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Sono stanco di nascondermi. Ma io sono un vigliacco, un codardo: è l’unico modo che ho per sopravvivere. Se non facessi così, allora il mio labirinto cadrebbe; in tal caso cosa potrebbe rimanermi? Io ho solo i sogni per assaporare la vita. L’amore che provo mai verrà estinto, così come la speranza; per quanto l’oscurità si annidi nelle mie vesta ci sarà sempre la luce. Seppur in minima parte è questa a darmi la forza per andare avanti.

Ogni qualvolta che giunge la sera: qualcosa in me muore e qualcos’altro prende vita. Non sono mai la stessa persona. Per quanto trascorrano tutte uguali, ognuna la vivo in modo diverso. Conosco me stesso, la mia anima. Affronto le intemperie. Vengo percosso dalla malinconia, dall’angoscia, dal vuoto; alla fine rimango in piedi. Il mio cammino deve proseguire in ogni caso e null’altro può farmi cadere in terra. Sono solo un’umile viandante. Al tempo stesso sono un curioso osservatore: rimango in disparte, parlando a tutti voi.

Torno per un attimo in me; il mio sguardo si posa sulla finestra spalancata. Lentamente mi avvicino e guardo fuori. Il temporale non cesserà mai, sino a quando non gli daremo motivo per farlo. Questo, perché la natura non ne può più: essa è in collera, malinconica, malata. Lampi danzano nel grigiore delle nuvole; ruggito di tuoni si alternano ad urla disperate. Il vento soffia con una potenza inaudita. Colla sua forza pare portarsi con sé ogni cosa ch’incontra. Eppure, quando incontra il mio viso, si ferma. Rimane fisso a mirar le mie pupille colme di lacrime e con la sua mano mi accarezza. La sento…sì la sento! È fredda, gelida. Quando incontra la mia anima però torna in sé, ed un lieve tepore la circonda. In quel momento il cuore mio ricomincia a battere.

Il temporale, dunque, è un grido d’amore disperato. Nessuno però se ne accorge o quantomeno se ne rende conto: da quando non guardate attorno a voi o dentro di voi? Non vorrò ripetermi: farlo sarebbe inutile in questo caso. Anche controproducente fra le altre cose. Che senso ha alimentare il grigiore della realtà quando questa non è tale? Chiaramente nessuno, ovvio.

Orbene, torniamo a noi; o a me; maledizione non lo so più! La coscienza del proprio “Io” è iniqua se fine a sé. Bisogna rendersi conto di far parte di qualcosa che è molto più grande di noi: dell’universo. Ogni cosa è nata da questo, e con esso è nato anche il tempo. Ogni cosa però ha un inizio ed ha una fine: alpha ed omega. Cosa succede quando moriamo? Per ora è solo teoria, o parole d’un folle; questo lo decidete voi. Dopo che i nostri corpi, finiscono sotto due metri di terreno, cosa ne sarà delle nostre anime? Alcuni sostengono (spinti da una hybris veramente notevole) che finiamo dritti dritti in una dimensione nuova. Sono soliti chiamarla paradiso, od inferno. Non userò la stessa terminologia perché non tratto la fantascienza, tratto l’Uno. Questo è ben differente. Il Dio che venerate altro non è che il tempo stesso: questo deriva a sua volta dall’universo che deriva a sua volta da qualcos’altro. Azione-reazione. Ha avuto tutto inizio con il Big Bang, avrà fine con il Big Crunch. Ad ogni azione ne corrisponde una uguale e contraria. Questo vale per ogni specie vivente, per il mondo e per tutto ciò di cui abbiamo conoscenza.

Scusate, in quanti sproloqui sono solito perdermi! No…no! Non devo scusarmi. Io non parlo mai con nessuno: sono solo. È sono felice di esserlo. Nella vostra di realtà, come sono solito sottolineare, incontrerei solo la morte. Per questo mi nascondo: nella mia di prigionia ho il controllo. Mi rendo conto che anch’esso è un’illusione; solo così però si può sopravvivere. L’ho già detto prima? Maledizione, il corso dei pensieri è ciclico per me. Tutto ciò che vorrei è parlare un po’ con voi. Far sì che possiate ascoltare. O detto in sintesi: parlare ed essere ascoltato. Vorrei conoscervi, sapere dei vostri sogni e dei vostri amori. Viverli con voi, respirarli con voi. Succederà un giorno, il giorno in cui si tornerà ad essere umani. Oggi però, non è il giorno. Non lo sarà neanche domani. E neanche…dopodomani. Dannazione, che giorno è oggi? Quanto tempo è passato? Io esisto? Sicuramente sì…ma voi? Esistete? Scusate le tante domande: le uniche voci con le quali sono solito interlocuire sono quelle dei miei demoni. E quanto soave è il canto loro? Ti attrae verso la ferocia delle tenebre con una delicatezza notevole.

Sento una voce diversa chiamare il mio nome: la luna s’è volta dinanzi a me. Uscita dalla sua insicurezza, mi abbraccia. Il suo corpo è così caldo che dona calore anche al mio. Che sia veramente un corpo, il mio, non so rispondervi. Le stelle sono tutte visibili; nella bellezza della notte brillano più forte che mai. Mi rendo conto d’una cosa: questo è solo nella mia mente, fuori cielo e terra stanno cadendo. Ma un attimo di beatitudine s’impossessa di me, mentre sto scrivendo questi versi. Ed è in momenti come questi in cui m’accorgo d’esistere, e che anche voi esistiate. Dove siete non so dirlo, ma ci siete. Vi nascondete come me: avete paura. Paura di come potrebbe essere, paura dell’orrore in cui siamo spettatori ogni giorno. Spettatori per inerzia, sia chiaro. Nessuno se ne rende conto di essere prigioniero e dunque, non ci si rende conto del carceriere. Ah…la normalità: quel spectacle fou et bizzarre!

Ridotto come un cieco a brancicare attorno, l’uomo muore prima di conoscere la morte stessa. Cos’è questo rumore? Ah, sono le veneziane che sbattono. Il mio sguardo si posa su tante cose in un battito di ciglia: un caffè freddo sulla mia scrivania, qualche libro, una sigaretta spenta in un posacenere, una lampada fioca ad illuminare l’anima mia. Ho dato la mia vita a voi, nonostante vi odi con tutte le mie forze. Perché non è colpa vostra. Tornerà la Primavera ed il cielo sarà più sereno che mai. A quel punto, quando le rose fioriranno e le labbra degli amanti si perderanno nell’amore, potrò smettere di nascondermi. Il viaggio è ancora lungo, è chiaro: seppur ferito e moribondo, arriverò alla mia meta. Qualunque essa sia.

Nicola Barbarisi, Avellino

Osvaldo Barone, di Torino. Null’altro.

D’altronde come si può, mi chiedo, aggiungere qualcosa per descrivere un ragazzo di appena sedici anni.

Era uno dei tanti. Non ancora uomo, non più bambino, impaziente anche lui come tutti i suoi coetanei di superare di slancio quegli anni difficili, di attraversare correndo, il più in fretta possibile, il ponte di assi sconnesse, malsicuro e scricchiolante che è l’adolescenza per mettere piede sull’altra sponda, quella della maggiore età, quella degli uomini, immaginario e illusorio paradiso di delizie da scoprire.

Chi procede su questo ponte è come un plotone compatto di piccoli soldati uguali tra loro, perfettamente intercambiabili.

Stessi tatuaggi, a volte un piercing, le scarpe da tennis rigorosamente Nike, jeans a vita bassa e dopo un po’ a vita alta secondo le cicliche maree imposte dagli stilisti nostrani. I polsi zeppi di braccialetti, l’ultimo modello di cellulare in tasca e gli auricolari incollati alle orecchie. Poi lo slang da branco e le pose da vissuti, lupi di mare che fingono di aver solcato tutti gli oceani.

