Un fascio di luce solare piomba linearmente sul suo viso, sulle sue palpebre appesantite dal calore estivo. Sono le quattro del pomeriggio e se ne sta seduta nel vecchio appartamento di suo padre ascoltando vecchi album degli Afterhours, mangiucchiando una matita nell’atto di concentrarsi per completare l’ennesimo cruciverba pomeridiano. Io la guardo, disteso sul letto, fumando una sigaretta. I piccioni fanno un gran chiasso sui cornicioni della città vecchia e sembrano essere gli unici esseri viventi sopravvissuti alle torride temperature d’agosto. Suo padre è morto un anno fa. Lei non parla con sua madre da qualche mese. Dice di non riuscire più a sentire nulla. Fuma ininterrottamente, quando non mastica la punta di una matita screpolata. Non parliamo adesso, non abbiamo bisogno di parlare, non dobbiamo per forza lasciare sgorgare le parole dalle nostre bocche. Mi guarda: ha occhi neri come petrolio, occhi pesanti, malinconici… occhi ferini, occhi d’animale braccato… occhi pronti a piangere e a divorare ogni cosa nello stesso istante. Ha un sorriso ampio, quasi equino; le gengive rossastre emergono abbondanti e splendenti quando ride. Le cucino un piatto di pasta nella vecchia cucina di suo padre, con una vecchia e consunta padella, la salsa al pomodoro di una vecchia e impolverata bottiglia: sì, ho scritto così tante volte vecchio o vecchia ma davvero, tutto quello che ci circonda è infestato e impregnato di vecchiezza e ci sentiamo improvvisamente stanchi quando – dopo aver bevuto abbastanza vino – ci baciamo seduti sul letto, tra il frastuono di un vecchio ventilatore arrugginito e l’azzurro del cielo che sbirciamo fuori dal rettangolo della finestra spalancata su vecchi balconi spioventi, sulle tegole cosparse di erbacce ed escrementi, sulle persiane chiuse, sulle antenne svettanti verso il cielo come centinaia e centinaia di ossa rotte che squarciano la carne. Dobbiamo lavare i piatti prima che faccia notte perché nell’appartamento non c’è corrente elettrica. Un flebile alito di vento le accarezza i corti capelli che con le mani si sistema noncurante dietro le orecchie; il vento accarezza anche l’impercettibile peluria agli angoli delle sue grandi labbra, quella sulle sue braccia, ondeggiando tra le sue ciglia.

Torna al suo cruciverba. Io torno sul materasso duro come pietra; bevo un goccio di vino e la guardo pensando:

– Possiamo vivere così per sempre, in questo triste appartamento dimenticato… e d’inverno per riscaldarci distruggeremo tutti i mobili, le credenze, le cassepanche, le porte, i tavoli, le scrivanie, le cassettiere, le librerie, gli sgabelli, i divani, le sedie, i comodini e avvolti attorno ad una pruriginosa coperta di lana osserveremo tutto bruciare in un immenso falò, mentre la candida neve fuori scenderà lenta sulle strade gelide della città vecchia e i gatti cercheranno riparo tra i cantucci abbandonati miagolando ad una luna che non sarà più qui.

Mi alzo dal letto, cammino verso di lei e la bacio, lungamente; le sue labbra sanno di nicotina e balsamo labbra.

– Possiamo davvero restare così per sempre – penso, e il cuore sembra cedere nel mio petto come una vecchia baracca scossa dalle furiose raffiche del vento.

Non parliamo, non abbiamo bisogno di dire nulla, non vogliamo che il suono delle nostre voci superi quello dei nostri pazzi, solitari, sofferenti, magnanimi, mesti occhi.

C’è il tramonto con le sue luci infuocate all’orizzonte e poi c’è la notte con il suo spettacolo pirotecnico di stelle baluginanti nel cielo. Lei si alza, sguscia via sinuosa; la stanza è oramai avvolta nell’ombra; poi ritorna, ha tra le mani una candela accesa; la posa sul piccolo tavolo vicino ai suoi cruciverba, al pacchetto di sigarette spiegazzato, alle bottiglie di vino svuotate, alle matite mangiucchiate: la fiamma della candela è blu, blu come quella ballerina che sognai tanto tempo fa. Dal salotto dell’appartamento vicino la voce di Chris Isaak riecheggia morbida verso la nostra stanza:

“The world was on fire and no one could save me but you…”

Si spoglia lasciando cadere i vestiti sul pavimento e s’infila svogliata sotto le fresche lenzuola.

– Possiamo davvero… davvero… vivere così… per sempre…

Fabiano Di Campli, Lanciano

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