Mi aveva avvertito Steno, saldando un fusibile alla scheda, Due ore in auto sono una mazzata, eppure non lo capii prima di aver visto nell’oblò aeropiste identiche, qualche zigzag di fiume e ciuffi di bosco tra le reti delle città, l’oceano annoiato, la scatola di nuvole che chiudeva a stento l’alba e da lì a poco la ruvida costa di nord-est, il riverbero tedioso nella zona dei laghi, i campi di grano e mais sdraiati sul Nebraska, traboccanti e sterminati, splendenti d’ambra come il sole che si abbassava lento sulla statale, contro il senso di marcia, davanti ai nostri occhi arrossati dal fuso. Ogni tanto si scorgeva la sagoma di una cascina o il cartellone pubblicitario di un avvocato, a spezzare il piattume dell’asfalto, ma il resto ormai pareva tutto rettilineo fino a Kearney.
Il mio cellulare era puntato sulla mappa, il suo quasi scarico, di conseguenza Steno aveva chiesto di mettere canzoni ritmate per tenerlo sveglio. Gli avrei dato volentieri il cambio al volante, una chicca guidare negli States, ma sfortuna volle che la mia patente scadesse proprio al nostro atterraggio e avrei ricevuto la nuova tessera solo una volta tornato a Verona. Presi sul serio il mio ruolo di DJ, a pensarci forse per farmi perdonare, oltre che per mutua incolumità. Pescavo brani dance dalle onde FM e rigettavo le ballate non appena l’autista accennava sonnolenza. Testa inclinata in avanti: cambiavo stazione. Occhi socchiusi: altra canzone. L’unico che riuscimmo ad ascoltare per intero fu un pezzo di George Strait, grazie a una videochiamata di Steno a moglie e figli. Io a Giorgia giusto un breve messaggio, non era il caso di sentirsi dopo il litigio del weekend e quel breve viaggio ci sradicava dalla routine al momento opportuno. Stare un po’ schisci, a distanza di sicurezza, sembrava quanto di meglio.
Suonammo al campanello del cliente la mattina successiva, con un lieve ritardo dovuto alle sveglie rimandate e due facce da zombie. Nel vetro della porta la receptionist veniva ad aprirci e di riflesso, sovrapposta, la bandiera americana sventolava tra i pick-up del parcheggio aziendale. Lynette ci accolse, riccioli biondi e un bustone di caramelle assortite, domandò se in Italia facesse più o meno lo stesso tempo, poi chiamò Karen alla cornetta e chiese a bruciapelo se avessi mai visto nascere un vitellino, mimando con le grosse braccia il gesto di tirare. Steno si era girato per fatti suoi, la testa nello zaino a frugare qualcosa. Io esitai in un finto colpetto di tosse, pensando di aver capito male, tra l’altro piuttosto confuso perché la donna sorrideva tutte lentiggini e mi avrebbe invitato volentieri al ranch di famiglia, se ero un tipo dallo stomaco forte. Risposi che sarebbe stato favoloso, un’esperienza del genere non volevo perderla, ma il soggiorno durava appena due giorni e di certo Karen ci avrebbe portati a cena col boss entrambe le volte, come infatti fece. Non appena si fece viva, la sua sagoma florida riempì un angolo della hall, Morning gentlemen, sorriso e strette di mano, raggiante per il nostro arrivo. La vedevo per la prima volta, videochiamate a parte, a dispetto di anni di lavoro insieme. Indossava berretto e occhiali protettivi, con giacca rifrangente su camicia a quadrettoni e un paio di jeans nei quali sarei entrato due volte e una spanna. Il suo team arrancava col servizio post-vendita, noi lenti coi ricambi a causa delle dogane intasate, cominciavano a ricevere lamentele, alcuni clienti chiedevano rimborsi, per questo ci avevano pregato di formarli con una formazione tecnica sui prodotti. Dunque Steno giustificava la sua presenza da uomo skillato in materia, mentre a me spettava agevolare il dialogo in lingua.
