portava male e io invece ogni giorno facevo delle ipotesi assurde sul nostro futuro: dove abiteremo, quanti figli faremo e come li chiameremo, avevamo deciso per Marco ed Emanuela, chissà se ora è stata realmente presa questa decisione. Ero così decisa a passare il mio futuro con lui che un giorno gli ho anche scritto una lettera particolare. Era inizio luglio e ero rimasta senza telefono per una giornata, mi mancava tremendamente e non sapevo come contattarlo, ci sentimmo solo per il buongiorno e per la buonanotte e quella notte la sua mancanza si faceva sentire tremendamente, così presi foglio e penna e …

9 Luglio 2020

“Caro amore mio,
questa giornata lontano dai social e sfortunatamente anche lontano da te mi ha fatto riflettere un po’. Tante volte ci ritroviamo a parlare del nostro futuro, di come chiamare i nostri figli, del lavoro dei nostri sogni, dei viaggi che faremmo insieme e di tante altre cose. Ogni tanto ti chiedo come racconterai la nostra storia ai nostri figli, ma io non ti ho mai detto come gliela racconterei io:

Era il 3 aprile 2020, nel bel mezzo di una pandemia “Covid-19”, erano le 3.00 di notte e non mi ricordo bene se faceva freddo, anzi credo si respirasse un aria quasi estiva, ma nonostante ciò io ero infilata sotto le coperte. La quarantena portava molta noia tanto che ogni settimana provavo a fare qualcosa: una volta un puzzle, una volta volevo suonare la pianola, una volta ho letto un libro ecc … ma proprio quella notte decisi di aprire quest’app e di scrivere ad una persona totalmente casuale. Il mio sguardo cadde su un ragazzo che come informazioni aveva solo la località ‘Napoli’, ma oltre alle foto dove non sembrava il mio tipo, aveva una foto in divisa di non so bene cosa ma ciò mi incuriosiva molto. Lo contatto e dopo un po’ di conoscenza mi sembrava antipatico, quasi quasi non volevo neanche più parlarci, ma con il passare del tempo notavo che i suoi messaggi di buongiorno mi facevano stare bene. Ricordo una data particolare, 11 aprile 2020, dove per la prima volta mi aprii mostrando le mie debolezze e mi congratulai con lui per ciò che faceva, ‘ Protezione Civile’, e si, in quel periodo papà è stato un grande eroe nonostante la sua giovane età ed il rischio che correva tutti i giorni . Il 12 aprile, nonché il giorno di pasqua tra una cosa e l’altra ci siamo dedicati la nostra prima canzone “Viceversa”e subito il giorno dopo ci siamo scambiati i numeri e parlato fino a notte fonda di cose assurde e dei problemi che ci hanno colpito durante la nostra vita, abbiamo riso e pianto insieme e nonostante la quarantena ci sentivamo vicini. Abbiamo visto film e programmato progetti scolastici , tutto tramite uno schermo. Un giorno mi ha giurato che alla fine della quarantena la prima persona che avrebbe incontrato sarei stata io, e alla domanda ‘ è un tuo scopo?’ lui mi rispose ‘è un mio volere’. Inutile girarci intorno, il 4 maggio 2020, Conte aveva annunciato l’avvio della fase due, dove potevi incontrare parenti e fidanzati. Il 4 maggio 2020 alle ore 17.27 ci siamo abbracciati come se ci conoscessimo da sempre, e questa volta non tramite uno schermo. Il 30 aprile gli avevo confessato il mio amore e il 3 maggio, all’insaputa di ciò che sarebbe successo il giorno dopo, gli ho detto per la prima volta ‘Ti amo’. Ora è tutta storia, siamo fidanzati da due mesi ma io ho già visto come sta diventando maturo, con il diploma, la patente e un lavoro, lui vedrà maturare me pian piano ma state certi che all’altare ci siamo arrivati. Non c’è distanza, ne difficoltà, ne quarantena a fermare due persone, perché ricordate sempre che se c’è amore in questa vita, non c’è ostacolo che non possa essere superato. Ecco cosa racconterò o cosa leggeranno i miei figli, quanto ti ho amato e i amerò per il resto della mia vita.

Ti amo, la tua piccola.”