Vorrebbero in questo modo ingannare i guardiani del ponte e passare di soppiatto dall’altra parte.

Ma loro, inflessibili, incorruttibili, inevitabili sorridono beffardi a questi espedienti.

Hanno stabilito un prezzo per chi ha goduto della gioiosa riva dell’infanzia ed è un prezzo molto alto che solo il  cuore di questi piccoli soldati  dovrà pagare un giorno. Sono lì, alla fine del ponte e aspettano, aspettano  senza fretta per cancellare i loro sogni.

Perché è questo e non altro ciò che vogliono: i sogni.

Ma per Osvaldo non era ancora arrivato il tempo delle riflessioni amare.

Andava a letto presto, presto si svegliava la mattina per ripassare la lezione. Poi svogliatamente andava a scuola, terzo anno di perito elettronico, e tra un canto dell’Inferno ed un’equazione la sua mente correva già alla felicità che gli avrebbe riservato il pomeriggio, pieno di un rettangolo verde e di un pallone.

Perché anche lui come quasi tutti i soldati di quel ponte era appassionato di calcio , anzi di più ; Osvaldo il calcio lo amava. Un amore certamente esigente, che tanto pretendeva, ma per lui nessun sacrificio era troppo gravoso.

E così alla fine delle lezioni mangiava un panino di corsa ed era già in strada,  per arrivare in tempo all’inizio degli allenamenti.

A proposito dei quali mister Giordano aveva idee molto chiare. Se si voleva giocare a pallone, ebbene doveva essere il pallone il centro di ogni pensiero. Non ammetteva deroghe a questa regola. Bisognava conoscere l’attrezzo.

Non si era lasciato sedurre dalle nuove teorie di Coverciano sostenute da rampanti ex professori di ginnastica assurti al fasto nominalistico di preparatori atletici. Secondo loro un calciatore prima di tutto deve essere un atleta e pertanto andava privilegiata la preparazione fisica.

Così quando hai smesso di correre e ti capita la palla tra i piedi ti prende il panico, chiosava Giordano. Ragazzi, non facciamo che quella cosa rotonda che vi rotola davanti diventi un ufo – oggetto non identificato.

E allora non c’era che il muro per ricoprire i piedi di velluto. Due, tre metri di distanza e poi piatto destro, uno due tre, piatto sinistro, uno due tre, destro  sinistro, destro sinistro, e avanti così per  ore, mesi, anni.

Giordano  pretendeva  che tra un colpo e l’altro si contasse mentalmente, uno due tre destro, uno due tre sinistro. Solo così si prendeva il ritmo, diceva, si raggiungeva la giusta concentrazione e le gambe, il pallone, i movimenti diventavano parte di un’unica danza.

Poi si passava alla conduzione della palla, da porta a porta; interno ed esterno, interno ed esterno. Per ore, mesi, anni.

Poi si imparavano i primi movimenti per superare l’avversario. Dieci paletti conficcati in fila indiana a distanza di un metro l’uno dall’altro; si portava il pallone lì dentro, zigzagando, prima con l’interno, destro e sinistro, poi con l’esterno, destro e sinistro. Per ore, mesi, anni.

Poi arrivavano gli scambi con i compagni, l’uno-due, vale a dire l’abc del calcio, il mattone sul quale si costruisce l’intero edificio del gioco collettivo. Si passa la palla ad un compagno che di prima te la rimette davanti con l’avversario che rimane alle spalle.

Giordano aveva escogitato per l’uno-due un marchingegno semplice ma geniale,  chissà se l’aveva costruito lui stesso o l’aveva commissionato ad un falegname. Un triangolo di legno, tre lati inchiodati assieme. I calciatori in fila, uno dietro l’altro, in velocità per un tratto, poi tum, pallone contro la sponda di legno e avanti a riprenderlo per chiudere l’uno-due. Per ore, mesi, anni.

Poi si continuava con gli stop; di petto, di coscia, di piede, e con il piede, di destro, di sinistro, di interno, di esterno, con la suola. E poi i tiri in porta; destro, sinistro, al volo, da fermo, in corsa, rasoterra, di controbalzo, in acrobazia, di interno, d’esterno, di collo. Poi i  colpi di testa; saltando da soli o dietro l’avversario, da fermi o in corsa. Ed infine i cross e i lanci. Per ore, mesi, anni.

Alla fine di tutto questo sarà venuto fuori un calciatore? Quasi mai.

Non esistono leggi sicure nel calcio. Due più due  quasi mai fa quattro. La cultura positivista ed il metodo scientifico non troveranno mai asilo in uno spogliatoio. Per dire, a Galilei il calcio non sarebbe piaciuto. E se sarete un giorno il presidente di una squadra di calcio e dovrete scegliere il vostro allenatore tra il nuovo scienziato e l’altro, quello notoriamente  baciato dalla buona sorte, non abbiate dubbi: scegliete il culoso. Nel calcio regna sovrana l’eterna magia dell’imponderabile. In una partita tutto può cambiare in un attimo :bastano un paio di centimetri e la palla destinata in fondo alla rete si stampa sul palo. Così accade per i destini umani

L’impegno naturalmente è importante ma più di ogni cosa contano nascita e sorte.

Giordano lo sapeva bene, per questo non rispondeva mai quando gli chiedevano una previsione su uno dei suoi allievi. Aveva visto ragazzi con il magnete tra i piedi fare mirabilie nei tornei giovanili e poi perdersi perché incapaci di reagire alle prime difficoltà. Aveva visto ragazzi prodigiosi in allenamento, sicuri e pieni di personalità, trasformarsi in anonimi comprimari durante la partita  perché spaventati dal pubblico.

Sapeva bene che in fondo calciatori si nasce , e non si diventa.

Ci vuole carattere e talento, qualità che non si possono apprendere.  Quando arriva la palla sapere già cosa  fare, pensare un attimo prima degli altri, avere sveltezza e coordinazione per trasformare in azione quel pensiero,inventare , sorprendere ogni volta gli avversari, non aver paura di rischiare un tiro al volo anche se la palla finirà in curva.

Rendere semplice ciò che è difficile, tra le diverse soluzioni scegliere la più efficace, dribblare solo se è necessario, mai fare una giocata per compiacere se stessi ma pensare sempre e solo all’utilità della squadra.

E se all’ultimo minuto ti fischiano un rigore a favore e stai perdendo uno a zero, prendere la palla, appoggiarla sul dischetto e spararla nel sette, così, senza un brivido.

La natura, si diceva. Dipende da ciò che alla nascita ti ha messo dentro il Padreterno, che è sempre molto parsimonioso in questo senso. Per questo di calciatori ne nascono pochi. Ma Osvaldo Barone era un calciatore. Lui era nato calciatore.

Giocava nel Beinasco ma Giordano sapeva che quello sarebbe stato l’ultimo anno. Troppe squadre importanti avevano già telefonato in sede per avere informazioni, troppi osservatori si erano avvicendati negli ultimi  mesi in tribuna .

Sarebbe volato via dal nido, era inevitabile. Giordano sperava solo che gli lasciassero il tempo di aiutare la squadra a vincere il titolo piemontese.

Anche la direzione del cielo era segnata. Giordano sapeva anche questo. Osvaldo non avrebbe mai accettato un trasferimento che non fosse quello da lui desiderato.

Era il sogno che lasciava ogni mattina sul cuscino quando si alzava svogliatamente per andare a scuola.

