Ci furono degli attimi precisi in cui le piante dei piedi gli bruciarono così tanto che quasi pensò di star calpestando pentole roventi. A un certo punto gli parve persino di vedere il fumo uscire dalle scarpette malconce. A pensare alle pentole lo stomaco gli brontolò di appetito. Per lavorare, soprattutto nei campi, occorreva avere la pancia piena; su questo suo papà lo aveva sempre ammonito. I massari, proprietari terrieri di larga tasca e braccia corte, lo sapevano bene. Solo che loro, scaltramente, il lavoro lo facevano fare agli altri: “u spertu talìa, u lollu travagghia!”. Vecchio detto di campagna. I massari le pentole le facevano utilizzare alle donne di casa per farsi cuocere le pietanze del raccolto o della stalla che i picciotti gli portavano. Loro chiamavano gli aggeggi da cucina: “tannura” e, probabilmente, non avrebbe mai visto la sua mamma usarne uno. Quelle erano robe di gente coi piccioli, pensava. E per avere i piccioli bisognava possedere i terreni e la mercanzia da vendere alle piazze.
Lui, in fin dei conti, era solo Nittuccio, il picciotto che si occupava della vigna e del raccolto quando serviva manovalanza. Di anni ne aveva dieci ed era proprietario di null’altro che una tracolla, ricavata dai sacchi di semenze, e le vesti che indossava. Quel settembre raccoglieva le olive per conto di Don Masuzzo, uno dei grandi proprietari a cui non sfuggiva nulla e che se ne stava appollaiato sulla seggiola di legno capovolta, con avambracci poggiati sullo schienale e con petto sudato e villoso. Coppola in testa, sigaraccio e orologio a carica manuale scintillante a tal punto da scambiarlo per il sole. Il Don era grassoccio, a quanto pareva carente di stenti vissuti, aveva vene varicose e viso corrucciato. Raramente parlava, se non qualche grugnito di incitamento: “annacatevi”, ruggiva e sputacchiava pezzi di tabacco in terra. I picciotti muti come i pesci tutti pronti a scattare.
Il lavoro, Nittuccio, lo aveva rimediato per conto dei Cangemi, compari vicini di casa che, venuti a trovare suo papà con il lume a dargli conforto nella sera gli avevano detto: “Don Masuzzo cerca picciotti che ci raccolgono le olive. Picchì non ci mandi a Nittuccio!? Tanto sapi lavorare, no? E con le mille lire ci compri i mostaccioli alla famigghia; che la festa dei santi è vicina.” Dal Don, Nittuccio doveva lavorare un paio di giorni. Dormiva nella catapecchia dove gli altri mettevano il fieno e di giorno si toglieva le scarpette per non sentire il forte pizzicore ai piedi.
I braccianti al servizio del Don venivano da zone rocciose, partendo con muli e carretti carichi di attrezzi e leccornie di vario tipo, nelle ore di pausa li vedeva frantumare con i denti fichi e pezzi di pane, mentre lui campava di pane che sua mamma Teresina gli aveva infilato nella tracolla. Il primo giorno di lavoro aveva rimediato mezza cipolla e un chicco d’oliva dal Massaro. Si era infatti presentato da Don Masuzzo con il canestro pieno di olive corvine e verde smeraldo, timido e con il capo calato. Il massaro era nel capanno a farsi i conti su carta e a mangiare pezzi di salame. Il capannaccio a mò di ufficio attorniato da montagne di cipolle e olive in salamoia che li scambiò per i mille granelli che calpestava sulla via del ritorno.
Il Don gli porse mezza cipolla, tagliata al centimetro per non rischiare l’eccedenza, gli allungò poi una pallottolina d’oliva: “bravo picciotto, il panaro più bello tu l’hai portato. Ora però allestiti che me ne servono altri!”. Grugnì. Nittuccio lo assaporò così forte, il misero pasto, da sentire le vibrazioni di piacere inasprirsi per tutto il corpicino da coltivatore mingherlino e passò il restante giorno a ispezionarsi la bocca con la lingua per scovare qualche avanzo incastrato tra i denti.
Le cose funzionavano così nell’infinito agrario qual’era la Sicilia, come una gerarchia dittatoriale imposta da padri fondatori di cui nulla si sapeva. Paolino, zio materno di Nittuccio che aveva i mandorleti e i calli grinzosi, una volta gli aveva spiegato: “funziona accussì figghiu. Coi gradi come nei militari, se sei artigiano e bravo di carte diventi – Mastro – e dai conto a quelli più in alto che davanti al nome ci mettono – Zio -, come u Zíu Vastianuzzu che ci compra i fichi e se li rivende al doppio lasciandoci gli spiccioli. Se poi hai fatto lo sperto e da anziano ti ritrovi con i terreni e il porcile dove i picciotti muti danno da mangiare al tuo porco, allora diventi -Don- e ti chiedono il permesso anche per mangiare. E, figghiu caro, se in questo mondo non sei almeno un -Don- purtroppo non vali una minchia e con gli spiccioli ti ci lasciano davvero”.