E anche se mi ha sempre ripetuto che il futuro non si progetta, io non riesco ad immaginarmi un futuro senza di lui. Ormai l’estate era terminata ed era stata la più bella della mia vita, ogni attimo che ho passato con lui era un ricordo speciale e indelebile; mi ha fatto conoscere nuovi posti e nuovi amici; ha deciso anche di presentarmi sua sorella che sin da subito mi ha fatto sentire a mio agio; mi ha aperto gli occhi su tante cose e mi ha fatto capire che d’avanti ai problemi non ci si deve buttare giù. Il 4 settembre facevamo 4 mesi e io ricordo particolarmente quel giorno: eravamo in macchina quando per la prima volta scoppiai a piangere nelle sue braccia dimostrando più del solito le mie debolezze e le mie paure e lui mi disse che dovevo trovare la forza perché ne avevo tanta solo che non volevo dimostrarla. Da quel giorno ci ho pensato tanto a quelle parole ed ho capito che potevo essere forte anche da sola ma tutto ciò l’ho capito solo grazie a lui e io non so come ringraziarlo per ciò.

Fidanzarsi in piena pandemia non porta molti benefici e spesso porta a delle limitazioni. Ad ottobre del 2020 abbiamo fatto i conti con tutti i decreti e l’Italia a colori, e mentre ci godevamo gli ultimi attimi di libertà, tutto stava cambiando. Misero il coprifuoco alle undici, quindi ogni volta che uscivamo il tempo diminuiva e ogni volta che ci vedevamo avevamo paura di vederci per l’ultima volta chissà per quanto tempo; ogni viaggio di ritorno a casa mi facevo un pianto che puntualmente diventava sprecato perché la settimana dopo ci rivedevamo. Ricordo che addirittura gli ho portato il regalo di compleanno prima perché avevo paura di non vederlo il giorno esatto del suo compleanno, che poi per fortuna riuscimmo a vederci ed io ero felicissima perché in quel giorno riuscivo a stare con lui nonostante tutto. Il coprifuoco diminuì dalle 11 alle 10 e il tempo diminuiva ancora di più, così iniziammo ad uscire alle sei del pomeriggio quasi sempre senza una meta, l’importante era uscire e vederci. Poi arriva novembre, precisamente era il 14 novembre, e lì il pianto non fu così sprecato. Dal 16 novembre la Campania sarebbe passata in zona rossa e ciò significava che non potevano esserci spostamenti tra i comuni quindi noi non potevamo vederci chissà per quanto. Iniziammo a fare videochiamate un giorno si e uno no e ogni giorno controllavo i nuovi decreti ma di vederci se ne parlava a dicembre direttamente, che poi in realtà non potevamo vederci neanche in zona arancione ma l’amore ti porta a tutto. Fu un mese veramente difficile sia per me che per lui. Io piangevo un giorno si e quello dopo pure per colpa della scuola, lui era molto indaffarato con il lavoro e ci trovavamo in situazioni dove non riuscivamo neanche a chiamarci la sera. Era inizio dicembre e non se ne parlava proprio di passare in zona arancione e per la prima volta festeggiavamo il mesiversario lontano e lì iniziai a crollare ma come ho detto prima per amore si fa tutto ed è per questo che si presentò sotto casa mia nonostante la zona rossa. Fu un pomeriggio magnifico, passò velocemente ma non potevo crederci che ero di nuovo tra le sue braccia. Tornò la zona arancione e lui venne a pranzo da me per la prima volta e anche lì fu un pomeriggio indimenticabile, lo passammo sotto le coperte a guardare dumbo e lì , dopo sette mesi, mi resi conto che lo amavo ogni giorno sempre di più e che non potevo stare lontana da lui.

