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Sapevate che il lavoro di denuncia sociale di Gardin contribuì a far passare la legge Basaglia?

Uno dei suoi progetti più importanti, infatti, è quello dei manicomi, che aiutò a far passare la legge Basaglia nel 1978 disponendo la chiusura dei manicomi, segnando una svolta totale nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici.

Diversi anni prima, mentre Basaglia avviava già le sue prime esperienze anti-istituzionali nei confronti nell’ambito della cura dei malati mentali, Berengo Gardin insieme a Carla Cerati realizzavano i primi reportage nei manicomi, che poi divennero parte del libro “Morire di classe”, che diede grande contributo, usando quelle immagini forti e di denuncia sullo stato dei pazienti nelle strutture.

“Ogni volta che facevamo foto spiegavamo ai malati perché volevamo fotografarli e loro capivano, ci davano la loro approvazione. Cercavo di non fotografare il malato e “la malattia per la malattia” ma la condizione nella quale era costretto il malato: alcune cose che succedevano erano già proibite per legge ma venivano comunque fatte.”

Uno scatto per fermare il tempo che fugge… questo è l’obiettivo di Branzi che ha colto questo istante nel 1954, in un vicolo di Comacchio.

Una fotografia, come una metafora.

Branzi narra cosa c’è dietro quello scatto iconico: «Mi sorpassa un ragazzotto con sulle spalle un enorme orologio. Grande e rotondo, come quelli che si usava portare nella tasca della giacca appeso a una robusta catenella, un barbazzale d’oro per i benestanti. Funziona, sento il tic-tac, ma le lancette sono irrequiete, saltellano irregolarmente ad ogni sobbalzo. Convinco il ragazzo a fermarsi e farsi fotografare. C’è un’ampia pozzanghera sulla stradina, al centro di una quinta di muri corrosi. Il quadrante si riflette nello specchio d’acqua, si sdoppia, mi offre la chiave di lettura che cercavo di questo intrigante lembo di terra, dove il tempo sembra essersi fermato, sospeso in un silenzio d’acquario, una muta inquietudine metafisica.

Altri ragazzi non si tirano indietro, vogliono farsi fotografare. Cerco altre soluzioni formali, ma avverto che i primi scatti hanno già dato la risposta che cercavo.

È il tardo pomeriggio e la luce sta calando velocemente. Sopraggiunge un adulto che preleva il bizzarro orologio fuori misura, che segna il tempo con emblematica indefinitezza, lo porta alla sua naturale destinazione: insegna pubblicitaria di un orologiaio».

Gli occhi verdi indimenticabili, la luce perfetta, l’inquadratura ideale…
Sharbat Bibi è la ragazza afgana fotografata da Steve McCurry per National Geographic. Si tratta di uno degli scatti più noti della storia contemporanea.

Realizzata nel 1984 dal fotografo statunitense, la fotografia è frutto di un reportage nei campi profughi allestiti lungo la frontiera afgano-pakistana. McCurry la realizzò in una classe, in una di quelle scuole di fortuna per rifugiati. Perché scelse proprio Gula lo spiegò successivamente:

“Mi accorsi subito di lei. Aveva un’espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante”. Il motivo del successo dell’immagine è, ancora una volta, nelle parole dell’autore: “per un istante tutto era stato perfetto, la luce, lo sfondo, l’espressione dei suoi occhi”.

Oggi parliamo del bacio più famoso della storia.

Improvvisamente un bacio tra la folla che festeggia la fine della Guerra, a poche ore dall’annuncio del Presidente Truman della firma della resa del Giappone.

È il giorno della Vittoria.

Ma chi sono i due protagonisti di questo bacio col casqué? Non è questo che conta e Eisenstaedt non ha avuto tempo per chiederlo. L’energia che sprigiona la coppia effimera, incurante di chi guarda sorridendo, è la forza della vita dopo anni di guerra e morte. È la gioia del ritorno a casa per sempre, ed è questo che cattura Eisenstaedt con la sua abilità di grande fotografo.