Soltanto al mister aveva osato confessare quel nome e quel nome era Juventus, la squadra della sua città, la più forte, la più nobile, la più titolata.

Era il settantacinque e lui passava ore davanti all’album Panini. Sapeva a memoria la formazione della Juve, peso, altezza e carriera di tutti i giocatori, riserve comprese.

Quando non era impegnato con gli allenamenti passava interi pomeriggi in piazzetta a giocare, a giocare ancora, a giocare sempre: a palla, pallone, pallina. Qualsiasi cosa purchè rotolasse e si potesse prendere a calci.

In realtà le dimensioni dell’attrezzo, tanto per dirla alla Giordano,  variavano a seconda del  campo  e delle porte.

Se si giocava in piazza, quindi c’era spazio e le porte erano grandi, si prendeva il pallone. Se invece si giocava nei giardini, con uno spazio esiguo e le panchine come porte, ci voleva la palla, più piccola.  Ma a volte si prendevano due cassette tra i rifiuti del mercato e si appoggiavano sul lato lungo. Quelle diventavano le  porte e allora bisognava usare la pallina da tennis.

Così per ore, mesi, anni.

Sicuramente arrivava da quegli infiniti pomeriggi la straordinaria capacità tecnica di Osvaldo.

Durante le partite con gli amici  simulava la telecronaca di Nando Martellini.  Furino prende palla a centrocampo, resiste al contatto di un avversario, la smista sulla destra alla volta di Causio, Causio si  libera di un uomo, si invola sulla fascia ed effettua il traversone, irrompe a centro area Anastasi… Anastasi…gol!  Anastasi con un gran tiro  al volo mette il pallone alle spalle di Ginulfi portando in vantaggio la Juventus. Juventus 1-Roma 0.

In quelle epiche battaglie pomeridiane lui era sempre Anastasi.

Si identificava nella sua storia di ragazzo del  sud, da Catania a Torino, alla Juventus. Gli sembrava un po’ simile alla sua, nato a Torino ma figlio di siciliani. Gli sembrava che  la scelta fosse in qualche modo inevitabile, non poteva esserci altro campione per realizzare una identificazione credibile.

In verità il suo modello era un altro, era Bettega, per lui aveva un’ammirazione sconfinata.

Il suo era un calcio chirurgico, di una pulizia assoluta. Mai una sbavatura, mai un leziosismo, mai un tocco in più. Faceva sempre e solo quello che andava fatto in quella situazione, e non sbagliava mai. Lui era il manuale del calcio.

Anche Osvaldo giocava con il numero undici ma Bettega gli sembrava troppo altolocato, troppo borghese, inavvicinabile per lui. Che era un popolano, che veniva dalla strada, come Pietro Anastasi, e allora viva Petruzzu.

La chiamata  del destino arrivò proprio il giorno dopo la partita che sanciva la vittoria del titolo regionale.

La raccomandata informava che la Juventus aveva ottenuto dal Beinasco il prestito del giocatore Osvaldo Barone per tutta la durata del torneo in notturna  Golden Boy di Abbiategrasso.

Giordano dandogli il via libera l’aveva fatto uscire dal nido; sapeva che Osvaldo era pronto a volare. Adesso c’era il cielo da conquistare.

Osvaldo pianse la sera in cui si vide addosso quella maglia. Niente di imbarazzante, non voleva farsi vedere  dai nuovi compagni; solo due lucciconi in bilico sull’orlo delle palpebre risospinti indietro appena  un istante prima che precipitassero sulle guance.

Era il sogno  che aveva lasciato il cuscino per diventare realtà.

Ma non c’è più tempo per la commozione. L’arbitro è già lì per l’appello. Quando esce dallo spogliatoio il campo è un catino di luce. Esegue gli ultimi scatti per tenere caldi i muscoli e  si comincia.

Osvaldo  gioca bene i primi palloni che riceve, i più importanti, quelli che decidono il corso personale di una partita. Gli tornano in mente i consigli di Giordano prima di partire: gioca come sai , gioca facile, non strafare.

Si sente bene, si muove con agilità e mano a mano che il tempo passa acquista sempre più fiducia.

“Bravo Barone, forza” sente gridare ogni tanto dalla panchina.

Non è la voce di Giordano ma la sente ugualmente calda. E gli fa bene.

Ecco, si trova ora a metà campo, si fa vedere smarcato, chiama la palla… troppo lunga, si distende in scivolata, vede un avversario incombere su di lui….

Un dolore lancinante mi prende la gamba e urlando mi accascio a terra. La gamba destra è piegata all’altezza del ginocchio, non riesco più a distenderla.

Un capannello di gente mi si forma attorno, osservo le loro espressioni sconvolte.

Arriva la barella, qualcuno mi butta addosso una coperta , mi caricano in fretta sull’ambulanza mentre il dolore spalanca davanti a me baratri spaventosi.

Spostarmi dalla barella al tavolo dei raggi e poi sistemare le lastre sotto la gamba è come precipitare in un abisso.

Non voglio urlare, mi sforzo di non farlo ma fitte terribili mi annichiliscono ad ogni leggerissimo movimento, ondate di dolore invadono ogni fibra del mio corpo. Alla fine piango, ed urlo. Basta, vi prego, pietà.

La liberazione arriva finalmente con il sonno; in anestesia totale riducono la frattura. Perché di questo si trattava: frattura scomposta del condilo mediale del femore destro.

Quando mi risveglio mi sembra di essere disteso sotto l’albero maestro di un veliero. La gamba sopra un paio di cuscini, informe per il gonfiore, è incassata dentro una lunga conchiglia di gesso. Vedo strani fili e tiranti che partono da un lungo tubo d’acciaio sopra di me, l’albero della nave. Il lenzuolo, teso come una vela, copre tutto.

Ho indosso solo le mutande. I calzettoni, la maglia, perfino i pantaloncini, non ritrovo più nulla, è tutto sparito, opera evidentemente di qualche infermiere del pronto soccorso a cui non è parso vero di arraffare con tanta facilità un tale prezioso bottino.

Mi spiegano che il veliero è il congegno necessario alla trazione.

Sette giorni e sette notti di immobilità assoluta, pappagallo e padella per le umilianti necessità del corpo. Infine l’operazione. Due viti incrociate dentro il femore, mezzi di osteosintesi le chiamano.

E’ passato un mese da quella sera.

Sono qui, sul terrazzino dell’Ospedale di Abbiategrasso, insieme ad altri malati, a godermi gli ultimi caldi raggi del sole che calando si portano via un altro giorno. Sono seduto su una sedia a rotelle, mi hanno detto che tra qualche giorno potrò finalmente tornare a casa.

Davanti a me gli alberi si ergono maestosi e sembrano schiacciare ancora più in basso le case e le fabbriche ma li vedo lontani, lontani come sono ora  i miei sogni.

Perché Osvaldo Barone sono io.

Il calcio per me è diventato un ricordo. D’ora in poi ne potrò solo parlare. Di ricominciare a giocare non se ne parla nemmeno.

I dottori  non mi hanno dato nessuna speranza. E’ già tanto se non rimarrò zoppo per il resto della mia vita; la frattura ha leso una cartilagine di accrescimento. Una gamba potrebbe crescere e l’altra no.

Boniperti mi ha mandato un telegramma augurandomi una pronta ripresa ma è la solita formula di cortesia. La Juventus comunque è stata perfetta.

Ha mandato più volte il dottore della prima squadra per visitarmi e spedito all’ospedale  buste piene di spille, penne, portachiavi, gagliardetti.

In tutta la storia del calcio  probabilmente sono stato l’unico ad essersi rotto il femore nel corso di una partita ma non entrerò per questo nel guiness dei primati. Rimarrò solo uno dei  tanti sfigati. Ricordate? si parlava di fortuna.