14 dicembre 2020

“Quando sei entrato nella mia vita non avrei neanche immaginato a quest’ora dove sarei stata. Era l’inizio della primavera, una primavera un po’ strana e se ti chiedi il perché basta dirti che era il 2020. Avevo perso tutti i miei sogni, tutto il mio romanticismo, tutte le mie speranze, mi ero rassegnata ad una vita che non mi rendeva felice. Odiavo me stessa per quello che ero diventata e non avevo più fiducia in nessuno. Sei arrivato tu, con la tua sfacciataggine sei riuscito ad entrarmi nella mente e in seguito nel cuore; mi ricordo tutto e solo a rileggere certi messaggi mi si ferma il pianto in gola, solo al pensiero che è arrivato qualcuno a stravolgermi così tanto la vita. Esprimo  troppo amore e lo so ma a volte non riesco neanche ad esprimere tutto il mio amore, tutte le emozioni che provo solo quando mi sfiori, quando mi prendi per mano, quando mi guardi negli occhi, quando ci perdiamo in quei baci appassionati e ogni volta che ci fermiamo ci scappa quella risatina come a dire “baciami ancora”, quando litighiamo, quando mi accarezzi i capelli, quando siamo in macchina e mi tiri a te per abbracciarmi, quando oggi a tavola mi hai messo il braccio sulla spalla e mi hai tirato per darmi un bacio sulla guancia, potrei fare ancora tanti altri riferimenti, ma mi fermo a questi per farti capire che solo con questi piccoli gesti tu riesci ad esprimere più amore di quanto io riesco a fare normalmente. Ti ho amato dal primo istante e lo farò per il resto della mia vita, come sarà sarà, tu resterai per sempre una parte di me, la più bella, la parte di me che dopo anni è tornata a sorridere ed essere forte. Se il destino ci ha fatti incontrare e perché noi ci completiamo perfettamente, in verità non so io come ti completo ma tu mi completi perché sei forte, quella parte forte che mi manca ma solo grazie a te sta tornando. Sono rimasta senza nessuno ma finche ho te al mio fianco ho tutto. Cosa mi porto da 7 mesi è un amore infinito per te, oggi sicuramente l’unica cosa che mi porto è la felicità di questo pomeriggio passato insieme e il tuo profumo sul cuscino che mi ha dato ispirazione per questa lettera è mi ha fatto scendere anche una lacrimuccia di malinconia. Ti amo così tanto che non riesci neanche ad immaginarlo.

Per sempre la tua bimba.
Buonanotte”

Purtroppo la zona arancione durò molto poco a causa delle vacanze natalizie, dovevamo passare il primo natale insieme ed invece no, ci trovammo addirittura a passare un altro mesiversario lontani. L’unica gioia che ci portava quella zona rossa era quella che probabilmente al mio compleanno eravamo zona gialla e quindi potevamo vederci.

Gennaio 2021

Era passato il 2020, tutti festeggiavano perché sembrava la fine di un incubo, quando in realtà era solo un altro inizio, io festeggiavo perché quello era il mio anno, sarei diventata maggiorenne e neanche ci credevo e stentavo a crederci anche che io e Livio avremmo fatto già un anno, mi sembrava che il tempo fosse passato troppo veloce, ansi era passato troppo veloce. Quel mese di gennaio che sembrava una boccata d’aria a tutti, nei mesi successivi sarebbe poi diventato un inferno ma per mia fortuna il 6 febbraio tutto andò liscio. Mi svegliai alle 7, era il giorno del mio 18esimo compleanno e io ero così emozionata ma allo stesso tempo non era il compleanno che desideravo anche se mi è andata meglio delle mie amiche che non hanno potuto festeggiare neanche un minimo. Quel giorno l’attenzione era tutta concentrata su di me: mamma mi aveva regalato delle rose le mie amiche mi avevano fatto una sorpresa trasportandomi nel mio cartone animato preferito, ma l’unica persona che aspettavo era lui, non vedevo l’ora di vederlo e di abbracciarlo per scappare da tutte le emozioni di quel giorno, non vedevo l’ora che veniva perché lui era l’unico capace di riempire quel vuoto che avevo, quello che purtroppo mio padre quella sera non era a festeggiare lì con me. Pur di non farmi sentire la sua mancanza mi ha regalato un orso gigante che nei giorni seguenti mi ha causato il problema di dove metterlo ma che poi ho incastrato con molta delicatezza sul letto; la cosa che più mi stupì e che la sua famiglia, nonostante non mi conoscesse bene, ha avuto un pensiero per me nel mandarmi dei regali, mentre lui mi conosceva così bene che mi ha regalato l’anello della bella e la bestia, la mia favola preferita, quella dove ci rivedo molto la mia vita. Ricordo che ci furono così tante emozioni che on riuscii a dirgli nulla, l’unica cosa che facevo era perdermi nei suoi baci.

6 febbraio 2021

“Amore mio,
Eccomi qui a fine serata a dirti innanzi tutto scusa, scusa se non ho avuto la reazione che ti immaginavi e se non ti ho considerato molto ma sono qui per dirti soprattutto Grazie.

Grazie perché questo giorno non era lo stesso senza di te, accanto ad una principessa ci deve essere sempre un principe e tu sei il principe perfetto. Mi ritrovo a guardare l’anello e penso a quanto sono fortunata e quanto mi ami, mi ami veramente tanto eh?

