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Quindici minuti. Non di celebrità. Sono mediamente il tempo di attenzione che un bambino di 6-7 anni può prestare a un adulto che parla. Dopo 15 minuti il bambino inizia a distrarsi. Consideriamo ora che la possibilità di prestare attenzione in modo continuativo si riduca ulteriormente attraverso uno schermo. Quello che si sta consumando in molte regioni di Italia è un vero e proprio stillicidio dell’attenzione, della capacità di concentrazione di un bambino che è sottoposto a uno stress insopportabile. Questo comunque è il danno minore. Stiamo parlando della Dad, la didattica a distanza introdotta con I Dpcm dallo scorso marzo. Le scuole sono state le prime a chiudere e le ultime a riaprire. E tralasciando qualsiasi polemica sull’appassionante querelle sui banchi a rotelle, quello che fa pensare, è il confronto impietoso con il resto dell’Europa, dove le scuole sono rimaste aperte.

Una scuola, di là da ogni vuota retorica, è come un ospedale, presidio di democrazia, baluardo di socialità, il danno inflitto ai bambini, specialmente quelli della scuola primaria, è incalcolabile. Un bambino volenteroso e brillante che inizia la sua scolarizzazione in Dad non può farcela senza il supporto di un adulto. Il lavoro delle mamme spesso, dei nonni qualche volta, si è quantomeno raddoppiato. Quello delle maestre di fatto è reso quasi impossibile dal digital divide, dalla mancata alfabetizzazione digitale delle generazioni passate, dal caos e dall’impossibilità del contatto. Eppure il digitale potrebbe essere un’occasione irripetibile di crescita e innovazione didattica, di fatto, a voler essere ottimisti, si riesce a fare un terzo del normale quintuplicando gli sforzi. Ma non si tratta di numeri, che sentiamo sviscerare da inizio pandemia, si tratta di persone e di vite, giovani vite che comunque vada saranno segnate da inettitudini, isolamento e maggiore precarietà.

È la storia di Lucia, 6 anni che con i genitori a lavoro deve affidarsi a un’amica di sua cugina, e alla maestra Francesca che le fa leggere una letterina ogni 10 minuti, perché ci sono altri 20 faccini impauriti o annoiati in altrettanti 20 schermi che aspettano a microfono spento il loro turno.

È la storia di Sofia che ha fatto l’ultimo anno, quello della maturità con la Dad e ascoltava le lezioni di chimica con un audio su Whatsapp.

È la storia di ogni insegnante precario che da solo, spesso, lotta contro tutto e tutti per guadagnarsi uno spazio.

È la storia comune di tutti i bambini, i ragazzi che svogliati al mattino darebbero qualsiasi cosa, ora, per sentire il suono della campanella.

Il senso stesso della scuola come comunità, micro-cosmo che riflette quello evanescente che abbiamo imparato a conoscere e che rapidamente è in continuo mutamento, viene a sgretolarsi sotto gli occhi impotenti di un Paese che ha rinunciato da tempo a prendersi cura dell’unica arma in dotazione per un futuro migliore. Nel gradino delle priorità la scuola non figura neanche nell’Agenda di Governo. Occorrerebbe ripartire da qui: senza scuola non c’è futuro, neanche a distanza.

L’insegnante di terracotta di Michele Canalini affronta i delicati cambiamenti che hanno coinvolto la scuola italiana dopo l’introduzione della Buona Scuola. Allieve allibite di fronte a suore che cantano nel film Tutti insieme appassionatamente, sospetti di indecenza all’ascolto di Bocca di rosa di De André, ragazzi disabili trascurati e bistrattati. Potrebbe sembrare di essere a metà degli anni Sessanta e invece siamo nel 2018. Dietro la cattedra della scuola italiana si trova un insegnante spaurito, disorientato. A tre anni dall’approvazione della Buona Scuola e con l’incognita delle scelte di un nuovo governo, Michele Canalini tratteggia la figura di un “insegnante di terracotta” che si ritrova a dover fronteggiare i diktat degli uffici scolastici, le invadenze di psicologi e specialisti e, last but not least, le immancabili richieste di genitori sempre più ansiosi e organizzati in ubique comunità di Whatsapp. Riuscirà il nostro “insegnante di terracotta” a non frantumarsi in mille pezzi e a restare intatto, piccolo soldato al servizio della modernità, del ministero, della classe e, infine, anche di se stesso?

L’AUTORE

Michele Canalini, laureato in Lettere moderne presso l’Università di Bologna, lavora come insegnante in un istituto professionale della Lunigiana in provincia di Massa-Carrara. Nel 2014 ha conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Urbino con una tesi dal titolo L’angoscia nell’epistemologia di Leopardi, pubblicata in volume con il titolo Leopardi e l’angoscia (2015). Le sue principali esperienze sono state presso l’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Pesaro e Urbino, in qualità di collaboratore e redattore della rivista Memoria Viva (2002-2010), e presso il Rossini Opera Festival (2002-2015), in qualità di addetto ai libretti di sala. Ha collaborato con il sito di divulgazione cinematografica cinema4stelle.it, è curatore della pagina di divulgazione culturale e letteraria www.facebook.com/cortesieperilettori.periodicoonline e dal 2016 collabora saltuariamente con il sito di informazione culturale www.idranet.it.