L’ho scritto io questo racconto, disteso sul mio letto, nel tentativo di rimediare almeno in parte alla monotonia  della vita d’ospedale.

Quella che ho scritto dunque è una storia vera, tremendamente vera purtroppo, ma solo ad un certo punto sono intervenuto in prima persona perché se i sogni e le speranze che coltivavo un tempo potevano essere comuni a migliaia di altri ragazzi come me così da poterne scrivere impersonalmente , il resto della storia è diventato solo ed esclusivamente mio.

Il dolore fisico è un’esperienza che non puoi dividere con  nessuno, riguarda solo te stesso. E’ un mostro orribile che devi affrontare da solo quando decide di affondare  i suoi artigli  dentro di te e strapparti la carne.

Qui sul terrazzino, di fronte a questo meraviglioso crepuscolo, rileggo ciò che ho scritto all’inizio del racconto.

C’è un momento nella vita  in cui ci si rende conto che l’adolescenza è rimasta per sempre alle spalle, che abbiamo attraversato il ponte. E questo momento coincide sempre con un dolore.

Da lì  in poi si chiudono gli occhi dell’immaginazione e si aprono quelli della realtà di tutti i giorni. E ci si accorge che in fondo non era così bello come si pensava il mondo che ci stava aspettando e che noi aspettavamo.

Anch’io ho pagato il pedaggio, anch’io ho attraversato il ponte lasciando ai  guardiani i miei sogni mentre dietro di me fitte schiere di altri ragazzi si stanno approssimando.

Per ora non vedono i mostri al termine del ponte con la mano protesa ad esigere il loro  tributo.

Ma è solo una questione di tempo.

Teodoro Lorenzo, Torino

 

La superficie del lago era uno specchio. I raggi del sole , prossimo all’imbrunire, Vi rimbalzavano sopra e trasformavano l’area colpita dalla luce in una sorta di abbacinante ed enorme diamante. Lo specchio d’acqua era circondato da alte colline , le quali non sarebbero mai riuscite ad escludere la vista di un’altissima montagna spoglia coperta dalle cicatrici di antichissimi ghiacciai.

Un movimento sulla superficie, un corpo che emerge e si immerge, emerge e si immerge.

Horis si apprestava a rientrare dal suo giro di pesca – in quel momento si trovava quasi al centro esatto del lago- , di li ad 1 ora lo aspettava un’eccitante conferenza tenuta dal suo docente di astronomia. Egli era un illustre personaggio ed insegnava nella scuola del giovane , l’ High Remote Institute . Era un eccentrico esperto nella sua materia e Horis trovava avvincenti le sue teorie sulla storia dell’universo e la possibilità di vita su altri pianeti anche perché egli stesso fin da piccolo era sempre stato estremamente affascinato dalle stelle e fantasticava spesso su intelligenze o addirittura intere civiltà che prosperavano , ignare le une delle altre , sotto i cieli di mondi remoti.

Girò su stesso e si diresse verso la riva, il bottino non era stato male, quasi 5 kg di pesce che la madre avrebbe sicuramente preparato su una graticola di  brace ardente la sera stessa, era un abile pescatore nonostante il suo fisico più gracile rispetto alla media dei suoi coetanei.

Giunto a riva , si sedette sulla sabbia e si lasciò asciugare dalla tiepida luce del sole  , poi salì sul veicolo, mise in moto ed imboccò la strada che lo avrebbe riportato in città.

– E’ sicuro di inserire questo argomento nella conferenza di oggi signor Kov?- chiese il giovane collega al professore. – Certo mio caro Joben – rispose l’anziano docente – cosa dovrebbe esserci di male?-.

Joben era insegnante di fisica all’ High Remote Institute e provava una stima incondizionata nei confronti dell’illustre professor Kov , autore di numerosi saggi sulla storia del cosmo , sebbene alcuni di essi fossero  stati considerati eccessivi e fuorvianti da una certa parte del mondo accademico.

– Le sia chiaro – continuò Joben – lei sa quanto i suoi scritti mi abbiamo sempre appassionato professore , il fatto è che il nuovo preside , pur essendo senza dubbio un individuo brillante , ha una mentalità analitica e strettamente scientifica . In poche parole , vuole che le lezioni in questo istituto vengano tutte condotte sulla base di fatti comprovati e non ha molta simpatia per le speculazioni e le ipotesi … ehm.. diciamo così… più fantasiose- .

– Fantasiose? – sbottò Kov – mi stupisco di lei signor Joben- , proprio lei che mi conosce cosi’ a fondo dovrebbe ben sapere che le mie teorie si basano su ipotesi ragionevoli e non su stupide speculazioni !- .

– Mi scusi professore, non intendevo offenderla – disse il giovane – spero solo che il preside Rej non abbia nulla da obiettare – .

– Vedrà, vedrà mio timoroso amico , il signor Rej rimarrà anch’egli affascinato dalla mia lezione di oggi pomeriggio – , cosi’ dicendo il professore si congedò.

-Accidenti Horis , hai fatto il pieno oggi!- disse la madre quando lo vide entrare con la grossa sacca , – c’è da mangiare per una dozzina di noi! – . – Va bene mamma –  , rispose lui sorridendo – vorrà dire che inviterò qualcuno. – Si certo , tanto tocca a me pulire poi – finì lei.

La mamma di Horis , Leena , era amorevole e premurosa con il figlio , aveva trovato nell’amore per il suo cucciolo  , l’unico antidoto contro le occasionali ( ma giornaliere ) fitte di dolore che ancora la tormentavano dopo la morte del marito , avvenuta appena 1 anno e mezzo prima.

Vivevano della sua pensione da vedova  , dei suoi lavoretti occasionali e anche di quelli del figlio ( Horis era un giovane giudizioso che trovava sia il tempo per studiare sia per aiutare la madre ) . La loro non era la miglior vita possibile , ma neanche tanto male.

– Io vado mamma, il professor Kov ci aspetta , ci vediamo stasera – . – Va bene caro a dopo allora , si avvicinò al figlio e sfregò la propria guancia sulla sua , in segno di affetto.

La sala della facoltà di astronomia era gremita -probabilmente la metà dei presenti era li per sincero interesse e curiosità  e l’altra metà per farsi beffe del bizzarro personaggio che di li a poco sarebbe intervenuto- . Lungo il perimetro circolare erano disposti moltissimi pali di zinco. I posti in prima fila erano riservati ai giornalisti locali -quasi tutti , chi più e chi meno , annoiati e indisposti per il fatto di dover essere lì a prendere appunti su una tediosa lezioncina di scuola da riportare sul quotidiano della città invece di occuparsi di faccende dal loro punto di vista molto più importanti-. Immediatamente dietro di loro si trovavano insegnanti e alunni della scuola, sul lato destro -sulla parte destra , essendo un cerchio parlare di lato non sarebbe stato corretto – un gruppo di scienziati ed esperti in vari rami scientifici quali fisica, astronomia, biologia , matematica ecc..

La parte sinistra era occupata da uomini di culto -il preside teneva molto ai rapporti con la grande chiesa unita – tra i quali una decina di esponenti del movimento ultraconservatore dei “portatori di luce” , un gruppo di religiosi che sosteneva senza riserve la teoria del “fabbricatore” ,  colui che da solo creò il mondo , l’universo e praticamente la realtà per come la conosciamo.

Per come la vedeva Horis erano soltanto degli invasati del cazzo.

Il  giovane entrò nel grande spazio circolare e si guardò attorno rapito, era la prima volta, da quando frequentava l’istituto, che vedeva la sala quasi completamente piena .