Da quando ti ho incontrato il mio sogno era solo venire a ballare un lento con te,  come una principessa che va incontro il suo principe. Oggi non è stato così ma succederà e non solo una volta ma due. La prima vestita di rosso, la seconda di bianco.
Ti amo alla follia.

Grazie amore mio senza di te questo giorno non sarebbe stato lo stesso”

Fu un compleanno indimenticabile nonostante tutto, grazie a lui ma in realtà grazie a tutti quelli che lo resero speciale a modo loro.

Passato il mio compleanno ci fu il nostro primo san Valentino e il modo migliore per passarlo era quello di conoscere finalmente i miei suoceri, che sin da subito mi hanno fatto sentire speciale e soprattutto mi hanno fatto sentire in famiglia. Erano passati già 9 mesi che stavamo insieme e io ricordo che all’inizio che ci fidanzammo gli ripetevo sempre che quando avrei fatto 18 anni, noi avremmo fatto 9 mesi e quando ormai ci eravamo arrivati mi sembrava surreale. Febbraio passò molto velocemente ma gli ultimi due giorni mi regalarono emozioni uniche. Il 27 febbraio andai a pranzo per la prima volta da Livio e io e la mamma facemmo un dolce, mentre la sera restammo da me e fu una sera piena di emozioni e piena di confessioni, lì mi sono aperta ancora una volta, gli ho detto ciò che provavo nonostante fosse passato del tempo e che anche se il futuro non si progetta, gli dissi che non vedevo l’ora di costruirmi una vita con lui e vederlo in lacrime mi sciolse il cuore, mi tolse tutti quei dubbi che ogni tanto mi tornavano in mente: “gli piaccio ancora?” “sono troppo pesante’”, e gli mostrai anche che nonostante il tempo io avevo ancora vergogna di mostrarmi a lui per quello che ero. Il 28 febbraio invece dopo molto tempo uscimmo con i miei migliori amici e non credo che ci sia cosa più bella di trovarsi del tempo da passare con la persona che ami e le persone che ti sono state vicino nei momenti difficili nonostante gli alti e i bassi che ci sono stati. Ma quell’uscita si rivelò fatale poiché una delle mie amiche uscì positiva al Covid-19 e quindi in  quella prima settimana di marzo mi toccò fare il tampone che per fortuna era negativo. Era il 6 marzo quando feci il tampone e anche se uscii negativa , quella giornata sarebbe stata tragica, l’ 8 marzo la Campania tornava zona rossa per chissà quanto tempo. Quella sera fu veramente tragica e le prime settimane sembravano interminabili e in più un altro mesiversario lontano, l’ultimo per giunta, 11 mesi. Quando abbiamo fatto 11 mesi ho iniziato a fantasticare su che regalo potevo fargli ad un anno, e ho deciso di fargli un bracciale collegato al mio, ma ho scoperto che a Livio non garbano tanto i bracciali e allora avevo bisogno di stupirlo e così ho pensato a come combattere questa mancanza che mi sta uccidendo e il modo migliore per farlo era quello di rivivere la nostra storia.

Un giorno una persona mi ha detto di lottare per raggiungere i miei sogni, ed eccomi qui, quella persona eri tu e io ho cercato di dimostrarti che in piccoli passi cererò di realizzare i miei sogni. Questo è solo l’inizio, ansi è quasi nulla, ma io ci ho provato e continuerò a provarci. Questa è solo la nostra storia, che non potrà mai superare i romanzi più famosi del mondo ma sicuramente resterà uno dei “libri” più belli che io abbia mai letto. Spero che ciò ti avrà stupito un minimo, anche se te lo aspettavi lo so, non so mantenere i segreti.

A proposito, quanto dura la felicità?  La mia dura da quando sei entrato a far parte della mia vita esattamente il 4 maggio del 2020. Buon Anniversario amore mio.

Ti amo da morire

Con amore la tua piccola

To be continued…

 

Anna Romito, Torre del Greco

Osvaldo Barone, di Torino. Null’altro.

D’altronde come si può, mi chiedo, aggiungere qualcosa per descrivere un ragazzo di appena sedici anni.

Era uno dei tanti. Non ancora uomo, non più bambino, impaziente anche lui come tutti i suoi coetanei di superare di slancio quegli anni difficili, di attraversare correndo, il più in fretta possibile, il ponte di assi sconnesse, malsicuro e scricchiolante che è l’adolescenza per mettere piede sull’altra sponda, quella della maggiore età, quella degli uomini, immaginario e illusorio paradiso di delizie da scoprire.

