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Parco Nazionale del Pollino

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Mormanno rappresenta uno dei paesi simbolo del Parco Nazionale del Pollino. È in provincia di Cosenza, ma è una delle porte di congiunzione con la Basilicata e con la montagna di quel versante, circondato dalle vette dei monti Palanuda, Velatro e Cerviero. Quattro sono, invece, i colli sui quali si estende la comunità mormannese: La Costa, San Michele, Casalicchio e la Torretta. Arrivare a Mormanno significa fare un viaggio fra natura, storia, arte e gusto. Fu proprio qui che, nel 1866, vi furono scontri molto accesi dopo l’Unità d’Italia: c’era, infatti, l’intento della popolazione di restaurare il regime borbonico che tanti preferivano alla neonata nazione. Ma è proprio qui che sorge uno dei monumenti regionali più importanti che ricorda i soldati uccisi nella Prima guerra mondiale: il Faro Votivo ai caduti della Calabria che è un vero e proprio simbolo di riconoscimento per il paese.

Arrivata a Mormanno, ho potuto vedere l’imponente Duomo di Santa Maria del Colle che, all’interno, custodisce tre portali con gli stemmi delle confraternite del paese: quella del Santissimo Sacramento, quella degli Agonizzanti e quella delle Anime del Purgatorio. Qui è tutto un fiorire di architetture religiose, basti pensare al Santuario della Madonna della Catena o alla Chiesa della Madonna del Suffragio e a tutte le piccole cappelle edificate in tutta Mormanno.

C’è, però, un altro “monumento” importante che caratterizza il paese e che viene realizzato nelle case di tantissimi mormannesi. Non è fatto da pietra e cemento, bensì di pasta frolla. È il bocconotto (o bucconotto), dolce tipico di queste latitudini. Già il nome invita a mangiarlo in un sol boccone per la sua bontà e per le sue ridotte dimensioni che, in più, gli permettono di essere conservato a lungo. La ricetta tradizionale lo vuole farcito prevalentemente con la mostarda e, in secondo ordine, con le marmellate. Certo, oggi si può gustare anche con la crema al cioccolato, ma con quella buona pasta frolla che lo compone poco importa cosa ci sia dentro perché tanto sarà sempre una gioia per il palato. Nelle case di Mormanno è il dolce della festa, anche se la “produzione” raggiunge picchi maggiori durante le feste natalizie proprio perché è simbolo di accoglienza e tradizione. È famiglia. E se si vuole appartenere alla famiglia di Mormanno non si può non dargli un morso dopo aver visitato il paese e la sua montagna in lungo e in largo.

 

 

 

 

Un borgo medievale nella bellezza naturale del Parco Nazionale del Pollino. Siamo a Morano Calabro che, non a caso, viene considerato uno dei centri più importanti della parte calabrese della grande montagna. A certificare che sia un posto consigliato come meta turistica è arrivata, nel 2003, la Bandiera arancione che lo ha fatto entrare fra “I borghi più belli d’Italia” scelti dal Touring Club Italiano. Il motivo è semplice ed è da ricercare nel suo patrimonio e artistico. In mezzo fra Basilicata e Calabria, Morano deve molto della sua fortuna, in epoca antica, alla posizione che lo colloca nell’alta valle del fiume Coscile. Questa conformazione ne ha fatto una sorta di roccaforte amata dai signori dei casati calabresi, soprattutto dai Sanseverino di Bisignano.

Nella Morano di oggi i luoghi da visitare sono tanti. Il percorso può iniziare dalla Chiesa arcipretale dei Santi Pietro e Paolo la cui costruzione risale all’anno Mille. All’esterno il nostro sguardo è catturato dal campanile quadrangolare, all’interno dall’affresco che raffigura la Vergine delle Grazie. Sempre dentro alla chiesa possiamo vedere un sarcofago appartenente alla famiglia dei Fasanella e la Croce processionale in argento donata da Antonello de Saxonia. All’interno della chiesa si possono anche osservare quattro statue in marmo di Carrara, raffiguranti santi, realizzate dal padre di Gian Lorenzo Bernini, Pietro. Usciti da qui, il nostro viaggio artistico-religioso a Morano può proseguire verso la Collegiata di Santa Maria Maddalena, la chiesa di San Bernardino da Siena, il monastero di Colloreto, il Convento dei Cappuccini e le chiese di San Nicola e del Carmine.

Salendo per il borgo medievale, arriviamo al castello normanno-svevo. Qui restano i segni del tempo e delle epoche che lo hanno attraversato. La sua origine risale all’epoca romana, ma una nuova caratterizzazione venne data alla struttura dall’impero normanno-svevo. Arrivarono poi gli aragonesi che fecero diventare il castello, la prigione della Signora di Morano, Benvenuta Fasanella, moglie del potente feudatario Tancredi. Spostandoci dal cuore antico di Morano, possiamo visitare la Villa Comunale, polmone verde che ospita al suo interno: faggi, pini, olmi, roseti e bellissime siepi dalle svariate forme.

