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Io a Matera ci sono arrivata di sera. È stato Google Maps a stabilire che la città dovessi raggiungerla attraversando l’aperta campagna e le strade strette e desolate. Forse era un segno, perché ho poi capito che di quella città, prima ancora di scoprire i luoghi di cultura, dovevo comprendere le radici e i sapori contadini. E così, per assecondare gli eventi, ma anche per riabbracciare le mie amiche, appena arrivata mi sono infilata in uno dei locali del centro; quelli in cui, lo capisci dall’insegna, la mescita è appannaggio esclusivo delle nuove generazioni. I giovani materani hanno segni distintivi che riconosci solo se sei meridionale della resistenza 2.0, ed io, modestamente, lo sono.

Nei loro occhi c’è l’audacia di chi non se n’è andato, la speranza di chi è tornato, l’orgoglio di chi ha resistito, la serenità di chi si è sottratto ai processi di massificazione.

Tra un calice e l’altro, è spuntata una foto di me con una bellissima aureola geometrica, stampata alle mie spalle insieme ad altre, mentre sorseggio un corposo rosso: la prova della mia santità baccanale è su Instagram, tracciabile con l’hashtag #blasfemia. Ma quei disegni geometrici, psichedelici, simmetrici e ricorrenti, non l’avevo mica capito a cosa erano ispirati.

Mi serviva una videolezione di urbanistica, per leggere i segni della città, ed eccola servita: il mio tour, in una fredda ma brillante giornata di sole, è iniziato la mattina dopo, a casa Noah, edificio patrimonio Fai. La storia di Matera, raccontata dai video proiettati sulle pareti, ha cambiato il mio modo di camminare. Per esempio, ho riconosciuto i bellissimi rosoni geometrici, che mi avevano fatto da aureola la sera prima, nei bocchettoni d’aerazione in coccio delle case.

Quando sono uscita da lì, i passi nei Sassi erano scanditi da una curiosità tutta nuova, dall’attenzione per i dettagli, dal rispetto per una città che sta costruendo il suo riscatto.

L’intensità di questo bisogno di riscatto l’avevo appena appresa da un video emozionante. Dario Franceschini, da un grande schermo, annunciava alla piazza la vittoria della candidatura: Matera è capitale europea della cultura 2019. Migliaia di persone esultavano senza riuscire a contenere la gioia; guardare quelle persone piangere dalla commozione mi ha riempito di orgoglio calabro-lucano, mi ha riempito di fierezza.

Viene da chiedersi se saranno in grado, i materani, di trasformare questa forza magnetica in risorse future per il territorio. Ma se – come narrano i documentari – fino a 15 anni fa i sassi erano due quartieri fantasma, e il processo di rinascita è stato così rapido, allora Matera tutto può.

La cultura che bisogna cercare a Matera è la lentezza del gustare la vita, la semplicità dei sapori, l’autenticità dei rapporti sociali. Ho finalmente capito di quale cultura è capitale Matera.

Se vai a Matera, stai cercando il sapore della burrata e dei pipi cruschi, del pane buono e delle rape; stai cercando il sole e le chiacchierate lente, e perderti con lo sguardo alla ricerca dei segni distintivi della città.

Una volta un’insolita balaustra, una volta la cupola di una chiesta, un’altra volta un costone di roccia, la valle scura e deserta intorno, le improbabili piazze, gli alberi in mezzo ai massi, i giardini, i balconcini, le scalinate. Mentre stavo seduta a gustare i sapori della tradizione, i piedi mi friggevano. Avevo una voglia incredibile di mettere alla prova il mio senso dell’orientamento, di scoprire la città. Ma perdersi nei suoi vicoli è fin troppo facile: lo ammetto, ci sono cascata pure io.

Così intensa, così timida tra le colline, così originale. Che stupore, Matera!