Chi procede su questo ponte è come un plotone compatto di piccoli soldati uguali tra loro, perfettamente intercambiabili.

Stessi tatuaggi, a volte un piercing, le scarpe da tennis rigorosamente Nike, jeans a vita bassa e dopo un po’ a vita alta secondo le cicliche maree imposte dagli stilisti nostrani. I polsi zeppi di braccialetti, l’ultimo modello di cellulare in tasca e gli auricolari incollati alle orecchie. Poi lo slang da branco e le pose da vissuti, lupi di mare che fingono di aver solcato tutti gli oceani.

Vorrebbero in questo modo ingannare i guardiani del ponte e passare di soppiatto dall’altra parte.

Ma loro, inflessibili, incorruttibili, inevitabili sorridono beffardi a questi espedienti.

Hanno stabilito un prezzo per chi ha goduto della gioiosa riva dell’infanzia ed è un prezzo molto alto che solo il  cuore di questi piccoli soldati  dovrà pagare un giorno. Sono lì, alla fine del ponte e aspettano, aspettano  senza fretta per cancellare i loro sogni.

Perché è questo e non altro ciò che vogliono: i sogni.

Ma per Osvaldo non era ancora arrivato il tempo delle riflessioni amare.

Andava a letto presto, presto si svegliava la mattina per ripassare la lezione. Poi svogliatamente andava a scuola, terzo anno di perito elettronico, e tra un canto dell’Inferno ed un’equazione la sua mente correva già alla felicità che gli avrebbe riservato il pomeriggio, pieno di un rettangolo verde e di un pallone.

Perché anche lui come quasi tutti i soldati di quel ponte era appassionato di calcio , anzi di più ; Osvaldo il calcio lo amava. Un amore certamente esigente, che tanto pretendeva, ma per lui nessun sacrificio era troppo gravoso.

E così alla fine delle lezioni mangiava un panino di corsa ed era già in strada,  per arrivare in tempo all’inizio degli allenamenti.

A proposito dei quali mister Giordano aveva idee molto chiare. Se si voleva giocare a pallone, ebbene doveva essere il pallone il centro di ogni pensiero. Non ammetteva deroghe a questa regola. Bisognava conoscere l’attrezzo.

Non si era lasciato sedurre dalle nuove teorie di Coverciano sostenute da rampanti ex professori di ginnastica assurti al fasto nominalistico di preparatori atletici. Secondo loro un calciatore prima di tutto deve essere un atleta e pertanto andava privilegiata la preparazione fisica.

Così quando hai smesso di correre e ti capita la palla tra i piedi ti prende il panico, chiosava Giordano. Ragazzi, non facciamo che quella cosa rotonda che vi rotola davanti diventi un ufo – oggetto non identificato.

E allora non c’era che il muro per ricoprire i piedi di velluto. Due, tre metri di distanza e poi piatto destro, uno due tre, piatto sinistro, uno due tre, destro  sinistro, destro sinistro, e avanti così per  ore, mesi, anni.

Giordano  pretendeva  che tra un colpo e l’altro si contasse mentalmente, uno due tre destro, uno due tre sinistro. Solo così si prendeva il ritmo, diceva, si raggiungeva la giusta concentrazione e le gambe, il pallone, i movimenti diventavano parte di un’unica danza.

Poi si passava alla conduzione della palla, da porta a porta; interno ed esterno, interno ed esterno. Per ore, mesi, anni.

Poi si imparavano i primi movimenti per superare l’avversario. Dieci paletti conficcati in fila indiana a distanza di un metro l’uno dall’altro; si portava il pallone lì dentro, zigzagando, prima con l’interno, destro e sinistro, poi con l’esterno, destro e sinistro. Per ore, mesi, anni.

Poi arrivavano gli scambi con i compagni, l’uno-due, vale a dire l’abc del calcio, il mattone sul quale si costruisce l’intero edificio del gioco collettivo. Si passa la palla ad un compagno che di prima te la rimette davanti con l’avversario che rimane alle spalle.

Giordano aveva escogitato per l’uno-due un marchingegno semplice ma geniale,  chissà se l’aveva costruito lui stesso o l’aveva commissionato ad un falegname. Un triangolo di legno, tre lati inchiodati assieme. I calciatori in fila, uno dietro l’altro, in velocità per un tratto, poi tum, pallone contro la sponda di legno e avanti a riprenderlo per chiudere l’uno-due. Per ore, mesi, anni.