Il Lao viene definito da molti uno dei fiumi più spettacolari della Calabria dove poter vivere un’avventura piena di emozioni fra i monti del Pollino. Quello che più va in voga sul fiume Lao è il rafting perché questo corso d’acqua si presta alle caratteristiche di quest’attività. Bisogna affidarsi ad una guida certificata che conosce bene la zona. Questa ci farà salire su un gommone “speciale”, chiamato raft, che riesce a buttare fuori da solo l’acqua che entra all’interno e che ha la caratteristica di essere inaffondabile. Inizia così un emozionante viaggio fra le rapide in cui le nostre urla divertite si alterneranno ai colpi di pagaia per muoverci fino alla meta. Per vivere questa fantastica esperienza ci si può recare, ad esempio, nel paese di Laino Borgo dove diversi sono i soggetti che organizzano le escursioni lungo le gole del fiume Lao e diversi sono i pacchetti che vengono offerti: si va da quelli più soft a quelli più impegnativi per i veri amanti dell’avventura. Il percorso comincia ai piedi dell’abitato di Laino Borgo, dopo due chilometri di navigazione si raggiunge l’imbocco della gola e da qui la si percorre tutta per un tragitto di altri dodici chilometri. Un susseguirsi di emozioni che si vivono attraversando canyon di unica bellezza, caratterizzati dalle alte pareti rocciose e dalle varie cascate tra cui quella del Malomo, sicuramente una delle più suggestive.

Una bellezza al centro di una bellezza. Questo è il primo pensiero che ho fatto quando ho visto il Santuario della Madonna delle Cappelle di Laino Borgo che si trova proprio all’interno di uno splendido paesaggio naturale che accoglie quello che viene anche chiamato Santuario della Madonna dello Spasimo.

Fu costruito per volontà di un pellegrino del luogo, Domenico Longo, ed è formato da una chiesa e da 15 cappelle più piccole al cui interno vi sono diverse rappresentazioni della vita di Cristo, dalla sua nascita alla morte, e della vita della Vergine. Inoltre ogni cappella è affrescata con frasi tratte dal Vangelo. Nel 1557, appena rientrato da un viaggio in Terra Santa, Longo fece edificare cinque cappelle con le suggestioni provate in quell’esperienza. Poi, nel corso del tempo furono costruite le altre cappelle.

Entrando nel Santuario possiamo vedere sul soffitto la Deposizione di Gesù mentre le pareti sono decorate da due altari, uno dedicato alla Santissima Trinità e l’altro al Battesimo di Gesù. All’interno era custodita anche la statua della Madonna dello Spasimo che rappresenta la Vergine addolorata con il cuore trafitto da sette spade che simboleggiano i suoi dolori. La statua ha cambiato denominazione negli anni Novante quando, incoronata da Papa Giovanni Paolo II, prende il nome di Santissima Vergine Incoronata delle Cappelle con il capo decorato da una nuova corona d’oro, offerta dai fedeli, e pietre preziose realizzate dall’orafo calabrese Spadafora. La statua della Madonna dello Spasimo, purtroppo, è stata rubata nell’estate 2010 insieme alla statua di un Gesù Bambino.

È un vero e proprio paese abbandonato ma non per questo, Laino Castello, ha perso la sua bellezza. La storia che mi hanno raccontato di questo posto è molto affascinante. Siamo all’inizio degli anni Ottanta ed un forte terremoto fa in modo che gli abitanti di Laino Castello debbano andare via. C’è chi si sposta verso Laino Borgo, chi in altri paesi sparsi fra il Pollino calabrese e quello lucano.

Il territorio è molto complesso, si spazia dai 1291 metri del monte La Destra ai 175 metri della parte più bassa del fiume Lao. La storia di Laino Castello è legata a quella di Laino Borgo. I due paesi, per molti anni, rimasero uniti sotto l’unico nome di Laino Bruzio poi si divisero definitivamente nell’ottobre del 1947. In questo territorio ci sono tracce della presenza di popolazioni magnogreche, degli enotri e dei bizantini nonché dei monaci che seguivano la regola di San Basilio.

I luoghi più interessanti da vedere sono la Chiesa Madre di San Teodoro, d’origine bizantina, in cui era custodito un trittico di Pietro Befulco raffigurante la Madonna in trono con Bambino ed i Santi Teodoro e Gerolamo; la Chiesa di Santa Maria delle Vergini e i ruderi del castello longobardo, adibiti a cimitero in seguito all’editto di Saint Cloud del 1804.