-Ehi Horis da questa parte ! – . Era Rog , un suo compagno di classe nonché il suo migliore amico

-Ciao tesoro , mi hai tenuto il posto? – scherzo’ Horis con il compagno di corso . – Falla finita smilzo, ricordate l’accenno al gracile fisico del nostro protagonista a inizio racconto? , prendi posto e sentiamo questo matto cosa ha da dire- – Kov non è una matto! – rispose Horbis stizzito –  Probabilmente è più intelligente di tutti i presenti messi assieme !-

– Sarà… – borbottò Rog che evidentemente non condivideva la stima che l’amico provava verso il professore.

Comunque sia Horis prese posto e attese l’inizio della conferenza.

-Ha visto che cosa le dicevo?- disse Joben al docente poco prima di salire sul palco , guardi Rej chi ha avuto il coraggio di invitare per metterle i bastoni fra le ruote, quei pazzi seguaci del fabbricatore! –  è abbastanza ovvio che dei membri ultraconservatori di una setta religiosa non sia ben visti all’interno di un covo di scienziati . – Stia tranquillo mio buon amico, so badare a me stesso, rispose il vecchio-. Joben vide nel sorriso di Kov un misto tra sincera tranquillità e una punta di perfida soddisfazione , quella che si prova , a volte , nel cercare di spazzare via tutte le dogmatiche certezze di qualcuno che non si è mai preso il disturbo di mettere in discussione , nemmeno per un istante , ciò di cui è convinto .

Il primo a prendere possesso del palco fu il preside Rej .

Alla sua comparsa ci fu una cacofonia di approvazione ed egli attese compiaciuto un minimo di silenzio per poter prendere la parola . Si appoggiò l’amplificatore sulla testa ed annunciò: – Signore e Signori , sono compiaciuto di tanta affluenza , prima di iniziare voglio dare il benvenuto a tutti voi, in particolare a coloro che vengono da fuori come gli illustri scienziati alla mia destra ( rumore ) e gli egualmente illustri uomini di culto alla mia sinistra ( rumore ). Ora, essendo io un tipo di poche parole , vengo subito al dunque ed ho il piacere di introdurre il professor Erki Kov, una persona stimata , di notevole intelligenza ed anche di notevole eccentricità  – disse strizzando l’occhio, non con complicità ma , vista la scarsa simpatia che correva tra i due , sicuramente con malizia per la conferenza di oggi intitolata “Storia inedita dei pianeti del sistema solare”

Il professore salì sul palco e prese la scena , dopo che il preside si scostò per lasciarlo passare in modo non poco infastidito  : – Benvenuti a tutti e grazie di essere qui , non credevo che avrei avuto tanto successo di pubblico-  risate-. Il docente iniziò la conferenza parlando della storia del sole e di quella del nostro pianeta , ampliando il discorso anche all’intero sistema solare.

Mano mano che il discorso proseguiva in sala scese quel silenzio tipico di quando si ascolta un individuo parlare di un argomento per il quale non è tanto l’interesse per l’argomento stesso a catturare l’attenzione, ma la competenza dimostrata da chi ne parla. In altre parole , alcune persone starebbero a sentire per ore qualcuno parlare di una cosa di cui loro non sanno nulla, solamente per la capacità del narratore di coinvolgerle e fargli notare che lui invece ne sa , eccome.

Horbis ascoltava rapito le sue parole di certo non immaginando che il bello doveva ancora venire.

-Come tutti noi sappiamo, la vita sul nostro pianeta è iniziata circa 5,5 miliardi di anni fa , quando si crearono le condizioni per lo sviluppo della stessa. Ora , non voglio annoiarvi con termini troppo scientifici ma , grossomodo, il nostro pianeta era freddo e inospitale, completamente ghiacciato, la temperatura in superficie era di quasi 180 gradi sotto lo zero. Come immaginate la vita in queste condizioni ( o perlomeno la vita per come la conosciamo noi ) è impossibile.

– Ma accadde qualcosa –

Giungevano borbottii dalle fila dei religiosi e Horbis era convinto che provenissero dai fan del fabbricatore , quei selvaggi non vedevano l’ora di trovare nel discorso dell’amico qualcosa che non gli andasse a genio per poter intervenire  – Ho idea che da qui a poco si creerà un dibattito molto acceso – disse Rog – il migliore amico di Horbis . – E allora? A me piacciono i dibattiti – rispose Horbis, a meno che per dibattito non si intendeva un’ insana e inopportuna discussione.

Il professore notò con piacere che aveva catturato l’attenzione di tutti e continuò: – il sole esaurì l’idrogeno del suo nucleo trasformandolo tutto in Elio e la nostra cara stella divenne una gigante rossa, talmente grande da avvicinarsi al nostro pianeta e riscaldarlo a sufficienza per trasformare , nel corso del tempo e dopo svariate reazioni chimiche ,  il ghiaccio in un liquido adatto per le condizioni di nascita e sviluppo della vita . Acqua signori.

-Che prove ci sono a sostegno di questa tesi? – intervenne Fregh , uno dei portatori di luce. “ Ecco , ci siamo , è intervenuto uno degli scervellati” – penso’ Joben tra divertimento e timore –

– Anni e anni di studi mio buon amico , teorie basate sulla conoscenza della chimica, della fisica e sull’analisi complessa di modelli astronomici comprovati- rispose Kov.

– Mah io credo che voi scienziati forniate sempre prove e teorie molto fumose  – continuò il tizio.

– Beh , sono comunque più plausibili della teoria di un super essere che ha creato tutto dal nulla , vogliamo parlare delle vostre di prove? – , ad intervenire era stato Jiw Bui , astrofisico dal carattere molto irruento.

– Ci siamo amico mio ! – disse Rog sgomitando l’amico. Ad Horbis non piaceva per nulla la piega che aveva preso il discorso , lui era sempre stato per i confronti civili e pacifici , qualsiasi forma di ospitalità lo faceva stare male.

– Come si permette di parlare cosi?- disse un altro membro della “setta” , lei è una persona irrispettosa!-

– Voi siete irrispettosi verso la scienza , verso l’unico vero modo di scoprire la verità ! Stavolta era stato Joben ad intervenire, non senza uno sguardo di rimprovero del relatore, non avrebbe permesso che la conferenza del signor Kov diventasse una sceneggiata.

– Signori , basta così vi prego! – , il preside aveva preso possesso dell’amplificatore  e stava cercando di moderare la folla , – non tollero questo tipo di comportamento da nessuno! – continuò , esigo che tutti i presenti in sala lascino finire l’esposizione del professore diamine!-

La folla si placò un poco ed Erki Kov potè proseguire nella sua esposizione: – come stavo dicendo , miliardi di anni fa la vita comparve sul pianeta e….. –

“ Sei contento pallone gonfiato?”  stava pensando Joben col pensiero rivolto verso il Signor Rej , “ ho visto il tuo sorrisetto compiaciuto quando il professore è stato interrotto, avrai anche incantato la folla col tuo intervento da maschio alfa , ma io so che sei solo un viscido ipocrita di merda”

-……. e dopo 2 miliardi e 500mila anni di evoluzione , eccoci qua, esseri complessi che discutono il miracolo della creazione – , lo disse con una punta di sarcasmo che non sfuggì ne agli scienziati ne tantomeno ai religiosi.

– Ma non è questo il punto – proseguì – il punto è che ho seri motivi di credere che il nostro non sia l’unico pianeta del sistema solare che sia stato capace di ospitare una vita complessa-

Brusii tra la folla , a Horbis parve di sentire dei commenti tipo “ma siamo sicuri che prima di iniziare a parlare abbia bevuto solo acqua ..” e “questo ha letto troppi romanzi.”

