La mattina inizia con il profumo del caffè misto all’intensità del ragù della domenica, quello cotto lentamente e a fuoco basso. Dalle voci in cortile al borbottio della moca fino a quello del sugo che schizza sulle mattonelle, sono questi i rumori tipici della mia cucina calabrese, in un appartamento di un palazzo di 4 piani, con affaccio su strada e in lontananza il mare e un faro. Con modus operandi simile alla vita di paese, quel tipo di rilassamento che non cambia l’umore di nessuno, se non di qualche giovane tornato dal nord e che ha ormai incamerato quella frenesia tipica delle città caotiche e veloci, assaporo dolcemente il tepore del sole su un balconcino dalle mattonelle in cotto, addobbato di gerani e qualche panno steso, fresco di ammorbidente. Il mare è la cosa che più mi è mancata in quei 10 anni da fuori sede, e allora pensare di poterlo respirare a fondo, anche durante una corsa o un giro in bicicletta è la svolta, un desiderio che diventa reale. E allora indosso le scarpe da ginnastica e parto! Paola è un paese che si spalma bene tra il mare e la montagna, sta in mezzo insomma. Questo implica salite, discese e scorciatoie di ogni sorta per abbreviare il tragitto. Riscopro il gusto di camminare a piedi, non che prima non lo facessi, anzi, ma era ben diverso, almeno per il panorama intorno. Il mio tragitto è lento, nemmeno troppo lungo, nel mentre mi piace osservare quello che mi accompagna, che calpesto, che incontro sulla mia strada.

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Parto da piano torre, un quartiere storico, dove da adolescente non andavo quasi mai perché non c’era niente di rilevante, oggi ne assaporo i vicoli che si perdono tra le abitazioni e la panoramica, poco frequentata se non dagli abitanti che vi risiedono intorno. Continuo a scendere verso la marina: una discesa diventa una curva a gomito che diventa a sua volta un’altra discesa, lungo le canalette qualche rifiuto e ai lati della strada che percorro canne di bambù spezzate, i resti di una pulizia estiva realizzata senza troppa cura, solo la vista mozzafiato compensa il mio disappunto. Arrivo in un ingorgo, auto ricolme di voci di ragazzi, ragazze e bambini sovrastano il clacson di qualche conducente frettoloso. A pochi passi treni in arrivo e partenza da una delle stazioni più centrali della costa, simbolo della cittadina, crocevia di sguardi, storie di vita, colori di pelle e culture. Finalmente sorpasso i due ponti, dopo il buio la luce mi sorprende e sfiora la mia pelle con i suoi raggi.

3, 2, 1 partenza! L’asfalto è sotto le suole, la via dritta e una distesa blu alla mia sinistra. Corro a ritmo moderato, cercando di regolare il respiro, non sento odori pungenti né particolarmente inebrianti, ma mi godo lo spettacolo di piccole onde venate di bianco su un sottofondo musicale che più si addice alle mie emozioni, ai pensieri del mattino. La mente si libera da quelli negativi, si apre, fino ad abbracciare soluzioni creative a questioni spesso ingigantite dalla routine e a volte da piccole frustrazioni tipiche della nostra modernità liquida, proprio come la definisce Bauman, che ho letto a 19 anni senza conoscerne il nome ma solo per il verde sgargiante della copertina di un suo libro.
Non ho cronometrato il tempo, e se devo essere onesta non lo faccio mai, forse perché non mi va di darmi obiettivi troppo ambiziosi almeno nella corsa. So solo che quello è un tempo solo mio. È il tempo di essere se stessi e di ricongiungersi con la terra, la natura, la bellezza.

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