Quando venne il tempo di tornare a casa, Nittucco aveva ancora le scarpette appese con i lacci intorno al collo. Tra le mani il pesante canestro ricolmo di olive pronto a presentarlo ai piedi del Don con tanto di inchino. – Mezza cipolla, mezza cipolla… Un chicco d’oliva, un chicco!- Lo bisbigliava a voce bassa, speranzoso di misericordia amara. Un rivoletto di bava scendeva sul labbro inferiore. Qualcuno dei braccianti rise pure, indicandolo.
Adesso che gli portò il secondo panaro il Don aveva finito i conti su carta ed era impegnato a conteggiare la caterva di lire, maniacalmente disposte in ritagli di forme uguali. Tossiva catarro, mormorava: “chìnnici, quattòrdici”, e così via. Nittuccio posò in terra il canestro, attese a un metro dal tavolo vecchio. “Centu, centucinquanta”. Il Don continuava a tossire. Il picciotto guardò il denaro lucido. Suo padre, alla sera, li tirava fuori dal fazzoletto di stoffa e li faceva tintinnare, per poi infilarsene qualcuno in tasca e posare gli altri nel cassetto. Tuttavia, così diversi e così tanti, non pensava neppure ne esistessero.
Alcuni ritagli raffiguravano quello che gli sembrò essere un volto femminile ornato di spighe, altri più grossi di color rosso camino avevano stampato sul retro uno strano ceffo dal grosso naso con una corona d’alloro in testa. Le monete erano tutte d’argento. “Perchè mai tanto a perderci tempo?”. Ne ignorava l’esistenza come anche l’utilizzo perché, alla fine, tutta la sua attenzione era rivolta alle cipolle e alle olive. Adesso prese a inumidirsi le labbra e a grattarsi il capo, inquieto, e il rivolo di saliva riprese a scendere sul mento insudiciato di terriccio.
Il Don lo guardò: “chi vvòi?”. Seccato per essere stato interrotto. Poi lasciò i soldi, “ah vìeru!” disse, “mi tocca che ti pago”. Gli allungò qualcosa e la sedia scricchiolò per le movenze goffe del grasso sedere. Nittuccio afferrò il biglietto, era secco e vi era visibile un altro volto di donna ma senza spighe. Provò a leggerlo ma non era capace e, come suo padre gli aveva detto, arrotolò il pezzo di carta infilandolo in un brandello di stoffa.
Dopo attese con le labbra ancora umide, rivolgendo lo sguardo alle cipolle. Masuzzo se ne accorse, “àutru ti serve? Non te l’hanno insegnato che si chiudono le porte?”. “Aspetto il mio pasto”, esclamò il picciotto. “Quello là!” sentenziò, indicando i bulbi rossi e i barili verdi. Il Don incrociò le dita, i gomiti larghi e pelosi tra tavolo e seggiola. “Ah. Il pasto vuoi? E le mille lire non ti bastano?”. Tossì. “A manciàri ti sei divertito. Adesso divertiti a non manciàri!”. Gli fece cenno con la mano di andarsene via.
Al ritorno il picciotto prese la via principale, terrosa e con alti ulivi da ogni parte. Spesso si asciugò la fronte e tagliò per i campi che conducevano alle zone dove si faceva il vino. Si soffermò tra le rocce bianche dell’arida landa in cerca di qualcosa. Notò i babbaluci incollati a chiazze, tra i rami secchi e i massi anneriti. Sorrise. Li accumulò nella bisaccia e più avanti ispezionò altri punti dove ne raccattò ancora e ancora. Poi all’imbrunire gli apparvero in lontananza le colline dorate con qualche pennellata di verde, erano i campi dove facevano i vini. Quelli buoni. Vide addirittura la sua mamma raccogliere del sanapo per cena e le galline scorazzare. Tirò su la bisaccia stando attento alle lumache e sudato sorrise. “Sono a casa.” Disse.
𝑆𝑎𝑙𝑣𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑃𝑜𝑟𝑧𝑖𝑜 – 𝐴𝑛𝑔𝑢𝑖𝑙𝑙𝑎𝑟𝑎 𝑆𝑎𝑏𝑎𝑧𝑖𝑎 (𝑅𝑀)