-…. o meglio sono quasi certo che forme di vita evolute , se non addirittura una o più civiltà abbiamo abitato , centinaia di milioni di anni prima della comparsa della vita sul nostro mondo , l’estinto pianeta H501 –

– Che cosa?- stavolta l’interruzione veniva da Grekl , uno stimano astrofisico della Piana D’argento – H501? – come può un ammasso di roccia e carbone, un tizzone di brace rovente che vaga nei dintorni del nostro sistema aver ospitato la vita ? Cazzo , lo chiama anche pianeta! Al massimo è un blocco di minerali! –

Horbis conosceva l’eccentricità del professore e le sue teorie rivoluzionare, ma un conto era averle esposte a volte ai suoi studenti al termine delle lezioni , poco prima di congedarsi , quasi come una confidenza , un racconto meraviglioso  , tutto un altro paio di maniche era declamarle davanti a tutti e alla presenza di giornalisti ( seppur locali) e uomini di chiesa , i quali ora si dimenavano più di un branco di pesci senza acqua.

Il preside Rej era allibito , ma in fondo era anche contento , finalmente Kov si stava distruggendo la reputazione con le sue mani. L’odio per il docente era sia accademico che personale , accademico perché Rej non sopportava che quel tale , così stravagante e bizzarro , avesse un quoziente intellettivo non di poco superiore al suo , personale perché la Signora Kov , un tempo era stata la compagna di Rej.

-Se posso rispondere alla sua domanda- disse il relatore , il nostro sole, come lei di certo saprà , non era la gigante rossa che tutti oggi conosciamo come tale bensì una “nana gialla” . Aveva una massa di circa 1,9890 X 10 alla trentesima kg , era quindi notevolmente più piccolo di oggi e la sua temperatura in superficie era di circa 5770 K. Secondo delle recenti stime  che mi sono permesso di fare , sempre che i signori qui presenti non ne facciano un cruccio personale ,  ( stava cominciando a spazientirsi perché non tollerava dibattiti come quello nei quali una delle due parti in discussione non aveva un minimo di collaborazione intellettuale )  , esso si trovava , in quella fase a circa 150.000.700 kilometri da H501. Ho motivo di credere che tale distanza , unita alla composizione della nostra stella , abbia fatto si che su tale pianeta si sia sviluppata la vita e forse una civiltà evoluta  , perché no , addirittura simile ( per così dire ) alla nostra –

– Eresia!- tuonò stavolta Fregh  – non le permetto di parlare in questo modo! –

– NO! – tuonò stavolta il professore – sono io che non le permetto più di interrompere la MIA conferenza , sono stato chiaro?! –

Il rettore era ammutolito , cosi come anche Joben e Horbis , forse gli unici veri seguaci di Kov , il docente era sempre stato un esempio di calma e ragionevolezza , raramente , anzi forse mai , era capitato loro di vedergli perdere le staffe in quel modo .

Per fortuna anche il portatore di luce era stato momentaneamente zittito e questo consentì al professore di proseguire.

-Inoltre volevo aggiungere – continuò con quel minimo di calma ritrovata , e sia ben chiaro che queste sono solo mie ipotesi , mie umilissime teorie e non obbligo nessuno a farne un dogma  – che tra la distanza interposta tra il sole e H501 vi siano stati forse un altro o due pianeti che sono stati disintegrati dal passaggio della nana gialla a supernova dei quali non abbiamo nessuna traccia oggi e sui quali , forse , un paio di miliardi di anni ancora più indietro , possono essersi sviluppate le condizioni necessarie alla vita.

– Professore  – intervenne finalmente Rej ( e non senza la solita punta di soddisfazione )   , io non approvo di certo le reazioni poco ortodosse rispetto al contesto in cui ci troviamo , da parte di alcuni membri della platea , lei però sta mettendo in discussione , senza reali e tangibili prove , il fatto che l’unico pianeta del sistema solare su cui sia mai stata presente la vita , o meglio la vita complessa , a quanto ci è dato di sapere , è il  nostro mondo , Titano –

– Si , infatti , su nessun altro pianeta del sistema solare , è stato trovato nulla fino ad oggi – intervenne un altro astronomo – nemmeno su quello in cui riponevamo più speranze: il nostro pianeta madre , Saturno , di cui noi siamo solo un satellite -.

– Nessun grande passo è mai stato mosso dalla scienza senza che prima qualcuno abbia osato idee che , nel momento in cui furono espresse , non fossero sembrate folli! – disse il relatore stavolta alzando la voce

– Basta! – io me ne vado! – tuonò un anziano del gruppo dei religiosi staccandosi dal palo di zinco sul quale , fino a qualche momento prima era saldamente ancorato grazie alle micro ventose presenti in maniera uniforme sulla liscia pelle argentea-

– Signori ora basta ! – disse di nuovo il preside , ormai però il dibattito si era trasformato in una sorta di lite

– No, basta lo dico io! – terminò il professore staccandosi l’amplificatore dal cranio .

L’amplificatore ( nome tecnico : diffusore ad ampio spettro di onde cerebrali ) era uno strumento che permetteva ad un solo essere di gestire e comunicare telepaticamente in caso fossero presenti in maniera simultanea più di dieci soggetti impegnati nella medesima conversazione.

Gli abitanti di Titano infatti comunicavano solo attraverso onde mentali , il termine “voce” , per questi esseri senza ne bocca ne orecchie stava ad indicare il tono e la frequenza di tali onde.

La situazione era ormai ingestibile , ognuno diceva la sua senza rispettare ne tempi ne tantomeno le buone maniere, ma non tutti erano contrariati della cosa.

I giornalisti erano in parte stupefatti ed in parte entusiasti di poter dare una nota piccante alla tiepida notizia della conferenza la quale , senza un tale e inaspettato epilogo , sarebbe stata sicuramente tediosa a non finire.

Dato che nella sala stava per scoppiare un putiferio, Horbis lasciò l’ancoraggio del suo palo di zinco ed uscì all’aperto.

Un osservatore esterno e totalmente ignaro della realtà di Titano, ovviamente, affacciandosi nella sala conferenze , non avrebbe visto  una folla in preda a grida e non avrebbe sentito alcun frastuono, per via della telepatia come solo mezzo di comunicazione, ma dinnanzi ai suoi occhi si sarebbe palesato un gruppo di creature, tra le quali alcune intente a trascinarsi da una parte all’altra della sala lasciando una sottilissima patina semi-trasparente al loro passaggio e altre che si dimenavano ancora avvinghiate al palo che fungeva loro da sostegno.  Tali esseri muovevano freneticamente strani arti e si sbracciavano, anche se di braccia non si poteva parlare, i loro occhi umidi pulsavano come in preda ad una strana eccitazione , ma la cosa incredibile era che tutto ciò , per chi avesse avuto orecchie umane , era accompagnato da un quasi totale silenzio , spezzato solo da brevi schiocchi e rumori acquosi.

Il giovane rimase eretto sulla sola grossa protuberanza che sorreggeva un corpo glabro e lucente , le 4 lunghe appendici distese lungo il corpo.

Contento di aver lasciato la frenesia della sala conferenze , escluse mentalmente la rissa verbale che avveniva dietro di lui sì, anche questo erano in grado di fare, e si mise ad osservare il cielo.

L’enorme massa di Saturno con i suoi anelli ghiacciati era ben visibile sulla volta grigio-celeste , ed Horbis penso’ a H501 , quel misero ed inospitale resto di pianeta  e non poteva certo immaginare che H501 altri non era che l’estinto corpo celeste che , innumerevoli millenni prima , veniva chiamato Terra.