Un’immagine che diventa simbolo di pace proprio grazie ai 2 protagonisti, un marinaio e un’infermiera, in cui tutti gli Stati Uniti si riconoscono.

La fotografia, scattata a New York sulla 5th Avenue, l’arteria principale della città dove sfileranno i soldati per la parata della Vittoria, diventerà tra le più celebri di ogni tempo, fino ad essere il soggetto di una statua, spunto per numerosissime pubblicità e citazioni cinematografiche.

A seguito della Seconda Guerra Mondiale, i governi degli alleati divisero la città di Berlino. In questa iconica foto, il soldato Schumann si aggrappa al filo spinato, desiderando ardentemente di sfuggire alla Berlino dell’est e di distaccarsi dal conflitto.

Questa immagine rappresenta ancora oggi la forza dell’animo umano e il desiderio implacabile di libertà.

La sua storia continua ad ispirare e a ricordarci che la speranza e la libertà sono forze inarrestabili.

Arriva a Camera – Centro Italiano per la Fotografia, dal 19 luglio all’8 ottobre, la retrospettiva dedicata a Dorothea Lange.

Autrice di una delle icone più celebri del secolo, la toccante Migrant Mother scattata nel 1936, Lange è una delle protagoniste della fotografia documentaria del Novecento.

Questa fotografia è l’immagine identificativa della Grande Depressione: mostra una donna che incarna la sofferenza di un’intera nazione, ma anche una madre che è ancora in grado di proteggere i suoi figli, nonostante tutto.

Ha scosso le coscienze individualiste degli americani e li ha obbligati moralmente a una reazione positiva di fronte a quello che stava accadendo: in altre parole, è diventata uno strumento politico di straordinaria efficacia.

Fu scattata dalla Lange a Nipomo, nell’Imperial Valley, nei primi giorni di marzo del ‘36: la fotografa stava transitando con la sua auto nei pressi di un campo che ospitava oltre duemila braccianti impiegati nella raccolta dei piselli precoci.

Il gelo aveva appena distrutto gran parte della produzione e la situazione stava peggiorando di giorno in giorno.

Pizzo Calabro, l’incantevole cittadina tirrenica del famoso tartufo gelato. Decido di scendere verso il mare partendo dal Convento di San Francesco di Paola, il santo calabrese. Ma la prima tappa è d’obbligo nella piazza principale: il primo desiderio da soddisfare è quello di assaporare uno dei gelati più buoni del sud.
Durante la passeggiata è una gioia per gli occhi e i sensi, tutti e cinque: sulla sinistra non posso fare a meno di notare la piccola Chiesa dell’Immacolata con la sua facciata bianco latte puntinata da dorate sfumature, curata nei dettagli scrupolosamente, elegante e in pieno splendore.

Dopo la sosta decido di arrivare sul punto più alto della piazza principale in modo da avere una visione differente, infatti riesco a scorgere la folla affacciata dalla grande terrazza e il castello aragonese Murat divisi dalla strada che scende verso il mare.
Ritorno giù e noto un’altra piccola terrazza che si affaccia sulla spiaggia dorata di Pizzo marina e basta poco per ritrovarsi di fronte alla Torre e all’ingresso del castello. Mentre scendo tra i vicoletti posso spiare il mare e mi accorgo che ogni veduta è diversa dalle altre. Camminando mi sembra di percorrere una strada che ha la direzione dell’immensità.

Arrivati quasi alla marina si intravede un grande arco in pietra che mi porta in uno dei tanti vicoli della parte storica inferiore del paese. Ormai ci siamo, la salsedine inizia a sentirsi e intravedo il tappeto di sabbia, la voglia di mettersi a piedi nudi e sentire le carezze dell piccole dune è tanta. Mi giro a 360 gradi e ammiro la parte superiore del paese e il castello che vigilano sul mare e le spiagge.

Mi rimane da calcare quel molo che si inoltra nel mare, arrivo alla punta e mi sento un piccolo frammento nell’universo, vedo solo il mare con il suo orizzonte pronto a inghiottire quel sole ormai stanco, ma pronto a ridare luce e illuminare le bellezze della splendida cittadina di Pizzo Calabro.