Un’altra peculiarità di Laino Castello è il Borgo-albergo, un progetto sostenuto dall’amministrazione comunale e finalizzato al recupero dell’antico borgo, grazie al quale sono state già ristrutturate alcune strutture che offrono ai turisti la possibilità di visitare questo straordinario “paese fantasma”.

Appena sono giunta mi sono resa conto che è sì il più piccolo Comune della Basilicata, ma San Paolo Albanese è pieno di storia e tradizioni. Il paese è un mix di tradizione lucana ma, soprattutto, di quella arbëreshë perché nacque grazie alla fuga di coloni albanesi che, all’inizio del sedicesimo secolo, scapparono dal loro Paese d’origine dominato dai turchi. Sono poco più di 270 le persone che vivono qui, ma molte giungono a San Paolo Albanese per la festa di San Rocco e la danza del falcetto. Ogni 16 agosto, mi ha raccontato chi vive qui, si celebra la festa del Santo patrono con un antico rituale che vede portare in processione la statua di San Rocco preceduta dalla “Himunea”, un piccolo trono fatto di spine di grano e decorato con fiori e con nastri colorati. Questo trono è il simbolo della cultura contadina protetta da San Rocco. Durante la processione, la comunità si raduna per celebrare la “danza del falcetto”, rito di festa che serve ad allontanare tutti i brutti presagi della natura. I mietitori si mettono davanti alla statua di San Rocco e con le loro danze danno via al corteo mentre altri fedeli, accompagnati da musica tradizionale, portano sulle spalle le “Grenje”, fasci di spighe di grano. A San Paolo la tradizione è custodita anche nel Museo della Cultura Arbëreshë dove sono esposti costumi tradizionali italoalbanesi, antichi oggetti di uso quotidiano della comunità insieme poi a canti, filmati, immagini che ci raccontano la storia di questa comunità. Particolarmente interessante è la ricostruzione dell’intero ciclo di lavorazione della ginestra che va dalla raccolta alla trasformazione in filato.

Nel cuore dell’imponente montagna, avvolto dal profumo di ginestre e a circa mille metri sul livello del mare, sorge Terranova di Pollino. Situato ai piedi della “Grande Porta del Pollino”, si possono praticare da queste parti, accompagnati dalle guide del Parco Nazionale, trekking, canyoning, attività di arrampicata e speleologia, percorsi in mountain bike, escursionismo ad alta quota e ciaspolate. Qui a Terranova di Pollino conservano ancora tante tradizioni. Su tutte c’è la suggestiva Festa della Pita o come la chiamano qui “A Pit” che si celebra in onore di Sant’Antonio.

L’ultimo sabato di maggio un albero viene tagliato e trainato dalla montagna grazie ai buoi. Arrivati alle porte del paese, l’albero viene portato a braccia dagli abitanti di Terranova. Poi il 13 giugno giorno della festa l’albero viene issato, e diventa albero della cuccagna al quale, in cima, sono attaccati salumi e formaggi che il più abile a salire può prendere come bottino di vittoria.

Ai piedi dell’albero, canti, balli e la musica della zampogna a chiave che suona la tarantella. Maestri dello strumento e associazioni culturali fanno in modo che la tradizione della zampogna, e la sua costruzione, restino vive attraverso corsi che insegnano a suonarla e, nei vicoli del borgo, si possono visitare le botteghe dei maestri artigiani che realizzano gli strumenti. Proprio per questa nobile tradizione, Terranova del Pollino, dal 2015, è “Città custode dell’arte zampognara”.

La comunità vive un altro importante momento di festa a Carnevale grazie alla tradizione della “Frassa” quando giovani in maschera, al suono di zampogna ed altri caratteristici strumenti musicali, girano casa per casa cantando e ballando, ricevendo in cambio buon cibo e vino per festeggiare insieme. Natura, musica e tradizioni: fate come me e venite a Terranova di Pollino.

Può un alimento identificarsi così tanto con un territorio? Se, come me, vi recate a Senise la risposta è sì. È qui, infatti, che il peperone si tramuta in elemento di culto e diventa una specialità IGP, marchio di Indicazione Geografica Tipica, nel 1996.

Il peperone di Senise si divide in tre tipi: appuntito, tronco e uncino, e vengono tutti piantati tra febbraio e marzo e raccolti a mano a partire dai primi dieci giorni di agosto. Di colore rosso porpora, corto, piccolo e a forma conica, il peperone di Senise assomiglia al peperoncino, ma ha un sapore dolce con una polpa sottile e povera di acqua che lo rende ottimo per l’essiccazione. Il peperone di Senise può essere mangiato fresco ma la sua preparazione ideale è, appunto, essiccato secondo metodi tradizionali. I peperoni raccolti sono disposti in lunghe collane fatte a mano con lo spago e vengono poi lasciati essiccare sotto il sole. Per completare la disidratazione vengono, infine, passati in forno. I peperoni “cruschi” sono un tipico piatto lucano e, per renderli tali, bisogna immergerli nell’olio bollente e salarli per farli diventare croccanti. Per condire i salumi, in questa parte del Pollino, viene usata una polvere di peperoni cruschi triturati chiamata “zafaràn pisàt”. Un sapore unico che riprodurlo diventa praticamente impossibile.

