Il buco doveva essere stato, anticamente, la ricca casa di qualcuno. Le pareti portavano i segni sbiaditi di carminio, ocra, verde, bianco e blu. Erano pezzi di un disegno che si rincorrevano fra le pietre corrose dall’acqua, dal tempo, dalla sporcizia, dalla terra, dalla morte, che in quel luogo banchettavano giocandosi per noia il destino dei prigionieri.

Sembravano tracce di ricordi che ti vengono a cercare quando meno te lo aspetti: li vedi bene, eppure non li riconosci e poi te ne dimentichi; per tutto il giorno ti lasciano languido e pensoso perché c’indovini qualcosa di bello che di sicuro dovrà accadere di nuovo. Sembra il soffio di altre vite che vengono a tirarti i capelli, tra il dispetto e la carezza.  E allora aspetti qualcosa che non conosci ma di cui senti di aver bisogno.

L’eco portava le grida che si fermavano nel buco, e da un grido ne usciva un altro e poi un altro ancora fino a formare una catena assordante, una canzone lunga un’eternità: dieci minuti.

Tanto ci voleva per decretare morte o assoluzione: chi resiste è innocente.

Nessuno le aveva detto se aveva resistito.

Sentiva un battere continuo fra le gambe; una pulsione che si espandeva dentro alle pareti del suo grembo, con unghie sottili come spilli vi si artigliava, e ritirandosi, portava via con se carne e sangue.

Non capiva se stesse succedendo ancora o se fosse il ricordo del dolore, la vita che si ribellava all’affronto delle ferite inferte .

La testa le pesava sul collo e cercava di tenerla su con le mani prive di unghie; le braccia stanche però ricadevano sui fianchi, la testa sul petto.

Una cosa sul muro sembrava guardarla.

Un insetto.

Si ripuliva le ali e la testa con le zampe, poi si fermava per rivolgerle lo sguardo nero e imperscrutabile. Era una cicala. Un riflesso d’estate finito chissà come nel buco umido in pieno inverno.

‒ Cosa vedono gli insetti? Come ci percepiscono? ‒ Le urla che venivano da fuori, quelle che lei forse aveva emesso, non lo distraevano dal suo lavoro. Il mondo circostante non lo toccava. E pensò di aver immaginato un dio umano ed enorme per tutta la vita: cosa c’era di più simile a dio di un insetto indifferente, che ascolta senza tremare il dolore e ti guarda contorcerti senza poterti dare aiuto?

Che fosse il suo signore che veniva a prenderla? Una volta morta, l’avrebbe portata sulle sue ali e posata da qualche parte sotto un albero di noce insieme alle altre sorelle; in paradiso o all’inferno, non si sa, ma al sicuro.

Un angelo, un diavolo? Non aveva mai fatto differenza.

Lei non agiva in male, non agiva in bene: faceva quel che le avevano insegnato e che andava fatto. Far nascere un bambino o farlo morire prima che nascesse, non era suo compito deciderlo. La fame, lo stupro, la noia, la distrazione, il desiderio concepivano. Le sue mani erano aiuto a trascinare alla luce chi doveva nascere, a relegare nel buio chi non era stato voluto.

Non si chiedeva certo adesso quale fosse la natura di colui che la guardava.

Le arti imparate nel suo nome le avevano dato un’identità, un destino, un motivo per vivere e per morirne. Angelo o diavolo lei l’aveva servito.

Il dolore la prese di nuovo, e questa volta sentì un frutto marcio spremersi nella sua pancia. Ancora sangue nero e pezzi di carne le fluivano dal centro del corpo, fra le cosce. Era come quando vedeva uscire fuori i bambini dalla ferita sempre aperta che tutte le donne hanno per castigo del cielo.

Partoriva la morte?

Era questo il suo castigo per aver infranto la legge dell’uomo?

La cicala sul muro cominciò a cantare.

Sapeva bene che era un canto d’amore: nei campi d’estate, milioni di cicale maschio invitano le femmine ad unirsi a loro.

La stava chiamando.

La stava invitando a seguirlo.

La esortava a recitare le sue preghiere.

Cominciò a sussurrarle e continuò fino all’alba.

Le sembrò che l’insetto si fosse unito alla sua litania e che pronunciasse le sue stesse parole.

Quando al mattino andarono a prenderla, la trovarono allucinata e sorridente: gli occhi quasi rivoltati, il viso contro la parete, un sorriso, mentre ancora recitava:

“Omne male percusiccio Omne malestravalcaticcio Omne male fantasmaticcio
d’eco el toglia et la terra l’arecoglia”

Una guardia vide la cicala canterina ferma sul muro, la schiacciò

“Brutto diavolaccio, sei venuto a riprenderti la puttana!”

Ella si svegliò dal torpore.  Ammutolì: era davvero il suo signore angelo o diavolo chi lo sa?

Mentre la trascinavano fuori, continuò a guardare la cicala finché non poté più vederla.

Sulla parete, il cadavere di un insetto.

Una morte inutile. Una morte per la quale non piangerà nessuno. Una morte violenta raccontata da una macchia impressa sulla parete. La morte di un piccolo, sconosciuto dio.

Ermanna Serpe

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