Pensò anche che sarebbe stato bello se le parole del professore fossero state vere , se li’ , a quell’enorme distanza , miliardi di anni prima , qualcuno si fosse posto le sue stesse domande.

 

Note:

questo racconto ( spero che sia abbastanza riuscito da potersi almeno definire tale ) mi venne in mente una sera , mentre ero supino sul letto e per caso capitai su un canale che dava un documentario sui pianeti del nostro sistema solare. Nel filmato alcuni scienziati ipotizzavano ( o meglio azzardavano ) che quando il Sole muterà la sua forma in Gigante Rossa , distruggerà sicuramente Venere e Mercurio, ma la Terra potrebbe rimanere li’ dov’è ( ovviamente il calore ucciderà tutte le forme di vita e diventeremo solo un inutile roccia ) . Ipotizzavano anche che , aumentando di massa , il sole , avvicinandosi ad esempio a Titano , potrebbe modificare radicalmente la temperatura , la morfologia e la composizione del satellite di Saturno , sul quale , potrebbe in quel caso , nascere la vita , anche grazie allo scioglimento dei suoi ghiacciai .

Questo scenario sarebbe comunque “attuabile” circa 5 miliardi e mezzo di anni nel futuro

Ho pensato che sarebbe fantastico se sarà cosi’.

Alessandro Maramici, Ladispoli

 

 

Ore 17:33

Tu che scavi, scavi, scavi..
E dopo aver creato il buco lo colmi di ebbrezza, miseria e squallore.
La personificazione del luogo che diventa compagno. L’incessante desiderio di fuggire, l’amarezza della lontananza, l’ansiogeno ritorno e ancora la constatazione dell’involuzione che delude e, al contempo, placa.
Il rinnovamento agognato per anni, ti ha reso quasi aristocratico.
Ben abbigliato, pulito e pettinato; te ne rimani lì a fissarci tutti. Increduli e invidiosi critichiamo la tua parvenza. Ma cosa possiamo fare se pochi anni addietro eri luogo di stolti e puttane.
Fetido, sporco e denigrato. Ma i figli tuoi son cresciuti sgomitando, cercando di lavare via l’odore.
Si può cancellare l’odore di un padre?
Perché, sì, i diversi continuano a rimanere tali pur confondendosi nel mondo e associandosi a chi non li riconosce per omologarli alla società dell’OVVIO.
L’andirivieni quotidiano ha il fine di ricongiungerci.
Allo STOP: fermi tutti! Questa è terra santa!
Benedetti da un Dio che ci ha plasmati più forti e caparbi.
Meritevoli di esserne usciti indenni e colti.
Colpevoli di non averti apprezzato abbastanza e nel giusto tempo.
Ostinati nel rimediare.
Il vicolo incanala la corrente come a volerci spazzar via. E se piove sale al naso la terra. Un acre effluvio di vicende passate e sepolte. Dove il vecchio redarguisce il giovane pur non essendo uno stinco di santo.
La regola della sopravvivenza salva la vita nell’omertà del “non detto”. Mentre “il detto” è cronaca rosa spifferata dalla loggia dirimpetto con fare eloquente misto a diffidenza verso la discrezione dell’interlocutore. L’arte della strada mescolata alla retorica.
Una filosofia folcloristica che porta il tuo nome: U QUARTÌ.

È arrivata la stagione invernale in Sila, la foresta si colora di bianco e le temperature si abbassano vertiginosamente fino a scendere sulle vette più alte anche a -20°.

Periodo difficile per le varie specie vegetali e animali che popolano l’altopiano, eppure i paesaggi mozzafiato lasciano il visitatore senza parole, l’aria è pura e la calma regna sovrana.

Nel Parco Nazionale della Sila, come in tutte le stagioni, anche in quella invernale è possibile praticare molte attività tra le quali sciare, fare trekking, sci di fondo, perdersi nella natura sconfinata per fare qualche scatto o addirittura incontrare specie importanti.

Di inverno l’animale più diffidente, ossia il lupo (Canis Lupus Italicus), è possibile osservarlo, data la mancanza di cibo e le difficoltà che porta la neve, perché si avvicina di più ai centri abitati, inoltre è possibile osservare le sue impronte lasciate sul manto nevoso.

Oltre al lupo sicuramente è possibile osservare altre specie quali cervi, caprioli, cinghiali, la comunissima volpe.

Le specie animali, fonte di grande attrazione, abitano quello che, specialmente nel periodo in questione, sembra essere un paesaggio nordico che ispira la mente e il cuore, patrimonio di inestimabile valore naturalistico.

Dagli impianti di risalita, ben tre presenti nel comprensorio dell’altopiano della Sila, è possibile ammirare una natura spettacolare con la possibilità di osservare nelle giornate più limpide la costa ionica e tirrenica, oltre a poter addirittura vedere molto chiaro il vulcano Etna in Sicilia e le isole Eolie che si ergono sul mar Tirreno, questo specialmente dall’impianto di Camigliatello Silano (CS).

Nella zona del Cupone, a ridosso del lago Cecita, comune di Spezzano della Sila (CS), oltre a poter visitare il museo e gli animali presenti nelle aree recintante, sono presenti vari percorsi dove è possibile praticare il trekking e immergersi in boschi storici.

A Silvana Mansio, a pochi chilometri dal lago Arvo nei pressi di Lorica, spesso vengono avvistati branchi di caprioli, mentre nell’area circostante il lago artificiale di Ariamacina è presente un avamposto per l’osservatorio degli uccelli presenti tra i quali rapaci notturni e tante specie di uccelli acquatici migratori e non.

Il Parco Nazionale della Sila è un posto magnifico, la “selva” per antonomasia, così come la definivano gli antichi romani, dove è possibile godere in tutte le stagioni di una natura selvaggia e variegata, dove è possibile sciare a pochi passi dal mare, dove le specie animali e vegetali autoctone e non possono godere ancora di aree dove l’uomo non è presente, dove la notte sulle vette più alte, quando la luna non è presente, è possibile ammirare la Via Lattea anche ad occhio nudo.

Comunque devo dire che sono d’accordo con mia moglie, quando bisogna scegliere un albergo dobbiamo chiedere che tipo di colazione viene offerta.
Lo so che per qualcuno sembra un’esagerazione, ma per chi come me va in vacanza per pochi giorni all’anno, come si comincia la mattina ha un valore imprescindibile.
E quest’anno nonostante abbia trascorso solo pochi giorni in Sila sono stato costretto a dormire in due posti differenti distanti qualche chilometro.
Primo albergo, bello e accogliente, la colazione proposta: fette biscottate, marmellata in vaschette di produzione industriale, croissant chissà di quale marca, Nutella, succo di arancia industriale, latte a lunga conservazione.
In Sila il latte a lunga conservazione? Ho chiesto all’albergatore mi scusi fuori ci sono migliaia di mucche che pascolano e voi mi fate bere il latte a lunga conservazione?
Abbiamo preso armi e bagagli e ci siamo trasferiti subito.