Poi si continuava con gli stop; di petto, di coscia, di piede, e con il piede, di destro, di sinistro, di interno, di esterno, con la suola. E poi i tiri in porta; destro, sinistro, al volo, da fermo, in corsa, rasoterra, di controbalzo, in acrobazia, di interno, d’esterno, di collo. Poi i  colpi di testa; saltando da soli o dietro l’avversario, da fermi o in corsa. Ed infine i cross e i lanci. Per ore, mesi, anni.

Alla fine di tutto questo sarà venuto fuori un calciatore? Quasi mai.

Non esistono leggi sicure nel calcio. Due più due  quasi mai fa quattro. La cultura positivista ed il metodo scientifico non troveranno mai asilo in uno spogliatoio. Per dire, a Galilei il calcio non sarebbe piaciuto. E se sarete un giorno il presidente di una squadra di calcio e dovrete scegliere il vostro allenatore tra il nuovo scienziato e l’altro, quello notoriamente  baciato dalla buona sorte, non abbiate dubbi: scegliete il culoso. Nel calcio regna sovrana l’eterna magia dell’imponderabile. In una partita tutto può cambiare in un attimo :bastano un paio di centimetri e la palla destinata in fondo alla rete si stampa sul palo. Così accade per i destini umani

L’impegno naturalmente è importante ma più di ogni cosa contano nascita e sorte.

Giordano lo sapeva bene, per questo non rispondeva mai quando gli chiedevano una previsione su uno dei suoi allievi. Aveva visto ragazzi con il magnete tra i piedi fare mirabilie nei tornei giovanili e poi perdersi perché incapaci di reagire alle prime difficoltà. Aveva visto ragazzi prodigiosi in allenamento, sicuri e pieni di personalità, trasformarsi in anonimi comprimari durante la partita  perché spaventati dal pubblico.

Sapeva bene che in fondo calciatori si nasce , e non si diventa.

Ci vuole carattere e talento, qualità che non si possono apprendere.  Quando arriva la palla sapere già cosa  fare, pensare un attimo prima degli altri, avere sveltezza e coordinazione per trasformare in azione quel pensiero,inventare , sorprendere ogni volta gli avversari, non aver paura di rischiare un tiro al volo anche se la palla finirà in curva.

Rendere semplice ciò che è difficile, tra le diverse soluzioni scegliere la più efficace, dribblare solo se è necessario, mai fare una giocata per compiacere se stessi ma pensare sempre e solo all’utilità della squadra.

E se all’ultimo minuto ti fischiano un rigore a favore e stai perdendo uno a zero, prendere la palla, appoggiarla sul dischetto e spararla nel sette, così, senza un brivido.

La natura, si diceva. Dipende da ciò che alla nascita ti ha messo dentro il Padreterno, che è sempre molto parsimonioso in questo senso. Per questo di calciatori ne nascono pochi. Ma Osvaldo Barone era un calciatore. Lui era nato calciatore.

Giocava nel Beinasco ma Giordano sapeva che quello sarebbe stato l’ultimo anno. Troppe squadre importanti avevano già telefonato in sede per avere informazioni, troppi osservatori si erano avvicendati negli ultimi  mesi in tribuna .

Sarebbe volato via dal nido, era inevitabile. Giordano sperava solo che gli lasciassero il tempo di aiutare la squadra a vincere il titolo piemontese.

Anche la direzione del cielo era segnata. Giordano sapeva anche questo. Osvaldo non avrebbe mai accettato un trasferimento che non fosse quello da lui desiderato.

Era il sogno che lasciava ogni mattina sul cuscino quando si alzava svogliatamente per andare a scuola.

Soltanto al mister aveva osato confessare quel nome e quel nome era Juventus, la squadra della sua città, la più forte, la più nobile, la più titolata.

Era il settantacinque e lui passava ore davanti all’album Panini. Sapeva a memoria la formazione della Juve, peso, altezza e carriera di tutti i giocatori, riserve comprese.

Quando non era impegnato con gli allenamenti passava interi pomeriggi in piazzetta a giocare, a giocare ancora, a giocare sempre: a palla, pallone, pallina. Qualsiasi cosa purchè rotolasse e si potesse prendere a calci.

In realtà le dimensioni dell’attrezzo, tanto per dirla alla Giordano,  variavano a seconda del  campo  e delle porte.