Il primo giorno pareva andato ok, soddisfatti da ambo le parti, salvo alcune diffidenze iniziali e la parentesi del cazziatone di Karen alla povera April, stagista imbarazzata, per aver dimenticato il proiettore. Nella mattina del secondo giorno erano state discusse tutte le slide della presentazione, in anticipo sulla tabella di marcia, complice una latente svogliatezza dei sei tecnici da formare, perciò Steno approfittava del fuso utile per una chiamata alla moglie e io facevo quattro chiacchere con Lynette, la quale stava allineando sul carrello i sacchetti del pranzo: burger di manzo e porzione di coleslaw. La sera precedente era nato un vitellino in fattoria e le brillavano gli occhi, Lemme show you, il suo pollice rapido sullo smartphone per avviare il video della mucca sdraiata nella stalla, a collo teso e un ago di biada incastrato tra i denti, col ventre stremato di muggiti profondi e il budello trasparente del piccolo a fare lento capolino attraverso il velo di sangue, sforzo su sforzo, prima la testina e poi le zampe, unite a coppie, fino al prolasso liberatorio della madre e gli incerti passetti del neonato verso le gonfie mammelle. Il miracolo del parto. Quando Lynette lasciò la stanza, nella sala riunioni c’ero solo io e i cappellini degli operai sulle sedie. Presi panino e salse da un sacchetto, stappai una soda dal minifrigo, e masticando ebbi la grata sensazione di un tepore inatteso.
Alla fine del training, Steno non volle aspettare il mio incontro riassuntivo con Karen ed era rientrato in hotel per smaltire del sonno in sospeso. Tornai a piedi costeggiando vagoni abbandonati su un binario morto, lungo il quale la mia ombra sarebbe presto giunta in paese. Intorno a me solo basse costruzioni in mattone e campi arsi. Pali elettrici, pali della luce e campi arsi. Strumenti di irrigazione, trattori e campi arsi. Da quelle parti, il terriccio era sottile e si spargeva come una polvere sulle strade e sulle cose, quando il vento ne aveva voglia. E il suolo famoso per essere ricchissimo, da poter sentire le radici del mais crescere scrocchiando. Almeno così mi aveva detto un anziano in hotel. Non era la stagione giusta, mancava del tempo, ma provavo ogni tot di passi, aguzzando le orecchie stordite dal silenzio. La strada era semi-deserta, ancora tutti a lavoro o in casa al fresco. Mi fermai davanti a un negozietto e ascoltai immobile, oltre l’insegna scolorita. Un fremito pareva davvero di sentirlo, sotto la gomma delle scarpe, come un coro di sussulti dalla terra.
Al messicano quella sera cenammo ospiti del boss, tenuta casual e bottoni slacciati, elettrico per un grosso affare appena andato in porto e anche per questo loquace al contrario del solito, persino spiritoso, sebbene il suo assurdo accento scozzese misto a una sorta di erre moscia diventasse indecifrabile parlando con le frijoles in bocca. Raccontò di quella volta in cui la moglie si ubriacò in salotto con un’amica, cocktail assurdo di bourbon e whiskey, fatto sta che trovò le signore mezze nude in salotto a sghignazzare sguaiate, i cubetti di ghiaccio contro il bordo dei bicchieri, allora buttò lì un giochetto di parole che non colsi, figuriamoci Steno occhi fissi, Can you believe that crap, ma visto che il boss rideva come un idiota e Karen gli andava appresso col boccone affacciato nella gola, ridemmo come scimmioni anche noi due. Frattanto, alle loro spalle, la TV mostrava la sagoma del Nebraska marchiata da un’allerta incendi preoccupante, a partire dalle nove del mattino seguente. Se ci andava bene, per quell’ora saremmo già arrivati all’aeroporto e avrei provato a chiamare la Giò. In un paio di giorni l’avrei rivista e avrei finalmente pagato dazio.
Autore: Apolae