Pochi chilometri percorsi in auto ed ecco un altro albergo, anche questo bello e accogliente, e arriviamo alla colazione: fette di pane casareccio, marmellate fatte in casa, burro artigianale, spremuta di arance di Corigliano, latte fresco della centrale del latte, e soprattutto la pitta ‘mpigliata. La pitta ‘mpigliata impossibile da spiegare in poche parole la sua bontà un dolce buonissimo con noci, uva passa, miele, una cosa meravigliosa!
Devo dire c’era pure una frittata, della soppressata e del caciocavallo… ma io sono siculo e faccio una colazione tradizionale all’italiana.
Comunque abbiamo cominciato la colazione alle 9 e abbiamo finito alle 11,00.
Che bellezza la Sila. Paesaggi infiniti, accoglienza, buona cucina, un vero e proprio tesoro ancora tutto da scoprire.
Dimenticavo, sulla strada del ritorno abbiamo portato al primo albergo una cesta con i prodotti che abbiamo mangiato a colazione giusto per “dare il buon esempio”.
La colazione perfetta …chi ben comincia…

Vado in Sila da più di 30 anni, è cambiata molto dalla prima volta, adesso ci sono tanti ristoranti, alberghi, servizi vari, però una cosa non è cambiata: il suo panorama.
Ancora adesso è possibile vedere queste mandrie di vacche podoliche che vagano per le valli oppure stanno distese nei campi silani. Arrivano qui ogni anno nel periodo tra maggio e giugno per poi riscendere al mare nel mese di settembre, la cosiddetta transumanza.
Nonostante la disponibilità di mezzi di trasporto, ancora adesso molti accompagnano le mandrie attraverso gli antichi tratturi o come le chiamavano i pastori, le vie pubbliche.
Un’esperienza veramente unica che secondo me almeno una volta nella vita va vissuta in prima persona. Superato il primo momento di entusiasmo quando si parte nella parte più pianeggiante che di fatto è una semplice escursione a piedi, il percorso diventa molto impegnativo.
La fatica e le difficoltà via via aumentano.
Le vacche si inerpicano per sentieri irti e a volte pieni di spine, con un passo per niente lento, difficile per chi non è allenato stargli dietro.
Dopo un po’ alla fatica subentra una sorta di euforia bisogna però lasciarsi andare, dimenticarsi le comodità e cominciare ad apprezzare anche i piccoli dolorini dovuti sia dalla tensione muscolare che dalle punture di spine, il caldo, le mosche che ti ronzano attorno, la polvere che viene smossa dal passaggio delle mandrie.
Di fatto bisogna entrare in perfetta sintonia con le mandrie e vedere questo percorso come una sorta di “ascensione spirituale”. Questo è ciò che ha rappresentato per me la breve transumanza che ho percorso con alcuni pastori del Marchesato crotonese.

Uomini di poche parole, grandi lavoratori, che mi hanno accolto con curiosità e un po’ di diffidenza iniziale dovuta al fatto che nella prima ora sono stato sempre a lamentarmi. Poi, dopo aver compreso lo spirito del viaggio, ho cominciato a partecipare alla transumanza non da semplice spettatore ma da aiutante “mandriano”, allora tutto è cambiato per loro e per me soprattutto.
Ho imparato che certe esperienze, per apprezzarle fino in fondo, vanno vissute in prima persona e non da semplici spettatori.

Il mio incontro con la Sila lo devo ad un certo Gioacchino, conosciuto nei banchi di scuola al liceo classico. Come sempre i migliori amici ci vuole un po’ di tempo per farteli diventare simpatici.
Gioacchino è uno di questi, sempre un po’ cazzilluso, controcorrente, visionario, però in grado di farti fare dei viaggi fantastici.
Proprio per seguire le sue tracce quest’anno ho deciso di portare tutta la famiglia nel Parco nazionale della Sila dove Gioacchino da Fiore è nato circa nel 1130 e sì perché dimenticavo di presentarvi come si deve il mio amico Gioacchino: abate, teologo, scrittore, profeta pittorico, veggente, ecc.
Un viaggio quindi a metà tra vacanza e studio.
La prima meta è Jure Vetere ho solo un giorno a disposizione e voglio cominciare questo viaggio dal luogo più rappresentativo dove lui ha costruito il suo monastero, di cui restano poche tracce, per cercare di comprendere al meglio il percorso della sua esistenza e ricerca spirituale.
Lungo il percorso ci fermiamo a Celico per visitare la casa natia, bellissimo sul citofono c’è scritto “Gioacchino da Fiore” quindi viene spontaneo suonare e la cosa bella è che si affaccia una signora che ci fa accomodare per visitare la casa dove sono ancora presenti alcuni cimeli insieme ad altri elementi della religione cattolica.
Una guida turistica veramente inusuale quanto affascinante.
Devo dire non è che in paese si siano sforzati particolarmente a valorizzare questo concittadino illustre, comunque nella filosofia del viaggio ci sta perché il fatto di non trovare celebrazioni particolari fa rimanere intima la vacanza.
Da qui siamo quindi ripartiti per Jure Vetere. Di proposito abbiamo deciso di percorrere la vecchia strada provinciale, un susseguirsi di curve e di paesaggi entusiasmanti.
Mai come in questi casi benedette siano le curve, che non solo ti obbligano a camminare piano ma diventano il pretesto per alimentare la “suspense turistica”.
Arrivati a Monte Scuro, dove si imbocca la strada delle vette (percorribile in macchina quando non c’è la neve), ci siamo quindi diretti a Lorica dove abbiamo visitato il romitorio in cui Gioacchino faceva tappa lungo il percorso che lo portava a Jure Vetere.
Da qui costeggiando il lago Arvo siamo arrivati quindi a destinazione. Sono solo dei resti quelli che sono sopravvissuti al tempo e all’incuria, ma trasmettono sicuramente molta energia.
Non per niente questo luogo è spesso teatro di temporali con lampi e tuoni impressionanti.
Da qui si vede il mar Jonio, l’oriente.
Certo, un posto non scontato per erigere un monastero e ripensando agli scritti, ai disegni di Gioacchino penso che questo luogo celi importanti storie ancora sconosciute.
Gioacchino da Fiore una storia ancora tutta da scrivere.

Io dopo che sono stata nel Parco Nazionale della Sila sono arrabbiatissima, sì perché non è possibile che io, calabrese della zona della Costa Viola, debba scoprire la bellezza di questi luoghi al quarantesimo anno di età.
Devo ringraziare per questo mia figlia che ha organizzato la mia festa di compleanno a Villaggio Mancuso, altrimenti non avrei avuto modo di conoscere uno dei posti più incantati che abbia mai immaginato.
E dire che quando mi ha detto andiamo in montagna ho subito pensato di darmi malata, poi un po’ per quieto vivere un po’ rassegnata ho accettato, obbligando però tutta la famiglia a fare una tappa a Taverna per visitare il museo dedicato a Mattia Preti.
Ho pensato visto che vado a rompermi le scatole in un posto ameno di montagna almeno posso ammirare le opere di Mattia Preti e pazienza.
Quando poi siamo ripartiti da Taverna per raggiungere Villaggio Mancuso ho così stressato la compagnia lamentandomi di avermi portato in montagna al freddo, che penso mi avrebbero volentieri abbandonata sul ciglio della strada.
A dirla tutta il tratto di strada da Taverna a Villaggio Mancuso non è stato per niente propiziatorio, anzi ancora peggio, una salita impervia e piena di curve. Per non continuare a lamentarmi ho deciso di chiudere gli occhi e dormire.
E qui succede l’inaspettato. Ho sentito la macchina fermarsi e mio marito dire svegliate vostra madre che siamo arrivati.
Ho aperto gli occhi e davanti a me un paesaggio fantastico, fantastico nel vero senso della parola. Dove mi avete portato, in una fiaba di Andersen? Quanto ho dormito? Siete sicuri che siamo in Calabria?

Certo! Ha risposto mia figlia. Siamo a Villaggio Mancuso e davanti a noi c’è l’albergo delle fate.
Un luogo da mille e una notte, tra boschi di pino laricio e casette in legna stile borghi della Svizzera, tra fate e folletti che per l’occasione si sono travestiti da miei familiari…
È stata una delle giornate più belle della mia vita, che mi ha fatto rendere conto di quanto non conosco della nostra terra e di come gli stereotipi mi hanno condizionato in questi 40 anni.