 

Non solo io mi sono avventurata nel Pollino cosentino per bere un vino particolare. Già nel Cinquecento, il moscato di Saracena era fatto partire da Scalea con le navi così da poter arrivare sulla tavola imbandita della corte di Papa Pio IV. Si narra che Guglielmo Sirleto, cardinale custode della Biblioteca apostolica vaticana, ne fosse molto goloso. Nell’Ottocento il moscato di Saracena gode di grande splendore e viene citato in molti trattati enologici. Di lì a poco, però, ha rischiato di sparire ed è solo grazie alla determinazione dei cittadini di Saracena se ancora oggi viene bevuto.

Il moscato si ottiene dalle uve malvasia e guarnaccia alle quali si aggiungono piccole percentuali di uva “adduroca” e di moscatello di Saracena.

Il tutto viene vinificato seguendo antiche tradizioni che prevedono la bollitura del mosto ottenuto dalla pigiatura dell’uva malvasia e guarnaccia al quale si aggiunge poi quello ottenuto dagli acini essiccati di moscatello che vengono attentamente selezionati e sottoposti ad una leggera pressatura.

Alla fine della fermentazione il prodotto finale è un vino ambrato e molto profumato con un sentore di fichi secchi e frutta esotica, di mandorle e miele.

Grazie alle tradizioni familiari questo vino è riuscito a riemergere avendo così l’opportunità di poterlo gustare ancora oggi. Ogni volta che ne bevo un sorso penso o racconto con piacere della mia visita nel Pollino, a Saracena.

Il Santuario dove è custodita la Madonna del Pettoruto si trova a San Sosti, nell’alta Valle dell’Esaro che poi altro non è, che la parte più meridionale del Parco del Pollino calabrese, ai piedi dei monti Mula e Montea. Il nome pettoruto deriva da “petruto” cioè pietroso, roccioso, proprio come il paesaggio circostante percorso da centinaia di fedeli, ogni anno, per arrivare al santuario. Quando sono arrivato davanti a tutto ciò, mi sono reso conto della maestosità di questo posto.

Come capita per altri luoghi di culto del Pollino, anche per il Santuario della Madonna del Pettoruto esiste una leggenda che narra della sua edificazione e della statua amata dai fedeli.

La tradizione popolare attribuisce la realizzazione della statua della Madonna del Pettoruto a Nicola Mario di Altomonte. Siamo nel 1400 e l’uomo scappa dal paese natio perché accusato di omicidio. Durante questa latitanza, comparve davanti ai suoi occhi la Madonna con il Bambino e, questa visione, portò Nicola a scolpire, nella roccia di tufo, l’immagine. L’uomo venne poi scagionato dall’accusa di omicidio per la quale si professava, da sempre, innocente. Duecento anni dopo, l’immagine scolpita da quell’uomo venne ritrovata da un giovane pastore sordomuto in cerca di una pecora scappata dal suo gregge. Alla vista dell’effigie della Madonna con il Bambino, il pastore tornò a parlare e la Vergine gli affidò il compito di raccontare questa storia a tutti in modo da costruire un santuario a lei dedicato. Verità o leggenda, il Santuario della Madonna del Pettoruto oggi veglia su San Sosti e, dal 1979, è basilica minore per volontà di Papa Giovanni Paolo II.

La caratteristica principale della Madonna del Pettoruto è l’essere scolpita a mezzo busto e non a figura intera come normalmente accade per altre. Sotto l’occhio destro c’è una cicatrice a cui è legata un’altra legenda. Alcuni briganti volevano dimostrare che la Madonna ritratta era fatta di carne e per fare questo incisero parte del viso dal quale uscì fuori il sangue. Nella mano destra tiene un ramo di melograno, considerato simbolo di fertilità, che ha reso la Madonna del Pettoruto molto “invocata” dalle donne con problemi di sterilità. A settembre i fedeli si mettono in marcia lungo il percorso tortuoso che porta al Santuario per omaggiare la Vergine, mentre la prima domenica di maggio una bambina è la protagonista della “festa della cinta”. La giovane ha in testa un cestino adornato con fiori e seta e riempito di cordicelle di cera e si dirige verso il Santuario, dove questa cinta verrà distrutta e distribuita fra i fedeli che le daranno fuoco nei momenti di difficoltà.