Se si giocava in piazza, quindi c’era spazio e le porte erano grandi, si prendeva il pallone. Se invece si giocava nei giardini, con uno spazio esiguo e le panchine come porte, ci voleva la palla, più piccola.  Ma a volte si prendevano due cassette tra i rifiuti del mercato e si appoggiavano sul lato lungo. Quelle diventavano le  porte e allora bisognava usare la pallina da tennis.

Così per ore, mesi, anni.

Sicuramente arrivava da quegli infiniti pomeriggi la straordinaria capacità tecnica di Osvaldo.

Durante le partite con gli amici  simulava la telecronaca di Nando Martellini.  Furino prende palla a centrocampo, resiste al contatto di un avversario, la smista sulla destra alla volta di Causio, Causio si  libera di un uomo, si invola sulla fascia ed effettua il traversone, irrompe a centro area Anastasi… Anastasi…gol!  Anastasi con un gran tiro  al volo mette il pallone alle spalle di Ginulfi portando in vantaggio la Juventus. Juventus 1-Roma 0.

In quelle epiche battaglie pomeridiane lui era sempre Anastasi.

Si identificava nella sua storia di ragazzo del  sud, da Catania a Torino, alla Juventus. Gli sembrava un po’ simile alla sua, nato a Torino ma figlio di siciliani. Gli sembrava che  la scelta fosse in qualche modo inevitabile, non poteva esserci altro campione per realizzare una identificazione credibile.

In verità il suo modello era un altro, era Bettega, per lui aveva un’ammirazione sconfinata.

Il suo era un calcio chirurgico, di una pulizia assoluta. Mai una sbavatura, mai un leziosismo, mai un tocco in più. Faceva sempre e solo quello che andava fatto in quella situazione, e non sbagliava mai. Lui era il manuale del calcio.

Anche Osvaldo giocava con il numero undici ma Bettega gli sembrava troppo altolocato, troppo borghese, inavvicinabile per lui. Che era un popolano, che veniva dalla strada, come Pietro Anastasi, e allora viva Petruzzu.

La chiamata  del destino arrivò proprio il giorno dopo la partita che sanciva la vittoria del titolo regionale.

La raccomandata informava che la Juventus aveva ottenuto dal Beinasco il prestito del giocatore Osvaldo Barone per tutta la durata del torneo in notturna  Golden Boy di Abbiategrasso.

Giordano dandogli il via libera l’aveva fatto uscire dal nido; sapeva che Osvaldo era pronto a volare. Adesso c’era il cielo da conquistare.

Osvaldo pianse la sera in cui si vide addosso quella maglia. Niente di imbarazzante, non voleva farsi vedere  dai nuovi compagni; solo due lucciconi in bilico sull’orlo delle palpebre risospinti indietro appena  un istante prima che precipitassero sulle guance.

Era il sogno  che aveva lasciato il cuscino per diventare realtà.

Ma non c’è più tempo per la commozione. L’arbitro è già lì per l’appello. Quando esce dallo spogliatoio il campo è un catino di luce. Esegue gli ultimi scatti per tenere caldi i muscoli e  si comincia.

Osvaldo  gioca bene i primi palloni che riceve, i più importanti, quelli che decidono il corso personale di una partita. Gli tornano in mente i consigli di Giordano prima di partire: gioca come sai , gioca facile, non strafare.

Si sente bene, si muove con agilità e mano a mano che il tempo passa acquista sempre più fiducia.

“Bravo Barone, forza” sente gridare ogni tanto dalla panchina.

Non è la voce di Giordano ma la sente ugualmente calda. E gli fa bene.

Ecco, si trova ora a metà campo, si fa vedere smarcato, chiama la palla… troppo lunga, si distende in scivolata, vede un avversario incombere su di lui….

Un dolore lancinante mi prende la gamba e urlando mi accascio a terra. La gamba destra è piegata all’altezza del ginocchio, non riesco più a distenderla.

Un capannello di gente mi si forma attorno, osservo le loro espressioni sconvolte.

Arriva la barella, qualcuno mi butta addosso una coperta , mi caricano in fretta sull’ambulanza mentre il dolore spalanca davanti a me baratri spaventosi.

Spostarmi dalla barella al tavolo dei raggi e poi sistemare le lastre sotto la gamba è come precipitare in un abisso.

Non voglio urlare, mi sforzo di non farlo ma fitte terribili mi annichiliscono ad ogni leggerissimo movimento, ondate di dolore invadono ogni fibra del mio corpo. Alla fine piango, ed urlo. Basta, vi prego, pietà.

La liberazione arriva finalmente con il sonno; in anestesia totale riducono la frattura. Perché di questo si trattava: frattura scomposta del condilo mediale del femore destro.

Quando mi risveglio mi sembra di essere disteso sotto l’albero maestro di un veliero. La gamba sopra un paio di cuscini, informe per il gonfiore, è incassata dentro una lunga conchiglia di gesso. Vedo strani fili e tiranti che partono da un lungo tubo d’acciaio sopra di me, l’albero della nave. Il lenzuolo, teso come una vela, copre tutto.

Ho indosso solo le mutande. I calzettoni, la maglia, perfino i pantaloncini, non ritrovo più nulla, è tutto sparito, opera evidentemente di qualche infermiere del pronto soccorso a cui non è parso vero di arraffare con tanta facilità un tale prezioso bottino.

Mi spiegano che il veliero è il congegno necessario alla trazione.

Sette giorni e sette notti di immobilità assoluta, pappagallo e padella per le umilianti necessità del corpo. Infine l’operazione. Due viti incrociate dentro il femore, mezzi di osteosintesi le chiamano.

E’ passato un mese da quella sera.

Sono qui, sul terrazzino dell’Ospedale di Abbiategrasso, insieme ad altri malati, a godermi gli ultimi caldi raggi del sole che calando si portano via un altro giorno. Sono seduto su una sedia a rotelle, mi hanno detto che tra qualche giorno potrò finalmente tornare a casa.

Davanti a me gli alberi si ergono maestosi e sembrano schiacciare ancora più in basso le case e le fabbriche ma li vedo lontani, lontani come sono ora  i miei sogni.

Perché Osvaldo Barone sono io.

Il calcio per me è diventato un ricordo. D’ora in poi ne potrò solo parlare. Di ricominciare a giocare non se ne parla nemmeno.

I dottori  non mi hanno dato nessuna speranza. E’ già tanto se non rimarrò zoppo per il resto della mia vita; la frattura ha leso una cartilagine di accrescimento. Una gamba potrebbe crescere e l’altra no.

Boniperti mi ha mandato un telegramma augurandomi una pronta ripresa ma è la solita formula di cortesia. La Juventus comunque è stata perfetta.

Ha mandato più volte il dottore della prima squadra per visitarmi e spedito all’ospedale  buste piene di spille, penne, portachiavi, gagliardetti.

In tutta la storia del calcio  probabilmente sono stato l’unico ad essersi rotto il femore nel corso di una partita ma non entrerò per questo nel guiness dei primati. Rimarrò solo uno dei  tanti sfigati. Ricordate? si parlava di fortuna.

L’ho scritto io questo racconto, disteso sul mio letto, nel tentativo di rimediare almeno in parte alla monotonia  della vita d’ospedale.

Quella che ho scritto dunque è una storia vera, tremendamente vera purtroppo, ma solo ad un certo punto sono intervenuto in prima persona perché se i sogni e le speranze che coltivavo un tempo potevano essere comuni a migliaia di altri ragazzi come me così da poterne scrivere impersonalmente , il resto della storia è diventato solo ed esclusivamente mio.

Il dolore fisico è un’esperienza che non puoi dividere con  nessuno, riguarda solo te stesso. E’ un mostro orribile che devi affrontare da solo quando decide di affondare  i suoi artigli  dentro di te e strapparti la carne.

Qui sul terrazzino, di fronte a questo meraviglioso crepuscolo, rileggo ciò che ho scritto all’inizio del racconto.

C’è un momento nella vita  in cui ci si rende conto che l’adolescenza è rimasta per sempre alle spalle, che abbiamo attraversato il ponte. E questo momento coincide sempre con un dolore.

Da lì  in poi si chiudono gli occhi dell’immaginazione e si aprono quelli della realtà di tutti i giorni. E ci si accorge che in fondo non era così bello come si pensava il mondo che ci stava aspettando e che noi aspettavamo.

Anch’io ho pagato il pedaggio, anch’io ho attraversato il ponte lasciando ai  guardiani i miei sogni mentre dietro di me fitte schiere di altri ragazzi si stanno approssimando.

Per ora non vedono i mostri al termine del ponte con la mano protesa ad esigere il loro  tributo.

Ma è solo una questione di tempo.

Teodoro Lorenzo, Torino